Le riforme istituzionali
Il dibattito tra le forze politiche, in questa fase, verte sulla questione delle riforme istituzionali. Alcune riflessioni. Quale il compito della sinistra (di Duilio Felletti). Reds – Giugno 2010


La lontananza da prossimi appuntamenti elettorali di una certa rilevanza, ha reso il dibattito sulle riforme ancora più insitito e aspro nei toni e sta incoraggiando i partiti rappresentati in parlamento a strigere i tempi.
Su questo terreno, ognuno di questi stessi partiti, cerca di giocarsi la propria credibilità tentando di apparire protagonista e di avvalorarsi come forza politica che meglio delle altre ha compreso le difficoltà delle nostre istituzioni democratiche e meglio delle altre è stata in grado di proporre e realizzare le riforme adeguate al caso.
Ma forse, prima di entrare nel merito delle questioni messe al centro delle riforme istituzionali vale la pena di fare alcune considerazioni prendendo a riferimento le varie riforme elettorali che si sono succedute a partire dal referendum popolare di circa vent’anni fa.

In seguito al referendum si stabilì che la gran parte dei parlamentari doveva essere eletta con il sistema maggioritario e la parte residua con il sistema proporzionale, e che avrebbero avuto diritto a entrare in parlamento solo le forze politiche che avrebbero superato una determinata soglia di sbarramento.
Ciò che è accaduto è sotto gli occhi di tutti: ad un numero rilevante di cittadini non è dato, nei fatti, il diritto di essere rappresentati nelle camere parlamentari e a tutti non è dato il diritto di esprimere un voto diretto nei confronti dei candidati. Così la riforma eletorale ha prodotto due fatti rilevanti: la cancellazione dalla scena parlamentare delle forze della sinistra radicale e la presenza nei due rami del parlamento di deputati e senatori che parlano e legiferano a nome del popolo, ma che non sono stati eletti dal popolo.
Si tratta, per lo più, di personaggi di bassissimo spessore politico, nominati dai leaders delle varie componenti e che sono tenuti alla disciplina di partito, ricattati con la minaccia della non riconferma.
Il non dover rendere conto singolarmente alle rispettive basi elettorali li porta a svolgere il proprio ruolo istituzionale in modo assolutamente formale. Sono lautamente pagati per essere in aula nel momento del voto, dopo di che possono andarsene a spasso e curare i propri interessi nei momenti di dibattito. Mentre la corruzione dilaga. Cominciano a “lavorare” al martedi pomeriggio e finiscono al giovedi, mentre tutto il potere decisionale è in mano a un pugno di burocrati governativi che decidono tutto e possono tutto. Lo spettacolo triste a cui assistiamo rappresenta un parlamento svuotato dei suoi poteri e un governo con poteri assoluti molto simili a quelli dell’epoca fascista.
Ciò nonostante, chi ha voluto queste riforme si è proclamato e si proclama paladino e difensore della democrazia e della libertà e, pertanto, propone ulteriori modifiche degli assetti istituzionali, a vantaggio del popolo.
Un popolo che, a loro vedere altro non ha che un unico grande interesse, al di là delle sue divisioni interne in classi e gruppi di interesse: l’ordine democratico e la libertà.
Ma poiché è fin troppo evidente il passo indietro che è stato fatto in termini di potere politico popolare, ne è conseguito che un numero sempre maggiore di cittadini sceglie di non andare più a votare.

Si potrebbero fare ragionamenti analoghi nei vari campi in cui si è dispiegata la volontà riformatrice della maggioranza della classe politica nazionale e scopriremmo che, più che allargare gli spazi democratici e di partecipazione, la costante che ha ispirato le varie riforme è sempre stata la volontà di portare indietro le conquiste che, nelle lotte sociali, gli oppressi sono riusciti a imporre lasciando anche dei morti sulle piazze.
Anche le stesse leggi fortemente progressiste, come lo Statuto dei lavoratori, la legge a tutela delle lavoratrici, la legge per il diritto all’aborto gratuito e assistito, e altre ancora, sono state tutte riforme che, nel momento in cui sono state emanate hanno colto indubbiamente delle istanze reali che provenivano dal basso, ma al loro interno sono stati inseriti elementi, commi, articoli e postille che successivamente e progressivamente sono stati utilizzati per sotoporle a continue revisioni e attacchi (che non sono ancora esauriti, anzi…) provenienti da una cultura reazionaria.
A volte sono più blandi e a volte sono più rozzi e scoperti, ma in ogni caso sono costanti e metodici in un tira e molla che è condizionato solo dalla capacità di reazione che volta per volta viene dal basso.

Ma riprendiamo il discorso generale sulle riforme.
Il sistema politico, con tutte le sue istituzioni, ha come finalità quella di creare le condizioni affinchè i meccanismi che regolano l’economia del paese non portino all’esplosione di conflitti sociali che possano creare problemi alle classi dominanti che invece devono poter esercitare indisturbate il loro potere.
Questo amore per le classi dominanti, i ricchi, i borghesi, viene dalla convinzione (non si sa bene su quali presupposti teorici e scientifici poggi) che queste siano in grado di garantire, grazie alla loro operosità e intraprendenza, il benessere per tutta la società: uomini, donne, bambini, lavoratori, disoccupati, bianchi, neri, ecc…
Per cui, chi ha proposto e continua a proporre riforme, anche sotto la spinta dei movimenti di massa, non ha in mente la costruzione di una società alternativa alla presente (ad esempio senza padroni); ha in mente un modello sociale costruito sulle basi esistenti; non mette in discussione le basi. Anzi, in generale la volontà è quella di rafforzarle. Pertanto, quando si sente parlare di riforme, chi in questa società, in virtù delle sue dinamiche interne, vive la condizione subalterna e/o disagiata dovrebbe come minimo preoccuparsi, perché quello che si va a preparare è un peggioramento delle sue condizioni.
Non mancano gli esempi nei vari campi: la scuola, la sanità, le pensioni, i diritti del lavoro.

Ma oggi gli argomenti che tirano di più sono quelli del Federalismo (Lega Nord) e della riforma della giustizia (PdL berlusconiani). Le due questioni non sono tra loro collegate ma devono necessariamente marciare insieme per evitare rotture dentro la maggioranza di governo.

Con il progetto di trasformazione dello stato nazionale in stato federale, la Lega intende dare più peso in campo economico alle già potenti borghesie (grandi e piccole) del nord facendo in modo che le entrate tributarie restino nel territorio in cui vengono prodotte le merci. Risorse che gli enti locali dovebbero poi elargire alla classe padronale, la quale dovrebbe farsi carico di promuovere un più elevato sviluppo economico.
La popolazione padana viene convinta dai dirigenti leghisti a sostenere questo progetto, facendo leva sul senso di appartenenza al territorio; territorio che deve essere difeso dall’invasione dei migranti che altro non fanno che distruggere la cultura e il patrimonio storico del nord.
Per quanto riguarda invece la riforma del sistema giudiziario, chi la propone intende in definitiva creare un assetto istituzionale che consenta a chi è posto al governo dello stato (con i meccanismi elettorali di cui abbiamo già detto) possa farlo senza essere ostacolato da qualche magistrato troppo zelante. Chi comanda deve poter godere dell’immunità e di poteri pressochè assoluti. La legge è uguale per tutti, ma per chi governa deve essere ancora più uguale.
Per chiunque è dotato di buon senso appare fin troppo evidente che queste due materie non riguardino minimamente gli interessi delle classi e dei soggetti deboli della società ma riguardano invece gli interessi forti.
Grazie alla timidezza di ciò che è rimasto della sinistra nel parlamento, questi due progetti avanzano e quando subiscono dei rallentamenti è perché nel percorso insorgono dei problemi interni allo schieramento della destra (leggi Fini).

Ma soffermiamoci a riflettere sull’atteggiamento della sinistra sulla questione delle riforme.
Detto per inciso, se la sinistra fosse veramente tesa a difendere gli interessi delle classi e dei settori di popolazione più colpiti dall’ingiustizia, derivante dalle contraddizioni insite nel modo di produzione capitalista, dovrebbe rifiutare il terreno di lotta sul piano delle riforme. Proprio per la ragione che abbiamo riportato sopra: vale a dire che le riforme non entrano nel merito delle cause che producono l’ingiustizia, agiscono invece sugli effetti, cercando di creare le condizioni migliori affinchè tutta la popolazione possa continuare a vivere nell’ingiustizia.
Le riforme, in buona sostanza, cercano di cambiare le cose senza cambiare nulla.

La sinistra e, in essa, con più forza, i comunisti dovrebbero senza timidezza sotenere che la creazione di un futuro di pace, di giustizia sociale, di solidarietà, di armonia con l’ambiente, non può passare attraverso provvedimenti che vanno semplicemente a correggere le storture provocate da un modello economico intrinsecamente ingiusto e di per se stesso inriformabile. E su questo semplice argomento ne dovrebbe far derivare una linea politica, strategica e tattica, coerente.
Ciò a cui invece assistiamo sono i teatrini, che di volta in volta vedono protagonisti i vari Bersani, D’Alema, come pure Vendola e Bertinotti fino ad arrivare anche ai duri e puri del Prc, in cui i nostri entrano nel merito dei contenuti riformisti proposti dalla destra, per dimostrare che hanno delle contraddizioni interne; sono raffazzonati e non rispondono alle reali esigenze del paese. Chi si spinge più in là arriva a sostenere in modo molto vago e difficilmente comprensibile ai più, che occorre mettere al centro del processo riformatore i bisogni della gente che non riesce ad arrivare alla fine del mese e che perde il posto di lavoro e che è abbandonata a se stessa…e via ciarlando.

Eppure non dovrebbe essere difficile proporre contenuti anche timidamente alternativi, stando pure sul piano delle riforme. Dei contenuti che piuttosto che far funzionare meglio il sistema ingiusto, una volta realizzati, vadano a creare impedimenti ai suoi meccanismi di funzionamento.

E’ semplice, basterebbe proporre il contrario di quanto proposto dalla destra.
A fronte di chi propone il sistema elettorale maggioritario, proporre il proporzionale senza sbarramenti; a chi propone l’abolizione dello statuto dei lavoratori, proporre la sua estenione anche nelle piccole realtà lavorative; a chi propone il federalismo fiscale, proporre l’imposizione della tassazione delle grandi ricchezze; a chi propone l’allungamento dell’età pensionabile, proporre la dinimuzione della stessa; a chi propone un aumento degli alunni nelle classi, proporre la riduzione; a chi propone il respingimento dei clandestini, proporre l’accoglienza e la parità di diritti con i residenti; e così si potrebbe andare avanti all’infinito.
E’ chiaro che queste potrebbero apparire lotte di testimonianza e quindi perdenti, e comunque lotte che, essendo poste sul piano delle riforme non vanno a mettere in discussione gli assetti oppressivi dello stato, ma almeno avrebbero il pregio di insinuare nella popolazione elementi di dibattito che potrebbero portare a pensare a un modello di società alternativa. E comunque inpedirebbero alla sinistra (moderata e non) di infilarsi nel cul di sacco dei contenuti riformatori della destra.

Chi scrive non sta proponendo la rivoluzione (come sarebbe giusto e coerente fare) , sta semplicemente dicendo che una lotta sul piano delle riforme può e deve essere condotta; ciò che però deve sempre apparire chiaro è che la sinistra vera, quella che ha in mente una società senza padroni, non deve mai nascondere la sua finalità rivoluzionaria e deve sempre dichiarare che ogni riforma che propone è indirizzata da quella parte. Quella che negli anni ‘70 veniva chiamata “la lotta rivoluzionaria sul piano delle riforme”.
Può accadere che cammin facendo qualche riforma si riesca a portare a casa (pensiamo al divorzio, al diritto a non essere licenziati, ecc..), ma quello che conta è che non ci sia nessuno a sinistra che vada a predicare che abbiamo vinto e che abbiamo raggiunto il socialismo, ma che nello stesso tempo sia in grado di valorizzare il risultato ottenuto inquadrandolo dentro il processo più ampio di cambiamento radicale delle strutture della società.
Un messaggio di questo tipo avrebbe grandi effetti positivi: in termini di miglioramento del processo identitario del popolo di sinistra, in termini di entusiamo per andare avanti e, infine, in termini di crescita dell’organizzazione, che è bene non dimenticarlo mai, gli oppressi ne hanno un bisogno estremo.