Brevi note sulla crisi industriale.
Il numero delle aziende in crisi è passato da 2353 del 2004 a 3267 nel 2005. Sono coinvolti settori portanti e quelli ad alta tecnologia. La Fiat con 8000 esuberi dichiarati, più altre migliaia dell'indotto fa da capofila. Segue la Piaggio con 3500 posti di lavoro a rischio. La Cantieri Orlando di Livorno rischia di perdere 800 posti di lavoro. Nel tessile, la Marzotto, dopo aver chiuso diversi stabilimenti ha decretato la fine dello storico marchio "Lanerossi". Di Loris Brioschi - Reds, Settembre 2005.


LA WATERLOO DEL SISTEMA INDUSTRIALE ITALIANO
Il numero delle aziende in crisi è passato da 2353 del 2004 a 3267 nel 2005. Scricchiolii sinistri si odono provenire dall’industria italiana, da settori portanti e da quelli ad alta tecnologia. Il settore auto vede la Fiat con 8000 esuberi dichiarati direttamente più altre migliaia dell’indotto fa da capofila. Ma segue la Piaggio con 3500 posti di lavoro a rischio solo in Toscana, la cantieristica che solo a Livorno ai Cantieri Orlando rischia di perdere 800 posti di lavoro. Nel tessile di questi tempi l’aggravamento delle condizioni della Marzotto che oltre alla chiusura di diversi stabilimenti ha decretato la fine dello storico marchio “Lanerossi”. Il gruppo Eni vuole chiudere Siracusa e Gela e ridimensionare gli stabilimenti di Marghera, Ferrara e Ravenna a causa della riduzione della domanda internazionale e degli investimenti nel settore energia.
Anche le aziende del settore telecomunicazione, delle reti e del settore informatico stanno riducendo gli organici. Ericsson, Italtel, Siemens, Nokia, Ibm, Ixfin, Marconi ed altre riducono gli investimenti, esternalizzano e dichiarano esuberi a tutto spiano.


L’abbandono degli impegni europei nel settore aeronautico, rischia di mettere in crisi Alenia. Pirelli annuncia esuberi nel settore cavi. Anche nei servizi la debacle industriale si fa sentire, 8000 gli esuberi annunciati da Banca Intesa e 3700 del gruppo Capitalia (Banca di Roma, Banco di Sicilia, Bipop). Non dimentichiamo inoltre che nel settore del trasporto aereo sono stati previsti 4000 esuberi, e nel settore siderurgico è ancora aperto il contenzionso con la Tyssen Group su Acciaierie di Terni.
Nel comparto agroalimentare oltre la Parmalat ed altre aziende minori è la crisi del gruppo Cirio e la battaglia del pomodoro a chiudere assai poco degnamente la ricognizione a volo d’uccello sullo stato del sistema industriale italiano.

CHI PAGA LA CRISI ?
L’industria italiana dunque è in crisi e i lavoratori ne pagano le conseguenze. E’ sufficiente seguire le pagine economiche dei giornali, seguire tutte le crisi giorno per giorno, per rendersi conto che le cose non vanno bene.

I dati parlano da soli: nel 2005 le crisi aziendali coinvolgono almeno 430.000 lavoratori, di cui 194.000 utilizzano gli ammortizzatori sociali (mobilità, Cigs etc.) con un aumento del 40% rispetto al 2004.

I settori interessati delle aziende in crisi non sono solo il metalmeccanico ma anche il tessile, abbigliamento e calzature, mentre i lavoratori coinvolti negli ammortizzatori sociali, interessano aziende dei settori chimico, elettronica, telecomunicazioni.

E’ in crisi il “made in Italy” dell’industria italiana, non solo quella parte a basso valore aggiunto che soffre la concorrenza del “dragone cinese”.

E’ una crisi strutturale dovuta ad un insieme composito di problemi:
- composizione dell’industria italiana
- stato della ricerca scientifica e tecnologica
- politica delle privatizzazioni errata
- congiuntura internazionale

PICCOLO E’ ANCORA BELLO?
Ci sono stati tempi in cui a sostegno dello smantellamento della presenza pubblica nell’industria andava di moda lo slogan “piccolo è bello”. Si enfatizzava la prerogativa del sistema industriale italiano come flessibile, non burocratico, moderno, a gestione quasi familiare.
In realtà la loro crisi odierna rende più evidenti di che tipo fossero i tanto decantati vantaggi competitivi : a) le svalutazioni periodiche della lira (fino al 1995); b) un’evasione fiscale immensa c) un costo del lavoro bassissimo.

Ora le svalutazioni non sono più possibili con l’euro, un incremento dell’evasione fiscale non è possibile gestirlo (con condoni, concordati e vantaggi vari il governo Berlusconi, ha già raggiunto il top) ed il costo del lavoro non è comprimibile, pena l’avvio di una spirale perversa che parte dalla caduta ulteriore del potere d’acquisto alla caduta della domanda interna per finire ad una caduta ulteriore della produzione certo non auspicabile, di cui vediamo già le avvisaglie.

Ora le industrie italiane con meno di 10 addetti occupano una percentuale di lavoratori doppia della media europea. La proporzione del lavoro autonomo nell’industria e nei servizi è due volte e mezzo quella di Francia e Germania.
Manca il comparto delle medie e grandi industrie. L’occupazione delle aziende manifatturiere con più di 500 addetti è scesa al 15% in 20 anni dimezzandosi. Questo mentre in Germania questo segmento è al 56% ed in Francia al 43%.

Le medie imprese – quelle tra i 100 e i 400 occupati - rappresentano in Italia appena il 10% degli occupati, contro il 15% della Germania e il 16% della Francia. Queste non sono le condizioni per sfruttare le occasioni date dalla tecnologia. Il nanismo industriale, che si è aggravato negli ultimi anni, determina una minore possibilità di investire in ricerca, di produrre merci innovative ad alto valore aggiunto e di avere un “capitalismo meno straccione” che ricordi i “tempi belli” delle svalutazioni a sostegno dell’esportazione e delle battaglie per diminuire il costo del lavoro e non si butti solo sulla rendita sia degli immobili che delle speculazioni borsistiche.

TUTTI DICONO CHE LA RICERCA E’ IMPORTANTE...
SOLO CHE LA FANNO GLI ALTRI !

Non è un mistero per nessuno, neanche per la ministra Moratti che l’Italia è agli ultimi posti nelle statistiche internazionali e nella graduatoria degli investimenti in ricerca sia nel sottore pubblico che in quello privato.
Abbiamo un tasso di innovazione scientifico e tecnologico così basso rispetto agli altri paesi industrializzati, che il nostro paese rischia di diventare una colonia dal punto di vista industriale.

La nostra innovazione riguarda solamente il secondo livello, in pratica siamo bravi a modificare solo brevetti e ricerche sviluppati da altri.

Per fare un esempio del gap tecnologico basti rilevare come nel 2000 in Italia ci sono state solo 180 creazioni di progetti di “start up tecnologici” (creazione di aziende di ricerca e produzione tecnologicamente avanzate) contro i 650 della Gran Bretagna, i 1050 delle Germania e i 1250 della Francia. Con un investimento quattro volte inferiore alla media degli altri paesi europei

Se poi guardiamo la bilancia commerciale il valore relativo al commercio dei prodotti high-tech va peggiorando. Infatti la differenza tra quanto importiamo e quanto esportiamo è passato da –11562 miliardi di lire nel 1997 a – 22044 miliardi di lire nel 2000.

Come ciliegina sulla torta la percentuale di PIL dedicato alla ricerca è tra i più bassi d’Europa così come il numero dei ricercatori.

LA MIOPIA DELLE PRIVATIZZAZIONI
In Germania i lander detengono quote dell’industria dell’auto, in Francia lo stato promuove la creazione di un polo farmaceutico tra i primi a livello mondiale ed in Italia con le privatizzazioni del settore pubblico si distrugge
la possibilità di mantenere grandi imprese, almeno nei settori strategici.

Non è un caso che di grandi imprese in Italia non ce ne sono praticamente più: nella classifica stilata dalla rivista americana Fortune delle 500 più importanti multinazionali solo 8 sono Italiane Fiat, Eni, Enel, Telecom, più qualche azienda del settore bancario assicurativo. Per il resto nulla.

Questo è il risultato delle privatizzazioni degli anni ’90, realizzate per la maggior parte da governi di centro sinistra. Servizi pubblici privatizzati per la gioia dei capitalisti nostrani ed aziende manifatturiere vendute quasi tutte a multinazionali straniere.

CHE CENTRANO GUERRA E PETROLIO CON L’ECONOMIA GLOBALIZZATA?
La crisi economica internazionale non è per nulla alle nostre spalle.
L’economia americana, locomotiva economica del mondo, presentata dalla nostra stampa come il riferimento per produttività, occupazione è in realtà in una situazione ben diversa.
Il suo debito pubblico nel confronto del resto del mondo è fuori controllo: ha superato il 300% del prodotto interno lordo. Le importazioni della bilancia commerciale negli ultimi 5 anni sono cresciute del 38% mentre le esportazioni solo del 10%, incrementando il disavanzo.
La crescita dell’economia Usa è fondata sul debito, gli impianti industriali funzionano al 77% e risultati delle multinazionali Usa sono basati sul rimpatrio dei profitti realizzati in Cina, India, sud est asiatico e America Latina. Questo significa profitti per le Corporations e disoccupazione per i lavoratori statunitensi, ciò provoca che in Usa i ricchi sono sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri. Nell’ultimo anno la massa dei poveri si è incrementata di 1 milione e mezzo arrivando a circa 37 milioni !

Gli investimenti dall’estero vanno scendendo di anno in anno privilegiando gli investimenti di portafoglio (titoli di stato) rispetto a quelli industriali. Anche l’egemonia del dollaro come valuta, che permette che la bilancia commerciale Usa sia tranquillamentein rosso dal 1976 è seriamente insidiata dall’euro: sempre più paesi stanno incrementando le loro riserve valutarie in euro a scapito del dollaro.

Questo, in prospettiva, non può che far aumentare i conflitti tra i poli imperialisti e specificatamente tra gli Usa ed il polo imperialistico europeo. Da questa visuale la guerra e il conflitto geopolitico per il controllo delle fonti di energia servono anche a questo scopo.
Le produzioni e le forniture di servizi per l’esercito Usa contribuiscono in modo positivo a limitare il declino economico. Mentre la crescita del costo del petrolio (che si appresta a superare i 70 dollari a barile) mette maggiormente in difficoltà le economie energivore che non lo possiedono e non ne controllano l’estrazione.

Per questo la storia, è facile prevedere che non finirà presto, dopo Kosovo, Afghanistan, Iraq ... chi sarà il prossimo? La ragione politica della guerra al terrorismo e “dell’esportazione della democrazia” non copre più di tanto la ragione economica nella competizione internazionale.

Ci raccontano che a livello europeo è tutta un’altra cosa.

Peccato che in occasione del dibattito sulla costituzione europea sia caduta la foglia di fico della diversità socio economico con l’imperialismo americano.
Infatti le garanzie rispetto ai diritti dei lavoratori la costituzione vengono rimandate alle legislazioni nazionali mentre per quanto attiene alla circolazione delle merci e dei capitali, queste sono ampiamente inserite a livello dell’Unione europea.

L’economia sociale europea è stata seppellita dalla ristrutturazione liberista, dall’entrata dei paesi dell’est europeo (che hanno portato standard sociali bassissimi e incremento del decentramento produttivo). E su questo la sinistra europea qualche domanda in più (e qualche mobilitazione in più) poteva porsela.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti: un incremento della precarizzazione, un peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori con aumento delle ore di lavoro a parità di salario (vedi accordi in Germania nelle aziende quali Siemens, Bosch, Wolkswagen, Opel etc), un aumento delle delocalizzazioni produttive nei paesi dell’est, una redistribuzione maggiore dai redditi da lavoro a quelli da capitale, una caduta del poter di acquisto ed una crisi della domanda e per finire la crescita del disagio sociale. Il tutto condito da un revival del pensiero neoliberista del meno stato più mercato.

E questo pare sia la mossa europea nella battaglia con gli Usa.

MA OSSERVATORI E CONCERTAZIONE SERVONO A QUALCOSA?
Abbiamo visto la gravità della situazione sia a livello internazionale che nazionale, con in più delle specificità negative del sistema Italia.

In Italia non ci sono margini di reddito da lavoro da erodere a vantaggio dei profitti perchè i salari sono più bassi della media europea, l’inflazione post euro ha colpito maggiormente che negli altri paesi, abbiamo meno servizi e quindi meno salario indiretto.

In Italia la vergogna della evasione fiscale (il 30% del totale) colpisce i redditi bassi a vantaggio delle rendite e dei profitti alla faccia delle dichiarazioni della Costituzione.

In Italia i profitti realizzati non sono stati investiti nell’industria ma utilizzati in operazioni finanziarie soprattutto all’estero.

A fronte di questo quadro economico sindacati storici e centro sinistra si dibattono in proposte di fantomatici “osservatori sulla produzione industriale” e nel ritorno alla “concertazione”, una specie di ritorno al “patto tra i produttori” contro la rendita parassitaria, oggi improponibile.

Si tratta invece di rovesciare il punto di vista, non essendo praticabile nessuna concertazione, che riduca ulteriormente i salari. Attraverso la sola arma che i diseredati hanno, il conflitto con l’obiettivo di avere salari europei. Portando all’interno del programma del centro sinistra un forte intervento sull’evasione fiscale, di concerto con un reingresso dello stato nei settori strategici dell’economia. sinistra.