L'ombra del Cinese.
Cofferati sta conducendo un'operazione ambiziosa: ricostruire una socialdemocrazia "classica" in Italia. E sino ad ora il suo spazio si sta allargando a scapito di D'Alema e del PRC. Analizziamo la dinamica politica e sociale del "cofferatismo" e le ragioni del suo successo. Di Michele Corsi. Febbraio 2003.


Quando Cofferati annunciava che avrebbe lasciato la CGIL per tornare a lavorare in Pirelli si formularono una marea di congetture e previsioni, in gran parte rilevatesi sbagliate.

Una parte dei commenti rammentava che i sindacalisti passati alla politica (Benvenuto, Del Turco, D'Antoni…) non avevano fatto in quell'ambito una gran carriera, e pronosticavano per il Cinese la stessa fine. Cofferati invece occupa stabilmente, tutti i giorni, le pagine dei giornali, nonostante, ormai, dica sempre le stesse cose.

Altri ancora affermavano che, una volta uscito dalla CGIL, Cofferati non sarebbe più stato in grado di influenzare il sindacato. I grandi mass media puntavano sul successore Epifani rispolverandone il passato socialista e cercando di convincersi e convincerlo che lui, "riformista", era diverso dal "massimalista" Cofferati. Appare oggi chiaro a tutti invece che la CGIL continua ad essere perfettamente allineata a Cofferati.

Vi erano infine quelli che immaginavano che Cofferati non sarebbe affatto tornato a lavorare in Pirelli, ma sarebbe rapidamente entrato in politica, magari accettando il ruolo di presidente dei DS o concorrendo a un seggio parlamentare in qualche elezione suppletiva. Cofferati ha invece sdegnosamente rifiutato queste possibilità e passa il suo tempo tra il lavoro in Pirelli e l'impegno politico serale e nei fine settimana.

Vediamo di comprendere la logica di fondo del comportamento di Cofferati, per delineare cosa sta nascendo intorno al cofferatismo e per capire perché le previsioni sul suo conto (e su quello della CGIL) non si sono avverate.

La strategia di D'Alema e Fassino.

Prima, però, un passo indietro. Parliamo di D'Alema e Fassino. Il cofferatismo infatti nasce come reazione al dalemismo. Il vicolo cieco nel quale è andata a sbattere la strategia del gruppo dirigente maggioritario dei DS potrebbe far pensare ad una sua congenita stupidità. Noi non pensiamo si tratti di intelligenze particolarmente acute, ma la loro strategia ha un suo fondamento, che, per un po', ha pure funzionato.

D'Alema e soci sono arrivati da un pezzo ad una conclusione: nell'attuale società c'è spazio solo per due poli politici, concorrenti verso il centro. Il loro obiettivo è un sistema politico tipo USA dove si fronteggiano un Partito Repubblicano e uno Democratico, varianti (reazionaria la prima progressista la seconda) di uno stesso centro, e dirette espressioni delle classi dominanti. La maggioranza diessina dunque sogna di sganciare il proprio partito dalle classi sociali che tradizionalmente lo sostengono, le classi popolari, per passare gradatamente a rappresentare i "ceti medi". Ma questa operazione di "sganciamento" risulta dannatamente difficile: appena i DS sostengono una politica di centro perdono voti, quando appaiono come "partito di lotta" li riguadagnano. Così i DS hanno perduto costantemente voti lungo i vari governi di centrosinistra, ma hanno riguadagnato alle ultime amministrative quando si sono giovati del clima di radicalizzazione innestato dalla CGIL. Questo è il cruccio di D'Alema. Quando gli si rimprovera che la sinistra ha perso due milioni di voti "di sinistra", D'Alema fa spallucce: è perfettamente consapevole che il suo modello comporta una percentuale di astensionismo "fisiologico" (come avviene in USA e Regno Unito), fatta di elettorato (da un terzo a metà) composto in gran parte da minoranze etniche, classi di più basso reddito, giovani. Ma D'Alema non ha alcuna intenzione di rappresentare questo elettorato, sempre arrabbiato e potenzialmente antisistema: vorrebbe anzi metterlo, tramite leggi elettorali sempre più maggioritarie/uninominali, fuori gioco.

Il grande problema di D'Alema e soci però è che l'Italia non è gli USA: le classi oppresse e i giovani mostrano, nonostante le sconfitte, una forte volontà di lotta e di partecipazione impedendo nei fatti lo "sganciamento" dei DS dai suoi referenti sociali. Per questo la maggioranza diessina ha messo in conto la sconfitta del movimento operaio da parte di Berlusconi: spera così, una volta tolta di mezzo la radicalità italiana, di potersi candidare come partito non più di "sinistra", ma "progressista", non più partito dei lavoratori, ma partito "dei cittadini". Per questo i dirigenti DS non avevano alcuna intenzione di dare battaglia sull'articolo 18, per questo hanno sino all'ultimo resistito a dare il loro appoggio alla CGIL, rifugiandosi dietro la necessità dell'"unità sindacale".

Obiezione: se è questo l'intento di D'Alema, perché ha ostacolato a suo tempo il disegno di Veltroni di "unità organica" dell'Ulivo? Perché quando può litiga con la Margherita? Se il suo intento fosse quello di fondare un partito "progressista" non ci sarebbe niente di meglio che fondersi con la Margherita. Perché non lo fa?

D'Alema non rappresenta solo se stesso, ma è l'espressione della burocrazia diessina. Questa burocrazia è rappresentata da quel minimo di apparato di partito che è rimasto ai DS, ma, soprattutto, da coloro che sono inseriti negli apparati amministrativi delle regioni del centro Italia (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, parte delle Marche). Una parte di questa burocrazia si è trasformata, mantenendo legami di solidarietà politica con il partito, in pezzi di borghesia manageriale (cooperative, banche locali…) o è in corso di trasformazione in questo senso (con la privatizzazione dei servizi pubblici locali come gas, luce, acqua, trasporti e la creazione di SpA autonome dagli enti locali). L'interesse di questa burocrazia, che ha una cultura amministrativista/manageriale, è quella sì di concorrere alla formazione di un partito "progressista" sganciato da esigenze di rappresentanza di bisogni radicali, ma di farlo garantendo per se stessa all'interno di questa nuova formazione un ruolo dominante. Questa burocrazia non ha alcuna intenzione di cedere il potere e l'influenza (elettorale e non solo) di cui essa gode a favore di una formazione raccogliticcia e priva di radicamento sociale qual è la Margherita di Rutelli&C. Per questo ha appoggiato, dopo le dimissioni di Occhetto, D'Alema contro Veltroni: quest'ultimo era fautore di uno scioglimento (dei DS nell'Ulivo) affrettato, avventurista e senza garanzie per la burocrazia diessina che si è sentita più tutelata da D'Alema, che era invece favorevole a mantenere il "partito" come "forma" di espressione di questo ceto, e contrattare così con il centro dell'Ulivo da posizioni di forza. Una forza assicurata da un numero di iscritti in declino, ma ancora ragguardevole, da una percentuale elettorale doppia rispetto al centro dell'Ulivo, da un radicamento locale di cui abbiamo detto sopra.

Per la stessa ragione D'Alema duella con Rutelli, nonostante le loro idee non siano diverse: D'Alema vuol contendere alla Margherita lo stesso spazio politico, il centro, ma senza regalargli anche un partito.

Il comportamento dei dirigenti della Margherita è semplice: essi sono il centro, non hanno alcun "sganciamento" da effettuare, perché non rappresentano i lavoratori, neppure in maniera distorta e parziale come è il caso dei DS, e dunque non pagano alcun prezzo ai "movimenti". D'Alema è bloccato perché è costretto a tener conto della natura sociale del suo partito (e se non lo fa perde voti, quindi potere di contrattazione), loro invece sono liberi e non hanno alcuna intenzione di arrivare ad un Ulivo unificato se non con precise garanzie che nel nuovo partito la burocrazia DS non sarà prevalente. Di qui l'impasse: da anni DS e Margherita parlano di Ulivo unificato, ma non lo fanno mai.

Il cammino di D'Alema verso il superamento della natura sociale dei DS è stato bloccato prima passivamente dalla sua base elettorale che lo ha fatto precipitare nelle percentuali di voto per "punirlo" della sua politica centrista e attivamente poi dai "movimenti". Normalmente dopo una sconfitta elettorale la fisiologia interna ai partiti permette, attraverso "rese dei conti", "svolte", "autocritiche", ecc. di mettersi al passo con quanto richiesto dalla società, cioè dalla propria base sociale. Il voto infatti rappresenta uno dei modi che hanno i vari attori sociali di adeguare alle proprie esigenze le linee politiche dei propri partiti. Quando questi ultimi rifiutano di "allinearsi" alle domande sociali, spariscono (come è accaduto a DC e PSI). D'Alema, dopo la sconfitta elettorale che ha portato all'ascesa di Berlusconi, ha "blindato" il suo partito organizzando un congresso, quello di Pesaro, dove si confermava la linea che aveva portato alla sconfitta, senza il minimo indizio di ripensamento. Loro chiamano la manovra "la conferma della linea riformista emersa a Pesaro". Ma così le spinte sociali all'adeguamento della rappresentanza non hanno trovato più nei DS un canale di espressione, e l'hanno creato fuori. La massa degli elettori diessini pensavano che la causa della sconfitta fosse da ricercarsi in una politica troppo moderata, i dirigenti diessini non si sono riallineati e così i bisogni hanno trovato altre forme di espressione, esterne al partito e da questo incontrollabili. Con i bisogni di rappresentanza sociale non si scherza e la politica non tollera vuoti. Ma questo la cultura politica del gruppo dirigente diessino non è in grado di accettarlo e di comprenderlo, proprio perché la sua ipotesi si basa sul fatto che l'epoca dei movimenti, della lotta di classe, ecc. sia finita.

Dato che lo "sganciamento" non è stato realizzato, la maggioranza diessina si trova nella necessità di subire l'iniziativa dei movimenti. Appena questi spariscono, però, subito ci riprovano con le vecchie tentazioni, dirette a trovare un accordo "bipartisan" con la destra.

Anche questa tendenza va spiegata. Se D'Alema vuole un partito di centro progressista, perché non si comporta come i Democratici USA che spesso sono protagonisti di una opposizione dura nei confronti dei Repubblicani? Perché sente il richiamo continuo dell'"inciucio"? La ragione sta proprio nel fatto che l'Italia non è gli USA. Da noi non ci sono Democratici e Repubblicani. D'Alema vorrebbe una destra presentabile, democratica, ecc. perché una destra estremista e con tratti eversivi favorisce un clima di radicalizzazione politica che nuoce al suo progetto di convergenza al centro. La ragione principale per cui si impegnò nella Bicamerale rispondeva proprio a questa esigenza: "ingabbiare" la destra, "costringerla" al confronto "democratico", scoraggiarla dal ricorso alla piazza.

D'Alema e Fassino inoltre, dato che il loro progetto esclude il ricorso alle "lotte", ma prevede solo una elegante battaglia intorno al centro e tutta interna alle istituzioni, devono dimostrare che per quella via si riescono a ottenere dei risultati. E' lo stesso Berlusconi, però, che contribuisce ad affossare questi loro desideri: la sua attuazione è senza compromessi, e non fornisce a D'Alema e compagnia nemmeno la consolazione di qualche frase accomodante, arte tutta democristiana che aveva tenuto a bada il PCI in varie occasioni. Berlusconi provoca, vuole tutto, insulta, non cede, e fa passi indietro solo di fronte a grosse mobilitazioni sociali. Mettendo così D'Alema nei guai.

Cofferati, agente in missione speciale.

Non capiremmo nulla di Cofferati se rinunciassimo a considerarlo, al pari di d'Alema, come espressione di un determinato gruppo sociale. Naturalmente anche le ambizioni personali giocano un ruolo nell'azione e nei comportamenti degli individui, ma solo se esse sono in sintonia con il volere e il sentire degli attori sociali, muovono la politica e, in alcuni casi, la storia. Parlare delle ambizioni personali di D'Alema non ha alcun senso: egli ha quel ruolo perché vi è un determinato attore sociale che gliel'ha assegnato (come dicevamo: la burocrazia diessina). Lo stesso vale per Cofferati. Egli non fa quel che fa perché ha "un conto in sospeso" con D'Alema, o perché i loro caratteri sarebbero "agli antipodi", come ci capita di leggere in tanti giornali, ma perché è stato chiamato a svolgere un ruolo sociale diverso. Ovviamente (ovviamente per noi, ma certo non per i suoi numerosissimi fan) Cofferati non si muove certo per difendere i "diritti". Altrimenti non capiremmo perché ha firmato, da segretario CGIL, i peggiori accordi riguardanti la flessibilità escludendo milioni di lavoratori non solo dall'art.18, ma dall'intero Statuto dei Lavoratori. Né capiremmo perché non sostiene il referendum sull'art.18 per estenderlo anche ai lavoratori delle ditte sotto i 16 dipendenti.

La ragione della sua azione è semplice: egli deve difendere l'apparato CGIL. Possiamo definirlo un "agente in missione speciale per conto della CGIL sul terreno ostile della politica".

Le previsioni e le illazioni dei mass media nostrani riguardanti il suo comportamento e che riportavamo all'inizio, dimostrano tutta l'ignoranza che circola nei confronti del mondo del lavoro. Chi non è dentro la CGIL, e tra questi i commentatori della grande stampa, ha un'idea molto vaga di che cosa sia davvero questo sindacato. Mentre la CISL e la UIL hanno una forza in molti casi virtuale (lo si è visto in occasione dello sciopero generale unitario che ha visto una partecipazione inferiore a quello promosso dalla sola CGIL), e iscrizioni ottenute spesso sulla base clientelare e/o di rapporti "amichevoli" con le controparti (quindi con una base scarsamente mobilitabile e una qualità media dei suoi quadri piuttosto scadente), la CGIL invece è una sorta di esercito con una cultura interna burocratica raffinatissima e una capacità di mobilitazione e un'efficienza che nella storia d'Italia ha potuto vantare solo il PCI.

La CGIL dispone di un corpo di ufficiali: le migliaia di distaccati e funzionari a tempo pieno (mentre i DS, come partito, ne hanno poche centinaia). Questo corpo è disposto in un ordine rigidamente gerarchico per territorio (comprensorio, provincia, regione, nazionale), categoria (un segretario di categoria conta meno di un pari grado "confederale"), organismo di direzione (direttivo o segreteria di categoria o confederale). La selezione interna è formalmente democratica, ma nella realtà, come nell'esercito, avviene per cooptazione da parte dei livelli superiori. La carriera interna è irta di pericoli, lunga, senza salti, e seleziona dunque un personale piuttosto capace, anche se più abile nelle lotte intestine che nei rapporti con la controparte. Alla CGIL per organizzare una manifestazione di 50.000 persone (un numero che negli USA farebbe parlare i giornali in prima pagina), basta "precettare" gli ufficiali e gli immediati dintorni. Naturalmente, come in tutti gli eserciti, ci sono i generali: i membri della segreteria nazionale, ma anche, un pochino più sotto, i segretari delle singole categorie. E poi il generale in capo.

Sotto il corpo degli ufficiali stanno i sottufficiali: la massa dei delegati. Si tratta di decine di migliaia di quadri attenti, preparati, abituati a gestire lotte e complessi accordi con la controparte. Solitamente si tratta di persone elette dalla base e da questa stimate. Contrariamente a quelli di altri sindacati che sono spesso indicati dall'alto e che non fanno vita di sindacato, in CGIL i delegati vengono spesso riuniti e convocati dal corpo ufficiali: come nell'esercito essi non hanno alcun potere effettivo, ma gli ufficiali sanno che il proprio potere poggia su questo strato intermedio che assicura il collegamento con la massa dei "soldati".

I soldati sono i cinque milioni di iscritti alla CGIL. Non tutti sono attivi, ma intorno a un delegato CGIL ruotano anche lavoratori che non sono iscritti, quindi i conti tornano. Un cittadino italiano adulto su otto risulta iscritto alla CGIL.

Quella dell'esercito è una metafora un po' forzata: nella CGIL c'è una dialettica forte tra componenti, ed anche, soprattutto tra "ufficiali", "sottufficiali" e "soldati", cosa che certo non accade in un esercito. Inoltre la coscienza di sè in quanto ceto separato da parte dell'"ufficialità", è spesso assai labile: gran parte dei dirigenti della CGIL agisce con un istinto di conservazione del proprio ceto, ma con la convinzione di stare agendo nell'interesse della classe lavoratrice. La problematica sociologica relativa alla "burocrazia" (assai simile, come hanno fatto notare diversi studiosi del movimento operaio, a quella della gerarchia ecclesiastica), è complessa e non l'affronteremo qui. La metafora ci serve però per far comprendere la compattezza e l'efficienza della "macchina" CGIL, a chi la vede solo dal di fuori.

Immaginare che sia facile sconfiggere questa "macchina" è una illusione (a meno di non utilizzare gli strumenti del fascismo). Ma le classi dominanti, pur storcendo il naso, hanno sostenuto l'ascesa di Berlusconi anche per questo: annullare il potere condizionante della CGIL. Battere sul campo l'esercito CGIL senza fare prigionieri, né generali né soldati.

Ed è questa la peculiarità della destra. I dirigenti della sinistra politica per far passare misure antipopolari cercavano di guadagnarsi l'appoggio della burocrazia CGIL, così da far ingoiare il rospo alla sua base e al resto dei lavoratori, la destra invece non fa alcuna distinzione tra base e vertice: li vuole morti tutti e due.

La burocrazia CGIL lo sa benissimo. Se Berlusconi avesse lasciato uno spiraglio di possibilità di sopravvivenza alla CGIL, il suo gruppo dirigente l'avrebbe percorso. Ma la destra è formata da un personale politico che è strutturalmente nemico della CGIL (Lega e AN) oppure strutturalmente estraneo (Forza Italia), senza forze che tradizionalmente mediavano grazie ai rapporti organici con CISL e UIL (come era il caso della DC e del PSI). L'apparato CGIL dunque ha capito che per salvare se stesso doveva dare battaglia, e duramente. Sotto Berlusconi insomma gli interessi della burocrazia e quelli più generali dei lavoratori sono assai convergenti (anche se non del tutto, come vedremo). Al contrario, negli anni novanta il quadro politico consentiva alla burocrazia della CGIL nei confronti dei vari governi di unità nazionale o di centrosinistra, di contrattare, cioè di salvaguardare il proprio ruolo e il suo potere nella società: per questo sottoscrisse a cuor leggero accordi capestro per gli interessi dei lavoratori, come quelli riguardanti la flessibilità: essi avvenivano nel quadro di un rapporto "consociativo" con una controparte politica che "rispettava il ruolo del sindacato", cioè concordava le mosse con la burocrazia CGIL.

Naturalmente la burocrazia CGIL sa bene fino a dove spingersi per evitare diserzioni di massa nelle sue truppe. Nella prima metà degli anni novanta (ricordiamo le contestazioni seguite all'abbandono della scala mobile) ci si arrivò molto vicino, e da lì nacquero i sindacati di base, che però sia per le capacità di recupero della CGIL, sia per la fine della recessione, sia per i grossolani errori nei quali questi incorsero (settarismo, deliri di onnipotenza, divisioni interne, ecc.) non costituirono mai un incubo per i dirigenti della CGIL. Ma quel limite è ancora troppo poco per classi dominanti che sentono sul collo il fiato della concorrenza internazionale e che vogliono subito, ora, la sconfitta della CGIL, in modo da realizzare intensi risparmi di spesa sul fronte della forza lavoro. Quando era al governo, D'Alema ci ha provato a rispondere a queste esigenze schierandosi a favore della riforma delle pensioni: tre giorni dopo ci sono state le elezioni con la disfatta a Bologna e in altre città. Non era D'Alema a poter svolgere quel lavoro, ci voleva qualcuno senza "lacci". Berlusconi.

All'indomani della sconfitta elettorale il ragionamento che hanno svolto i generali dell'esercito CGIL (non solo Cofferati, dunque) è stato: Berlusconi ci vuole far secchi, non c'è all'orizzonte alcun ribaltone, dobbiamo resistere mantenendo saldo l'esercito fino alle prossime elezioni. Senza resistenza la destra avrebbe prodotto un'offensiva di tale impatto da far sbandare completamente le truppe, senza contare che avrebbe smantellato uno a uno quelli che considera i "privilegi" sindacali: la trattenuta sindacale, la posizione dei patronati, i distacchi sindacali.

Ma come era possibile la resistenza senza una sponda politica, seppur minoritaria, che desse un minimo di battaglia in Parlamento e che perlomeno frenasse l'arrembaggio della destra?

Il gruppo dirigente CGIL ha fatto rapidamente tesoro di due eventi. Il primo è stato il congresso di Pesaro dei DS dove i dirigenti della CGIL hanno sostenuto la mozione poi risultata di minoranza. Fino a quel momento erano stati "maggioranza" tra i DS e non si erano perfettamente resi conto della situazione: ma hanno toccato con mano il pieno controllo dell'apparato da parte di D'Alema: egli ha in mano quello che i cofferatiani chiamano "il partito degli amministratori". Il secondo è di più antica data: quando all'epoca del primo governo Berlusconi la CGIL aveva dovuto sostenere da sola l'offensiva sulle pensioni. Al momento della battaglia con la destra, i dirigenti DS abbandonarono il campo, rapidissimi. Come del resto è accaduto in occasione dell'art.18. Dunque: nel livello del politico non c'era una sponda, anzi, c'era un gruppo, quello dalemiano, che scommetteva sulla disfatta CGIL per avere il monopolio di una "opposizione" tutta virtuale e "politica". La CGIL ha dovuto per forza muoversi "fuori". E' stata costretta a cercarsi alleati per poter condizionare il quadro politico pur non disponendo di un partito.

Da qui il cambiamento di atteggiamento della CGIL nei confronti del movimento noglobal. Sprezzante ai tempi di Genova (ricordiamoci la frase di Cofferati quando gli chiesero perché non aderiva al corteo: "Noi siamo la CGIL", come dire: "noi siamo una potenza, non corriamo dietro ai movimenti"), ultradisponibile dopo. Dopo cosa? Dopo il congresso di Pesaro, che aveva dimostrato loro l'impossibilità di espugnare "dal di dentro" i DS.

Così l'apparato della CGIL ha "mandato fuori" Cofferati, in un terreno estraneo, in missione speciale: creare una sponda politica, condizionare il quadro politico, sfidare D'Alema sul suo stesso piano. Per questo le ricostruzioni e le illazioni tentate dai giornali sono ridicole. Non c'è da stupirsi per il fatto che il "riformista" Cofferati sia diventato "estremista": egli sta lottando per la sopravvivenza dell'apparato CGIL. E' bizzarro pensare che Epifani prenderà le distanze da Cofferati: è proprio Epifani, in quanto segretario CGIL, ad avere interesse che Cofferati porti a termine e con successo la sua missione speciale. La CGIL deve, per sopravvivere, fare in modo che ci sia qualcuno che combatta in un campo di battaglia che non è il suo: quello della politica, e dunque ha mandato un suo generale a radunare le truppe disperse dalla direzione dalemiana.

Il fine è semplice: creare, anche lì, un esercito. Creare un esercito sul terreno della politica. Creare una nuova, potente formazione socialdemocratica classica. Così come un generale che deve mettere insieme truppe disperse sotto il fuoco nemico non può pianificare e prevedere alcunché (se non mantenere chiaro a se stesso qual è l'obiettivo finale), così sarebbe inutile cercare in Cofferati una lucida e pianificata strategia per il raggiungimento dei suoi fini. Lui sa di avere davanti a sé tre anni e mezzo di governo Berlusconi, il suo obiettivo è paralizzare D'Alema, friggerlo, e intanto creargli una alternativa che, con una nuova vittoria elettorale del centrosinistra, permetta alla CGIL di giocare di nuovo il suo ruolo, di essere "rispettata". Il che non significa necessariamente difendere gli interessi dei lavoratori.

Data la sua esperienza, Cofferati sa perfettamente cosa serve per creare un esercito: ufficiali, sottufficiali, soldati. Bisogna dire che, partendo da zero, ha fatto passi da gigante. E' anche vero che i suoi concorrenti sono fragili: il PRC si sta indebolendo, per ragioni che non indagheremo qui, e D'Alema non è in grado di muoversi facendo concorrenza a Cofferati, proprio perché la sua stessa ipotesi politica esclude l'esistenza di "partiti pesanti": solo un partito "leggero" è un partito senza una base che condizioni i dirigenti. Fassino cerca ora di correre ai ripari spolverando un po' di "organizzazione", ma è patetico: per dimostrare che il numero degli iscritti è lo stesso, i DS si sono ridotti a distribuire decine di migliaia di tessere gratis.

Il "popolo di sinistra" sta accordando a Cofferati una fiducia crescente. Sentiamo gente che prima votava PRC e che oggi ci dice: "sì, va bene, sappiamo chi è Cofferati, ma almeno dà addosso a quell'altro là". Cioé D'Alema. La gente vede in Cofferati uno che finalmente "fa" quello di sinistra. In realtà il discorso di Cofferati è estremamente vago. Ma dopo anni di dalemismo c'è "fame" di un dirigente in cui potersi identificare. Il meccanismo è scattato dopo che Cofferati ha dimostrato di far seguire alle parole due fatti. Ha detto che avrebbe lottato per l'art.18, e l'ha fatto. Ha detto che sarebbe tornato a lavorare, e l'ha fatto. Da allora va in giro per l'Italia a dire cose semplici, di facile condivisione, evitando meticolosamente argomenti spinosi. E' passato indenne per la crisi Fiat, ad esempio, senza dire una parola contro Agnelli.

A che punto sta, oggi, l'esercito di Cofferati? Ad occhio e croce, benone. Ci sono piccole forze politiche che se Cofferati formasse oggi un partito vi si precipiterebbero a pesce: il PdCI, parte dei DS e forse anche i verdi. A livello sindacale il settore di Lavoro Società (la corrente di minoranza della CGIL) non legato al PRC, scalpita per lo stesso motivo. Nel movimento noglobal si sta formando un blocco "cofferatiano". A questo proposito sono evidenti le simpatie che Cofferati si sta guadagnando in aree di Legambiente, ARCI, Emergency, in qualche settore di ACLI e Rete Lilliput, senza contare che la stessa CGIL (a Firenze Epifani era applauditissimo) gioca ormai un proprio autonomo ruolo nel movimento. Oltre all'Unità, Cofferati dispone ormai del pieno sostegno del Manifesto. E poi il fatto nuovo di gennaio è stato l'incoronamento di Cofferati da parte del settore dei girotondi. Parallelamente, nei DS, "Aprile" si sta sempre più organizzando come frazione separata con proprie iniziative sul territorio. Cofferati deve ricostruire una socialdemocrazia e sta attraendo a sé le future "organizzazioni di massa" che la circonderanno.

Attraverso quali passaggi vuol giungere a questo obiettivo? E qui in effetti per Cofferati cominciano i dolori. Finchè lui resta dentro i DS, e questo partito, dominato dai dalemiani, per paradossale che possa sembrare, è destinato a raccogliere il frutto del clima di radicalizzazione sociale, come dimostrano le ultime elezioni amministrative. Del resto il controllo delle liste ce l'ha l'apparato DS che quindi è in grado di "segare" eventuali ambizioni cofferatiane di costruirsi una presenza nelle istituzioni locali. Lo stesso dicasi per le elezioni europee. E Cofferati non può ora uscire dai DS beccandosi l'accusa di dividere il fronte antiberlusconi: egli è in missione speciale per conto della CGIL e alla CGIL non serve un partitino del 5% che non sia in grado di condizionare l'intero Ulivo.

Perché quella di Cofferati è una battaglia tutta interna all'Ulivo, cioè alla riproposizione di una ipotesi di centrosinistra che veda insieme due entità: un centro e una "sinistra". La differenza con D'Alema è che questi pensa che la "sinistra" dovrebbe fare il centro, e Cofferati che la sinistra debba fare la sinistra. Ma le due strategie passano sempre attraverso l'accordo strategico con le forze politiche che garantiscono le classi dominanti dentro la coalizione, oggi la Margherita. E dunque, in ultima analisi, convergono verso una politica moderata. Cofferati vuol radunare le truppe per dare rappresentanza ai lavoratori, e allearsi poi con il centro che rappresenta una classe sociale avversa. Da ciò ovviamente non ne deriverà alcuna politica favorevole ai lavoratori, ma l'apparato CGIL avrà un ruolo, se non altro quello di contrattare gli arretramenti. Significativo il fatto che l'area cofferatiana cerca di accreditare il mito del governo Prodi: in realtà è stato il peggiore dal punto di vista delle classi oppresse. E' sotto Prodi che abbiamo visto le finanziarie lacrime e sangue, i primi corposi tagli alla scuola pubblica, la flessibilità lavorativa fatta legge. Al confronto i governi D'Alema e ancor più Amato, sono stati ben più morbidi.

Cofferati insomma è assolutamente dentro la tradizione della sinistra italiana, che non ha mai saputo pensarsi "autonoma" rispetto a un centro borghese, come invece avviene in tutti gli altri paesi (Regno Unito, Francia, Germania …) dove la sinistra concorre da sola, senza il centro. Cofferati vuole arrivare all'accordo con Prodi, ma senza D'Alema. Con quali passaggi ciò avverrà non può saperlo: in questi tre anni può accadere di tutto.

Per queste ragioni Cofferati continua ad andare a lavorare. D'Alema lo apostrofa con sufficienza "il dipendente della Pirelli", mentre si compiace di farsi fotografare in barca a vela. Cofferati sa quel che fa: le truppe che deve radunare sono quelle dei lavoratori dipendenti, cioè più del 70% della popolazione economicamente attiva. Un potenziale enorme, che non considera affatto offensiva o indecente la propria posizione lavorativa e vede con ammirazione un dirigente che potrebbe diventare senatore e che invece va a lavorare come tutti. Nessuno ci crede fino in fondo, tutti sanno che prima o poi farà altro, ma piace questo suo atteggiamento, perché sottindente una sfida, uno schiaffo morale agli arrivisti della politica. Allo stesso modo Cofferati furbescamente rifiuta tutti gli incarichi che la maggioranza diessina gli offre: sa perfettamente che sono trappoloni per fargli perdere tempo e impedirgli di ricostruire un suo esercito. Dato che il suo obiettivo è sconfiggere D'Alema, perché mai dovrebbe aiutarlo a stare a galla o a dargli credito?

Da questa comoda posizione Cofferati tiene sotto tiro la direzione diessina e appena questa si azzarda a muovere un passo, spara. Con semplici interviste Cofferati ha imposto il no dei DS all'invio di truppe in Afghanistan ed ha impedito il golpe sul funzionamento interno all'Ulivo. Fassino mendica pateticamente aiuto contro Cofferati alla Margherita, ma la Margherita è tranquilla: i movimenti non la intaccano, e alla fine sa che chiunque dei due contendenti vinca a sinistra, passerà comunque attraverso un accordo con lei. I dalemiani sono, così, stretti in un angolino. La natura di questo governo, arraffone, mangione e con tratti criminali, creerà un clima crescente di radicalizzazione e di aspettative verso il salvatore: il tempo lavora a favore di Cofferati.

Parallelamente a questo lavoro, la CGIL mantiene le sue truppe deste, ma attenzione: senza ingaggiare con l'avversario (cioè la Confindustria) una guerra vera. Lo si è visto chiaramente con la FIAT (vedi La crisi della FIAT e le risposte possibili): cavalcare la rabbia delle proprie truppe ma senza far male sul serio all'avversario. Ci stiamo avviando a una stagione di scioperi "simbolici" come quelli tra gli anni settanta e gli anni ottanta: scioperi senza obiettivi concreti, scioperi per l'"occupazione", per lo "sviluppo", per la "giustizia". Scioperi che tengono unite le truppe, ma senza attaccare. Del resto: stiamo parlando di socialdemocratici "classici", gente che vuol rappresentare i lavoratori ma salvaguardare al tempo stesso questo sistema e i suoi padroni. Poi, nei giochi interni alla burocrazia, Epifani tiene sotto tiro la corrente dalemiana, minoritaria e senza prospettive: con Berlusconi che ne combina una al giorno, Panzeri e compagnia non hanno spazi per mettere in pratica il loro moderatismo. Se si azzardano ad alzare la testa gliela tagliano, per cui la tengono china. Alla corrente interna di Lavoro e Società la maggioranza offre spazi di cogestione contro il nemico comune, spazi prontamente accettati.

Stiamo assistendo dal vivo al formarsi di una nuova, potente socialdemocrazia, al suo ingrossarsi nel corpo sociale e al suo crescente potere di attrazione nei confronti delle più varie fasce sociali. Il cofferatismo si dilata e, nella stanza stretta della sinistra, schiaccia sulle opposte pareti da un lato D'Alema e dall'altro il PRC.