La borghesia chiama D'Alema alla neutralità nello scontro tra le varie fazioni del capitale.
Brani dell'intervista a Tronchetti Provera pubblicata sul Corriere della Sera il 7 ottobre 1999. REDS. Ottobre 1999.


I brani dell'intervista a Tronchetti Provera che qui riproduciamo servono a capire meglio l'atteggiamento della borghesia nei confronti di questo governo. Il refrain si ripete da mesi: D'Alema è bravo, ma la sua coalizione no. Vari editoriali dei maggiori quotidiani borghesi vanno sostenendo i limiti "strutturali" di un centro sinistra che comunque deve rendere conto ai sindacati, di una sinistra cioè che non può rompere totalmente con la propria base sociale. Il centro-sinistra si è assunto un ruolo di difensore del capitalismo italiano di fronte alla maggior potenza degli altri imperialismi europei. E' un ruolo tradizionalmente giocato dallo stato e dai suoi governi. Particolarmente necessario in Italia dove vi è una cronica scarsezza di capitali. Ma la borghesia è diffidente: il personale politico che dovrebbe condurre questa operazione non è di sua totale fiducia perché viene dalle fila del movimento operaio, se ci fosse il governo Ciampi, o Dini, se ci fosse un partito borghese di cui fidarsi, sarebbe altro conto. Del resto come trovare appoggio in Berlusconi che ha interessi di parte?

brani di
D'ALEMA NON SCHIERARTI. IL CAPITALISMO È FRAGILE
7
ottobre 1999 di Federico Rampini pubblicato dal La Repubblica

"Un capitalismo nato con l'impronta dominante dello Stato arriva alla svolta delle privatizzazioni senza strumenti adeguati come i fondi pensione; e a gestire questa delicata transizione, è la stessa classe politica che per decenni ebbe ideologie anticapitaliste e contrastò l'economia di mercato. Questa è l'Italia di oggi con le sue contraddizioni. Una situazione oggettivamente difficile, con pochi attori privati in campo, poche ricchezze da investire, e tanti ritardi strutturali". Parla Marco Tronchetti Provera, presidente della Pirelli: quello che molti dipingono (forse non a torto) come l'erede spirituale di Gianni Agnelli nella nuova classe dirigente del capitalismo italiano. In questa intervista il leader della grande borghesia milanese non lesina appoggi al governo, ma con un avvertimento: D'Alema non deve scegliere tra Milano e Torino, tra Cuccia e Agnelli, perché non si costruisce un capitalismo nazionale più forte sulla sconfitta e l'isolamento della Fiat. Partendo dagli insegnamenti del caso Telecom, Tronchetti indica i limiti di un capitalismo senza capitali, i rischi nascosti nella politica dei "campioni nazionali", e le regole da seguire nel rapporto tra governo e poteri forti.
Nella sua politica industriale "interventista", il governo D'Alema è parso spesso condizionato dal timore che l'ingresso in Eurolandia segni l'inizio di una colonizzazione straniera dell'economia italiana. Le sembra corretto?
"In parte è legittimo il desiderio di evitare che l'intervento dei capitali esteri nella nostra industria diventi dominante, visto che non abbiamo altre strutture nazionali forti, come ad esempio i mercati finanziari del mondo anglosassone".
Ma l'ideologia dei "campioni" industriali nazionali rallenta le liberalizzazioni. Per fare grande l'Enel si è varato un mercato elettrico meno concorrenziale del dovuto; la liberalizzazione del gas forse sarà addolcita per non penalizzare troppo l'Eni. Dietro l'etichetta dei campioni nazionali rispunta la difesa dei monopoli...
"Questo accade perché il quadro politico è condizionato da forze che non credono fino in fondo nella superiorità del mercato. In questa chiave il campione nazionale diventa un arnese di certa propaganda populista. D'altra parte visioni di ampio respiro non sembrano arrivare neanche dall'opposizione".
Questo nazionalismo industriale non nasconde tentazioni protezioniste, una cultura autarchica?
"C'è il rischio che i cosiddetti campioni nazionali si chiudano in difesa, che non affrontino la partita sul mercato aperto. È un teorema che poggia su pilastri fragili. Ma se si vuole c'è spazio anche per un nazionalismo virtuoso, che parta da questo principio: avendo poche forze, dobbiamo mobilitarle tutte. Se invece ci lasciamo paralizzare dai conflitti tra cordate, se vogliamo rinchiudere il capitalismo italiano nella vecchia logica dei guelfi e ghibellini, sarà impossibile valorizzare le nostre risorse. Queste divisioni non giovano alla politica, né fanno avanzare la costruzione di grandi gruppi italiani competitivi in Europa".
Lei rifiuta l'idea dello scontro tra Milano e Torino, tra Agnelli e Mediobanca, in cui il governo è parso schierato con Cuccia?
"La crescita del capitalismo italiano ha bisogno del contributo di tutti, comprese quelle forze che magari per motivi diversi possono essere meno gradite. Le sfide che affrontiamo richiedono che al tavolo ci sia posto per ognuno - purché portatore di progetti validi - nella certezza che nessuno potrà avere una posizione dominante perché il terreno di gioco non sarà più solo il mercato interno".

...............................................................

E cosa pensa dei rapporti tra D'Alema e i poteri forti, in particolare alla luce degli incontri tra il presidente del Consiglio e Cuccia?
"Mi lasci prima di tutto ricordare che il presidente del Consiglio ha affrontato con grande senso dello Stato la più grave crisi internazionale del dopoguerra, in Kosovo, e la comunità internazionale glielo ha riconosciuto. Sta portando avanti, pur a fatica, un progetto di modernizzazione del paese. Vedo ostacoli, arretramenti: dalle pensioni alla legge sulle rappresentanze sindacali nelle piccole imprese. Ma i suoi progetti meritano sostegno. E se la realizzazione rimane tanto difficile, è per colpa del quadro istituzionale. Spesso ha dovuto fare marcia indietro perché le corporazioni hanno fatto quadrato contro le riforme. Ci vuole un respiro di legislatura perché un governo possa dare risultati. E occorrono regole di sistema meno paralizzanti".
Ma torniamo ai rapporti con gli industriali: che effetto le fa quello spettacolo dei grandi capitalisti italiani che fanno la fila per essere ricevuti a Palazzo Chigi?
"Il governo ha un potere di indirizzo sulle grandi scelte economiche del paese. Quando il presidente del Consiglio incontra i rappresentanti del sistema delle imprese, o del mondo finanziario, è certamente positivo se questo incontro è finalizzato al migliore utilizzo delle forze economiche nazionali. Non lo è, se il governo compie scelte di parte in situazioni di conflitto: solo in questa seconda chiave, la coda a Palazzo Chigi può essere negativa. È sbagliato immaginare un'Italia finanziaria e industriale che si divide in due schieramenti. Abbiamo poche risorse su cui fondare il rilancio dello sviluppo: non lo si costruisce sulla sconfitta di una delle parti".
A pochi giorni dalla privatizzazione dell'Enel, non la preoccupa la diversificazione a tutto campo del monopolista elettrico, e la teorizzazione della "multi-utility" fatta da Tatò?
"Qualche esempio di multi-utility c'è in Francia. L'importante è che queste aziende vadano sul mercato: lì sarà giudicata la bontà della loro strategia, si vedrà se la diversificazione rende o se invece non sia meglio focalizzarsi sui singole attività. Se si accettano le regole e i giudizi del mercato, non credo si debbano temere i fantasmi del passato".
Quindi lei non vede il rischio che l'Enel diventi una nuova Iri?
"No, son troppo cambiati i tempi, e gli attori. Non credo a un nuovo intreccio surrettizio fra politica e affari come all'epoca delle partecipazioni statali. Ma perché quei timori a cui lei allude non si avverino, occorre che il mercato di cui parliamo sia autentico, evoluto, forte. Ci vogliono veri fondi pensione, che possono nascere solo liberando il Tfr, quindi riducendo gli oneri previdenziali sulle aziende, quindi attaccando gli squilibri del sistema pensionistico. Le corporazioni possono continuare a far finta che questo problema non esista. Ma c'è, grande come una montagna, ed è il principale ostacolo di fronte a noi".