Il giorno dopo.
Che fare dopo la straordinaria prova di forza dello sciopero generale? Perché è sbagliato prospettare ora un referendum sull'art.18. REDS. Maggio 2002.


Dimensioni dello sciopero

Lo sciopero generale del 16 aprile ha avuto un indubbio successo, riconosciuto anche dai grandi giornali della borghesia. Il giorno dopo l'editoriale del Corriere della Sera a firma di Paolo Franchi affermava: "Almeno stavolta il tradizionale balletto delle cifre sulle astensioni dal lavoro e sulla partecipazione alle manifestazioni sindacali lascia il tempo che trova. Lo sciopero generale è riuscito, le manifestazioni anche. L'Italia si è fermata, esattamente come avevano promesso Cofferati, Pezzotta e Angeletti."

Alle ore 13 la richiesta nazionale di energia elettrica era di 28.455 Mw (miliardi di chilowattora) contro i 37.919 della settimana precedente (e i 25.052 della domenica). Il giorno dello sciopero la Confindustria stessa ammetteva una partecipazione maggioritaria (60%). Anche se le cifre fornite dai sindacati apparivano poco credibili (90%) hanno certamente scioperato le grandi industrie e le medie (compresi i suoi settori precarizzati), una partecipazione della scuola intorno al 50%, i trasporti. Ci sono stati anche dei "buchi", sui quali si dovrà meditare: la grande distribuzione, dove si concentra una classe lavoratrice giovane, non ha scioperato, così come i piccoli posti di lavoro (e si capisce bene perché la Confindustria vorrebbe estendere quelle condizioni ovunque). Altissima la partecipazione alle 21 manifestazioni cittadine indette dai sindacati. Le cifre fornite da questi sono poco credibili, ma in tutti i casi servono per dare un'idea: 300.000 a Milano, 200.000 a Roma, 350.000 a Bologna, 150.000, 400.000 a Firenze, 120.000 a Napoli. Lo sciopero ha goduto di una estesa simpatia nonostante la maggioranza dei mass media l'avesse osteggiato (ma non le redazioni che hanno aderito allo sciopero, salvo i fogli di propaganda di Berlusconi). Un sondaggio dell'Istituto CIRM pubblicato su La Repubblica del 17 aprile riferiva di un 67% che riteneva giusto lo sciopero, un 28% contrario e un 5% senza opinione.

Il governo Berlusconi

Anche Berlusconi è stato costretto a moderare le sue bugie (lo sciopero è stato "contenuto"), ma non sembra abbia alcuna intenzione di mollare. Il governo Berlusconi è nato proprio per spezzare il "diritto di veto" delle organizzazioni sindacali, che virtualmente vige dagli anni settanta. Questa rappresentanza politica, la destra forzista-leghista-nazionalalleata, è particolarmente adatta allo scopo. La destra italiana non ha terminali sindacali nei posti di lavoro (li avevano invece la Democrazia Cristiana e il PSI) e dunque non ha antenne per captare un clima di radicalizzazione crescente che potrebbe prima o poi creare loro dei seri problemi. Data la particolare natura delle relazioni tra le classi in Italia, e che altre volte abbiamo analizzato, negli ultimi tre decenni per costringere gli esecutivi alla trattativa non solo bastava uno sciopero generale, ma anche la sua semplice minaccia. Non si trattava di viltà, ma della coscienza di quel che stava dietro le organizzazioni sindacali: una massa in ebollizione con settori disponibili a forme fortemente radicali di lotta. Per avere un'idea di questo potenziale, basti pensare allo sciopero degli addetti alle pulizie delle stazioni ferroviarie di un mese fa: relativamente in pochi hanno dato vita ad uno sciopero ad oltranza che ha messo in crisi il sistema di trasporto su rotaia costringendo la controparte alla trattativa: si trattava di lavoratori senza alle spalle alcuna organizzazione sindacale (nemmeno "di base"). A suo tempo DC, PSI e ovviamente anche i dirigenti di sinistra parlavano e straparlavano di fine della classe operaia ma avevano fatto un'esperienza talmente forte negli anni settanta della radicalità dei lavoratori italiani da renderli estremamente prudenti e disponibili a concordare con le dirigenze sindacali gli arretramenti degli anni novanta. Berlusconi invece non ha questa memoria, non ha mai fatto esperienza diretta delle tendenze "sovversive" delle masse italiane, e dunque non si accontenta delle minacce: vuol vedere le carte.

La destra ha bisogno di "sbatterci il naso" per cambiare rotta, non è una rappresentanza in grado di recepire "segnali", e preoccuparsene. La destra è l'espressione genuina della classe dominante italiana, che non è costituita solo dagli Agnelli e dai Tronchetti Provera, ma dai siur Brambilla, da una miriade di piccoli e medi capitalisti che finché possono sopravvivono nelle nicchie lasciate intatte dalla bufera della globalizzazione (che, come abbiamo già visto in un nostro materiale è essenzialmente aumento della concorrenza internazionale), e strutturalmente portati al "mordi e fuggi", al "prendi e porta subito a casa", con un atteggiamento rancoroso e rivendicativo nei confronti dello Stato, che non sentono come cosa loro, perché del suo governo non hanno mai fatto esperienza diretta avendone per decenni delegato il controllo ai "partiti", cioè in buona sostanza alla DC. Alcuni provvedimenti del governo Berlusconi sono al riguardo estremamente significativi: allo studio la depenalizzazione dei fallimenti, già realizzata quella del falso in bilancio. Misure cioè contrarie al funzionamento "sano" del capitalismo, di un capitalismo cioè che abbia intenzione di proiettarsi sul piano mondiale nella contesa con gli altri imperialismi. Ma adattissimo alla vasta platea degli imprenditori furbacchioni. Non a caso il superministro dell'economia è un fiscalista, un Tremonti specializzato nel dare istruzioni ai ricchi su come pagare meno tasse, non certo uno stratega dedito al rafforzamento della posizione internazionale del capitalismo italiano. Non a caso si rinuncia al progetto di partecipazione strategica nell'Airbus, ma allo stesso tempo Berlusconi si dedica alla trasformazione delle ambasciate all'estero in camere di commercio e procacciatrici di affari per i nostri businessmen.

Ma non si pensi che, dunque, il grande capitale italiano stia remando contro. Il grande capitale italiano, come abbiamo già a suo tempo argomentato, ha attivamente favorito la vittoria della destra. Vorrebbe un po' più di savoir faire, probabilmente avrebbe lasciato perdere l'art.18 pur di ottenere in cambio succose contropartite, è in grado di vedere a medio termine il pericolo della formazione di una nuova generazione di lavoratori combattivi e politicizzati. Ma è ben contento che vi sia una direzione politica decisa a portare avanti, in fretta, una serie di "riforme" che essa ritiene indispensabili, ad esempio quella pensionistica, con il lancio vero dei fondi pensione. E per questo è disposta a tollerare che la destra e la sua rappresentanza sociale si portino a casa il bottino della rapina, se con ciò gli si lascia in mano la banca.

La tattica sindacale

Di fronte a questo governo, e a questa rappresentanza politica, la tattica sindacale sta mostrando i suoi limiti. Gli scioperi e le manifestazioni che sino ad ora abbiamo visto a partire da gennaio, sono state numerose, ma si è trattato comunque di "segnali". Ma i "segnali" questo governo non li coglie. Non ci sono state sino ad ora forme di lotta che facessero davvero "male" alla Confindustria. Perché l'avversaria è questa, più che il governo Berlusconi. Ciò è stato chiaro nei giorni precedenti il 23 quando ad uno sbandamento governativo cui pareva seguisse l'abbandono della volontà di modifica dell'art.18, D'Amato si impose perentoriamente, arrivando, secondo pettegolezzi giornalistici, a minacciare le sue dimissioni da Confindustria nel caso il governo avesse ceduto. Il prezzo lo deve pagare Confindustria, e allora il governo si adeguerà. Sentiamo invece circolare nella burocrazia sindacale pericolose speranze di divisioni interne alla maggioranza, di ripensamenti dovuti ai possibili insuccessi alle prossime elezioni amministrative. Speranze di questo genere non consentono di adottare una tattica all'altezza della posta in gioco. Se si persiste a lanciare "segnali", a voler "dimostrare" di avere in pugno i lavoratori, non si andrà da nessuna parte.

E la tattica deve essere la stessa degli scioperi del novembre-dicembre 1995 in Francia e dei quali parliamo in altra parte della rivista. Anche allora vi era una maggioranza indiscutibile nel Parlamento francese, anche allora vi era la piena convergenza della Confindustria locale sul piano Juppé-Chirac, anche allora la maggioranza dei media era favorevole al governo e al presidente. Anche allora la sinistra era uscita distrutta dal confronto elettorale per aver condotto per anni, al governo, una politica moderata. Ma con un movimento di scioperi a oltranza che ha coinvolto solo una fetta di lavoratori, ma collocati in posizioni strategiche (trasporti, energia, telecomunicazioni), la destra fu piegata dopo tre settimane di paralisi nazionale.

Dobbiamo fare ora qualcosa di molto simile. Non è necessario far pagare ai lavoratori un prezzo troppo alto: uno sciopero generale di 36 ore come a volte si è visto in America Latina rischierebbe di essere ingoiato anche quello da una destra assai determinata. Serve invece una tattica che progressivamente paralizzi la produzione, in maniera continuativa. Questa tattica dovrebbe essere combinata con quella dei sindacati tedeschi che in occasione delle lotte contrattuali evitano gli scioperi generali di categoria e preferiscono invece bloccare alcune industrie chiave, che implicano la fermata a monte e a valle di molte altre, che pure teoricamente non sono coinvolte dallo sciopero. Ciò significa l'adozione di mezzi quali le casse di resistenza, in modo da non far pagare solo a una parte di lavoratori l'onere della lotta contro Berlusconi.

Speranze e no

Che speranze vi sono che, persistendo l'attuale tattica sindacale, il governo ceda sull'art.18? Nessuna. Che speranze vi sono che ceda dopo un movimento di sciopero che paralizzi l'Italia? Molte, perché proprio quella borghesia che sostiene Berlusconi è attentissima al soldo e vuole "agganciare" la ripresa senza perdere un grammo di profitto. Solo il grande capitale dispone della tempra (e dei soldi) per resistere nel tempo a un'offensiva dei lavoratori come nel 1980 fece la FIAT contro i suoi operai, ma oggi è proprio questa frazione che più teme lo scontro con i sindacati. L'ultima domanda: che speranze vi sono che i sindacati adottino questa tattica? Nessuna, se non spinti dal basso. Anche in Francia nel 1995 non furono i massimi dirigenti sindacali a prolungare lo sciopero, ma l'iniziativa di una singola categoria (i ferrovieri), poi seguita da altre.

Non è nella cultura di questa burocrazia sindacale far sul serio "del male" al capitale. Quando si è mostrata radicale nelle forme di lotta è sempre stato perché costretta a inseguire i sottostanti movimenti dal basso. Siamo perfettamente coscienti che l'attuale movimento si è sviluppato in una dinamica di delega nei confronti della CGIL, e più precisamente di Cofferati, verso il quale oggi assistiamo a episodi di culto della personalità che riflettono la crisi di rappresentanza politica della sinistra. Ma non rimane altra strada se non quella di premere nei posti di lavoro e nei sindacati nella direzione di una radicalizzazione dello scontro, puntando ad uno scenario come quello della Francia del '95.

Per questo ci appare sbagliato, anzi, diciamolo, ci sembra una fesseria, insistere ora, per raccogliere le firme per il referendum contro l'abolizione dell'art.18. Tra raccolta e pratiche varie se tutto andasse bene alle urne ci si andrebbe tra due anni: dunque lasciamo due anni di tregua a Berlusconi mentre lui ci fa passare di tutto? Significa anestetizzare il conflitto sociale, far sembrare inutili scioperi e manifestazioni, significa permettere alla destra di dispiegare tutta la sua offensiva, per poi sperare che dopo due anni di sconfitte la gente possa votare in senso progressista. Il ché non è affatto scontato tenendo conto che al referendum vota anche una massa di gente che lavoratrice non è, e che peseranno tantissimo i mezzi di comunicazione, mentre nelle lotte contano le piazze. Significa non mettere alla prova la burocrazia sindacale che in questo modo eviterebbe di scontrarsi direttamente con l'avversario. Certo, è uno strumento da usare, ma solo dopo una eventuale sconfitta. E ancora non siamo stati affatto sconfitti, la partita è più che mai aperta. E' l'arma da tirare fuori quando si è con l'acqua alla gola, ma non si capisce perché mettersi ora sott'acqua.

La gente ha ancora voglia di lottare, lo dimostra anche la grandiosa manifestazione di Milano (200.000 persone secondo gli organizzatori) del 25 aprile. Ma dobbiamo cambiare tattica se vogliamo vincere.