Elezioni Politiche 2013: musi lunghi a sinistra
Il tentativo di ricostruire un governo dei poteri forti è fallito, eppure il risultato elettorale ha gettato nello sconforto la gente di sinistra (di Michele Corsi).
Reds – Marzo 2013.
Il risultato elettorale ha gettato nello sconforto la gente di sinistra, da quella più moderata a quella più estremista, dai vertici alle basi. In teoria un individuo dovrebbe riconoscersi di sinistra quando, nel conflitto tra un soggetto sociale oppresso (o debole, o discriminato, o…) ed uno che opprime (o che gode di privilegi, o che discrimina, ecc.), sceglie di stare dalla parte del primo. Se la gente di sinistra prendesse sul serio la ragione fondante della propria identità, dovrebbe rallegrarsi assai del risultato elettorale. Vediamo perché.
Il governo che i poteri forti avrebbero voluto è noto: Partito Democratico+Scelta Civica, cioé Bersani+Monti. I poteri forti accettavano la vittoria del PD alla Camera, mentre al Senato speravano che Bersani fosse costretto a ricorrere a Monti. Su questo risultato tutti loro si sono spesi, senza eccezioni: la Chiesa cattolica con editoriali su L’Osservatore Romano ed Avvenire; La Confindustria anche attraverso il suo quotidiano Il Sole 24 Ore; i tre maggiori quotidiani, espressione di altrettanti nuclei forti della borghesia -La Repubblica, Il Corriere della Sera, La Stampa; l’Unione Europea con esplicite dichiarazioni dei maggiori leader. Tutti questi soggetti ritenevano che Berlusconi (e la sua alleanza Popolo delle Libertà+Lega Nord) fosse inadatto a promuovere le politiche di austerità, dato che il personaggio è sempre stato molto più concentrato a gestire i propri privatissimi interessi che non quelli della sua classe sociale. Il PD invece aveva già dimostrato, con il “leale” sostegno al governo Monti, di essere sufficientemente affidabile, e a maggior ragione se fosse stato obbligato, dai numeri, all’alleanza con Monti.
Ebbene, questo piano è saltato. Inaspettatamente il Movimento Cinque Stelle ha fatto il pieno e il PdL ha guadagnato più di quanto ci si aspettasse. Il risultato ha gettato nel panico i poteri forti. Non si capisce, però, perché lo stesso risultato dovrebbe intristire la gente di sinistra.
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Che piatto ci stavano preparando? Un governo PD-Monti avrebbe fatto qualcosa in difesa di giovani, pensionati e lavoratori? Non occorre molto sforzo per capirlo: basta leggere i programmi elettorali delle due formazioni. La riforma Monti delle pensioni votata da PdL e PD, che a detta degli organismi internazionali è stata la più drastica (nel ledere gli interessi di pensionati e pensionandi) che sia mai stata varata negli ultimi dieci anni in un Paese occidentale, non sarebbe stata toccata. I contratti del pubblico impiego non sarebbero stati sbloccati. La pratica degli accordi separati sarebbe continuata (il governo Monti, sostenuto da PdL e PD, l’ha percorsa in prima persona con la demolizione dell’art.18). Non sarebbero stati ripristinati i tagli alla scuola e alla sanità, e non sarebbero state abolite le controriforme che le stanno portando al collasso. Bersani e Monti, dato che avevano come somma preoccupazione quella di risultare credibili ai poteri forti italiani ed europei, non si sono nemmeno troppo preoccupati di fare “populismo”. Sicuri di vincere, hanno parlato di vaghe “lenzuolate”, di “rimodudazioni”, di tiepide “revisioni”, ma senza mai una proposta concreta che facesse sperare che si cambiava davvero strada rispetto alle politiche di austerità. Bersani e Monti hanno fatto a gara nel dichiarare che non vi sarebbe stata alcuna patrimoniale a danno dei ricchi. Bersani ha eretto la frase “noi non raccontiamo favole” a refrain della sua campagna. Con la metafora dello “smacchiare il giaguaro”, poi, ha cercato di lucrare sull’antiberlusconismo, quando la preoccupazione della gran parte degli elettori non è Berlusconi, ma la crisi economica.
Sulla maggioranza della popolazione, prima delle elezioni, gravava come una cappa di piombo la sensazione che i giochi fossero fatti, che non vi fosse alternativa tra un centrodestra e un centrosinistra ambedue partigiani, pur con diversi dosaggi, delle politiche d’austerità, e ciò è dimostrato da vari fenomeni: a parte il Movimento 5 Stelle, le forze politiche hanno evitato i comizi di piazza (sapevano che si sarebbero presentati in pochini); gli spazi di affissione dei manifesti elettorali sono rimasti semivuoti; il numero di indecisi risultanti dai sondaggi elettorali era enorme e alla fine si è registrata alle elezioni la percentuale più alta di astensioni della storia repubblicana. La rassegnazione politica accompagnava il sentimento di impotenza nei confronti di una crisi economica che peggiora di giorno in giorno.
Ebbene: l’elettorato ha trovato la maniera di scompaginare i giochi, soprattutto tributando un sostegno sorprendente al Movimento Cinque Stelle. Il piatto preparato con tanta cura e arroganza dai poteri forti affinché i cittadini se lo trangugiassero senza fiatare, s’è rovesciato. Tutti si sono improvvisamente accorti che c’è la crisi, che la gente non ne può più delle politiche d’austerità, che ha bisogno di una strana cosa che si chiama speranza. E ha dato il suo consenso al soggetto politico che con più coerenza si è mostrato “antisistema”: il M5S.
Si dirà. Se la gente voleva esprimere un voto antisistema, perché non ha votato le forze politiche della sinistra radicale, come Sel-Vendola e Rivoluzione Civile-Ingroia? La risposta è semplice: perché non erano credibili.
Sel è un partito che navigava sino a un anno fa intorno al 9%. Aveva tra l’altro imposto il sindaco alla città economicamente più forte del paese, Milano. Che c’è stato in mezzo? Cosa l’ha portata a raggranellare, alle elezioni, un misero 3,20%? Semplice: l’accordo di ferro con Bersani. Pur di portarsi a casa il numero di deputati che immaginava l’alleanza con Bersani gli avrebbe fruttato, Vendola ha accettato di non svolgere alcuna campagna elettorale indipendente. Non si è potuto differenziare seriamente nemmeno sul terreno dei diritti civili, dato che Bersani, e persino Casini, sono ormai a favore della legalizzazione delle coppie di fatto. I suoi battibecchi mediatici con Monti non hanno convinto nessuno: tutti sapevano che dopo le elezioni i tre si sarebbero messi d’accordo. Del resto i governi di Puglia e di Milano, in cosa differiscono da una normale amministrazione PD? Votare Vendola o Bersani, in realtà, era lo stesso. O per lo meno i numeri stanno lì a dimostrare che gran parte di coloro che avrebbero potuto votare Vendola, così l’ha pensata.
Quanto a Ingroia, il raggruppamento da lui capeggiato è uno dei più bizzarri dell’intera storia repubblicana. I due partiti comunisti che sostenevano l’alleanza, Prc e Pdci, hanno delegato la campagna a tre magistrati: Ingroia, De Magistris e Di Pietro, che comunisti non sono. E l’hanno condotta, com’è naturale, seguendo le proprie corde. Non si può chiedere a magistrati anticorruzione e antimafia di improvvisarsi sindacalisti ed esperti di problematiche sociali. Così si è parlato più di mafia che di crisi. Sul piano della moralità pubblica, poi, il fronte era assai poco credibile, viste le figuracce di Italia dei Valori e del suo leader Di Pietro. I partiti di sinistra non hanno nemmeno tentato di organizzare una campagna popolare che partisse dal basso, come era accaduto ad esempio in occasione dell’elezione di Pisapia. Si sono affidati alle apparizioni mediatiche, non molto brillanti peraltro, di Ingroia, occupato in una stramba campagna acquisti priva di coerenza e di stile. Era evidente agli occhi di tutti, e soprattutto dei militanti dei due partiti comunisti, che si trattava di una operazione opportunista, una aggregazione che si sarebbe sciolta il giorno dopo le elezioni e che serviva solo ad assicurare una rappresentanza parlamentare di testimonianza ad ognuno dei soggetti che la costituitva. Perché un tale voto avrebbe dovuto apparire antisistema? E infatti Rivoluzione Civile non è stata scelta nemmeno da coloro che normalmente votano le singole formazioni che l’hanno fatta nascere. La coalizione ha preso 400.000 voti in meno di quanto avevano guadagnato da soli l’insieme dei due partiti comunisti nel 2008, e senza contare che nelle attuali elezioni si sarebbe dovuta registrare la confluenza del milione e mezzo di persone che nel 2008 avevano votato per Di Pietro. Inoltre: ognuno di quei soggetti avrebbe voluto l’accordo col PD, nonostante il sostegno di quel partito alle politiche di austerità: è Bersani che non li ha voluti. Il che la dice lunga sulla loro “alternatività” alla sinistra moderata.
Si dirà: perché la gente di sinistra dovrebbe essere contenta del successo del Movimento 5 Stelle, quando quel movimento non è di sinistra?
Il fatto che il M5S non si definisca né di destra né di sinistra, al pari di vasta parte dell’elettorato, specie giovanile, non è un problema di Grillo e di chi lo vota, è interamente un problema della sinistra. Perché la destra sa cos’è e lo dice: contro gli stranieri, contro i diritti civili, meno tasse, tagli a scuola e sanità. La sinistra, invece, non si capisce cos’è. Alla prova dei fatti il PD, teoricamente di sinistra, dovendo scegliere se togliere ai ricchi o ai pensionati, sotto il governo Monti, ha scelto di colpire i pensionati (presenti e futuri). E quanto alla sinistra radicale, dovendo scegliere se portare avanti una politica coraggiosa di presenza indipendente oppure andare “sul sicuro” guadagnando qualche deputato in più, ha scelto senza indugio la seconda strada. Del resto, quando sotto la direzione di Bertinotti era al governo con Prodi, ha votato persino a favore della prosecuzione della guerra in Afghanistan, oltre che dei tagli alla scuola pubblica. Il termine “sinistra” in Italia è divenuto nella pratica qualcosa di profondamente disallineato e non corrispondente ai contenuti ed ai valori che in teoria dovrebbe incarnare. E’ una copertura ideologica di altro, è come se prendessimo sul serio l’autodefinizione dei dirigenti cinesi come “comunisti”, quando sono a capo di un Paese dove il capitalismo si sviluppa in maniera così selvaggia da ricordare l’Inghilterra della prima rivoluzione industriale. O come il cardinale Sean Brady che ha coperto i preti pedofili continuando a proclamarsi seguace del Vangelo. Coperture. Maschere. Scollamenti tra ideologia e realtà.
Il programma del M5S è chiaramente un programma che in altri tempi si sarebbe definito democratico-progressista. Su questo non vi possono essere dubbi. Sul terreno della scuola, ad esempio, è l’unico che propone l’abrogazione della controriforma Gelmini. La sanità gratuita. E’ contro le grandi opere dei trasporti e lo spostamento degli investimenti sul trasporto dei pendolari. Ecc. Non vi è nulla che possa essere considerato “reazionario”. Certo vi sono dei vuoti e delle omissioni che, per chi si considera di sinistra, non sono di poco conto. Sull’immigrazione non dice nulla o molto poco. E sui temi dei lavoratori altrettanto. Qualche mese fa in pieno dibattito sulla patrimoniale contro i ricchi, il M5S ha preferito parlare di tagli agli stipendi dei parlamentari, quando è certo che da lì, per quanto ladroni, non vi sarebbe alcuna possibilità di ricavare gettito sufficiente ad evitare il salasso a danno dei lavoratori. E poi il silenzio sull’evasione fiscale. Ma. La crisi economica spinge tutti a dover prendere posizione intorno ad una domanda: chi deve pagare i costi della crisi? Non c’è verso di sfuggire alla questione. E allora si deve dire che di fronte all’incalzare della crisi il M5S alla fine va prendendo via via posizioni che fanno dire all’Economist e al Wall Street Journal che Grillo ha posizioni “irrealistiche”. Per i padroni del mondo tutto ciò che danneggia i ricchi e favorisce i lavoratori è irrealistico. Il M5S, come risposta alla disoccupazione, ha proposto il reddito di cittadinanza e la diminuzione dell’orario di lavoro. Sono forse proposte “fasciste”? Nemmeno Ingroia le ha sostenute. Quando Grillo ha affermato provocatoriamente che i sindacati andavano aboliti s’è sollevato un putiferio. La sua precisazione che se i sindacati fossero come la Fiom allora sarebbe tutta un’altra storia, è passata invece inosservata. Beh, parlar bene della Fiom è una posizione di destra? La realtà è che il M5S è completamente estraneo non solo alle vecchie rappresentanze politiche, ma pure ai poteri forti. Anche per questo è positivamente influenzabile dalle correnti sociali che attraversano la società. Ad esempio: pensiamo che una legge sulla rappresentanza che possa permettere alle categorie dei lavoratori, attraverso un referendum, di poter approvare o respingere i contratti, possa essere più facilmente votata da Bersani-Vendola o da Grillo?
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L’M5S pone grande enfasi sulla lotta alla “casta politica” e propone come rimedio la rinuncia agli emolumenti (salvo il corrispettivo di uno stipendio “normale”) e la non candidabilità dopo il secondo mandato. Non avrebbero dovuto essere anche queste delle bandiere della sinistra? I fenomeni degenerativi legati alla presenza nelle istituzioni sono forse estranei alla progressiva estraniazione della sinistra dai suoi soggetti sociali di riferimento? Abbiamo già detto più sopra di come l’area della sinistra radicale abbia sacrificato volentieri i punti qualificanti di un programma di sinistra e la propria indipendenza per inseguire un maggior numero di parlamentari: è il numero di parlamentari che ha dettato la linea, non il contrario. Ed è stata una scelta volta a far eleggere giovani, disoccupati, operai? No: ai primi posti, quelli sicuri, c’erano loro, i dirigenti. Quelli che sono già stati, troppe volte, deputati e senatori. Essi hanno occupato i primi posti (che supponevano “garantiti”) delle liste di Ingroia, e Vendola (e Bersani) hanno trovato il modo, nonostante le primarie, per infilare nei posti che, di nuovo, ritenevano sicuri gli uomini e le donne di apparato, i veterani delle istituzioni. La sottile corruzione morale favorita dalle istituzioni ha sempre agito nei partiti di sinistra (di quelli di destra non parliamo, perché sensibili ad una corruzione di ben più ampia portata materiale) anche ai più bassi livelli. Qualsiasi attivista di sinistra può, con dolore, enumerare gli innumerevoli episodi di arrivismo, tradimento, voltafaccia, attaccamento alla sedia, anche a livello di consigliere comunale di sperduti paesini.
Si grida allo scandalo quando il M5S e Grillo si rifiutano di essere intervistati dai media nostrani. I media stanno portando avanti una politica vergognosa di nascondimento degli effetti della crisi economica sulle persone, promuovono smaccate campagne elettorali a favore dei candidati e delle coalizioni scelte in neppure tanto segrete stanze dai poteri forti, dipendono tutti da una qualche entità economica, eppure, se ci si rifiuta di interloquire con loro, questi media gridano all’attentato alla libera informazione. Ma l’informazione in Italia non è affatto libera, e non parliamo solo dei media di Berlusconi. A generare il cielo plumbeo dell’inevitabilità delle cure di austerità e dei soggetti politici che dovrebbero comminarle, sono stati in larga misura i media. Il voto a favore del M5S è avvenuto nonostante una formidabile campagna mediatica che ha visto tutti schierati contro il nuovo fenomeno politico, tacciato di “populismo”, l’aggettivo che ha preso il posto di “terrorismo” come spauracchio da agitare di fronte alle masse impaurite e stanche. E quanto alle forze di sinistra, cosa darebbero i loro dirigenti per una comparsata televisiva o un’intervista a un qualsiasi quotidiano? Perché non hanno, loro, ideato quella straordinaria forma di contestazione che è il boicottaggio? Perché per anni hanno contribuito ad animare i salotti di Vespa, invece di disertarlo?
Si accusa il M5S di essere internamente autoritario. I media hanno dato uno straordinario rilievo alle espulsioni operate da Grillo. Di espulsioni tutti i partiti ne hanno fatte, e non per questo sono stati definiti dittatoriali. E c’è un altro elemento. Una forza basata sulla resistenza alle lusinghe di istituzioni e tv, come il M5S, e con una militanza giovane e senza precedenti esperienze, come potrebbe tollerare comportamenti difformi su quel terreno senza esplodere? Di Pietro ha costituito a suo tempo l’Italia dei Valori su contenuti in parte coincidenti con quelli del M5S, ma non ha operato né selezioni in entrata né espulsioni. I risultati si sono visti: i suoi improvvisati deputati sono stati comprati a destra e a sinistra.
Si dirà che hanno vinto anche il PdL e la Lega e che per questo c’è poco da gioire. Non è vero. I dati dimostrano che non è così. Il Pdl ha subito una enorme emorragia di voti: dal 2008 ha perso il 46%, la Lega il 54%. I sondaggi li davano ancora più sotto? Vero, ma quegli stessi sondaggi riportavano anche di una percentuale enorme di cittadini ancora indecisi su chi votare. Ciò che è accaduto, semplicemente, è che una piccola parte di coloro che avevano votato a destra nel 2008 e che alla vigilia del voto era indecisa, alla fine ha rivotato gli stessi simboli. Ma questa dinamica non può oscurare l’evento enorme dello spostamento di 8 milioni di voti, tale è la perdita della destra. La base sociale del PdL è costituita da settori di lavoro autonomo che vuol continuare a garantirsi l’evasione fiscale, da settori sottoproletari che sono specie nel Meridione sensibili a messaggi demagogici, e da pensionati isolati socialmente e dunque in balia dei messaggi televisivi. Ebbene parti consistenti di questi tre settori hanno lasciato il berlusconismo e il leghismo. E’ la prima volta che accade in vent’anni. Non è una buona notizia? Il fatto che in parte si rivolgano al M5S non è il segno che quel soggetto è di destra, ma che quei settori, sull’onda della crisi, si sono spostati su posizioni democratico-progressiste. Cosa c’è di così catastrofico?
In ambiente PD è popolare l’analisi semplificatoria che, se al posto di Bersani si fosse candidato Renzi, le cose sarebbero andate meglio. Questa convinzione è favorita dai media e dai poteri forti, che al tempo delle primarie avevano sfacciatamente puntato su Renzi ai danni di Bersani. Sia nel caso della dirigenza PD che dei poteri forti, la ragione di questa ridicola analisi è presto detta: non possono ammettere la vera ragione della sconfitta del PD, ovvero il sostegno alle politiche di austerità di Monti. L’enorme spazio politico occupato dal M5S non è stato creato dalla particolare simpatia o antipatia di Bersani, ma dalla risposta che la politica ha dato alla crisi economica. E in questo Renzi non avrebbe affatto rappresento una alternativa. Egli ha appoggiato Monti in tutto e per tutto. Anzi: le sue ricette sono anche più liberiste di quelle di Bersani. Ma davvero siamo convinti che decine di milioni di voti si spostano solo perché c’è un candidato che è più carino di un altro? La ricetta di Renzi è “un po’ più di Monti nel PD”. E si pensa che questo avrebbe convinto gli elettori del M5S a votare PD?
Il progetto Monti è crollato. Non è anche questa una buona notizia per chi si ritiene di sinistra? Esso rappresentava la speranza della borghesia italiana, e di quella europea, di costruire una rappresentazione politica del centrodestra “normale” e non condizionata dagli interessi personali del grottesco Berlusconi. Questo disegno è fallito. E sempre per la stessa ragione. Le politiche di austerità sono impopolari e il masochismo della gente arriva solo fino a un certo punto. Nel fallimento di quel progetto si scorge tutta l’incapacità politica e la difficoltà di esercitare un’egemonia culturale sulla società da parte delle elite italiane. Montezemolo ci ha provato con Italia Futura, ma per far decollare il progetto ha dovuto ricorrere all’aiuto di gran parte del mondo cattolico (da CL alla Comunità di Sant’Egidio), come sempre ha dovuto fare la borghesia italiana sin dai tempi in cui rinunciò a puntare sul Partito Liberale a favore della Democrazia Cristiana. E nel buco nero del fallimento, Monti ha trascinato anche Casini e Fini. Anche in questo caso: cattive notizie per la sinistra?
La realtà è che il M5S ha fatto quello che la sinistra avrebbe dovuto fare. E’ stato nelle piazze, ha coinvolto la sua militanza nell’elaborazione del programma, ha dato spazio ai giovani, alle donne e alle facce nuove, si è messo in sintonia col Paese. Ci sono stati partiti di sinistra che hanno fatto lo stesso? No, ed è per questo che hanno perso.
Dopo le elezioni, sul M5S si abbattono le pressioni più disparate per indurlo a far da cameriere nel ricomporre il piattino già rovesciato e portarlo vicino alla bocca degli italiani. Le parole che si agitano sono: “responsabilità” e “governabilità”. Decenni di fregature impartite alla sinistra dalle elite non hanno spinto i suoi dirigenti ad evitare di scattare sull’attenti quando quelle due parole vengono pronunciate da alte autorità politiche o economiche o dai più anonimi “mercati”. Purtroppo non si tratta solo dei dirigenti. La facilità con cui il popolo di sinistra si beve quelle due parole magiche è sintomatico della regressione che l’ha caratterizzato lungo gli ultimi venti anni. La “stabilità” che vogliono è quella che consentirà ai poteri forti di risolvere la crisi a loro favore senza che le grandi maggioranze reagiscano, la loro “governabilità” è la rapidità, l’efficienza e la brutalità con cui intendono agire per raggiungere quello scopo.
Siamo entrati in un nuovo periodo politico. Un periodo comincia quando le mutate condizioni sociali ed economiche impongono rivolgimenti a istituzioni e rappresentanze politiche troppo lente a cogliere il nuovo che avanza. In Italia, Paese dalle rappresentanze e dalle istituzioni deboli, questi rivolgimenti avvengono più o meno a distanza ventennale. L’ultimo c’era stato all’inizio degli anni ’90, quando una serie di scandali (tangentopoli) favorirono un ricambio dei gruppi dirigenti richiesto, in realtà, dalle nuove condizioni internazionali (caduta dell’Urss, ecc.). Così sparì il Pci (avrebbe dato vita poi attraverso varie trasformazioni all’attuale PD), insieme a Dc e Psi. Nacquero il polo berlusconiano e la Lega. Allora come oggi l’attuale PD fu chiamato a sostenere governi “tecnici” (Amato, Ciampi), in realtà governi di fiducia dei poteri forti. Allora come oggi accettò misure antipopolari, come l’abolizione della scala mobile. Allora come oggi il PD sperava che, dopo aver tradito le aspettative della propria base elettorale, avrebbe vinto le elezioni, che invece perse, nel 1994. In questi vent’anni quel gruppo dirigente non ha imparato nulla. MA, diversamente da allora, quando l’elettorato si spostò a destra votando in massa Forza Italia e Lega (allora ancora più xenofoba di oggi, e attraendo il voto maggioritario degli operai del Nord), oggi i voti si sono spostati su una forza democratico-progressista, il M5S. Non è forse un segnale positivo per chi si considera di sinistra? Significa che si è aperto un enorme spazio, che non è stato riempito da un’Alba Dorata in salsa italiana. La sinistra dovrebbe felicitarsi che così tanta gente abbia deciso di scrollarsi la rassegnazione di dosso e liberarsi dal dogma della governabilità e che l’abbia fatto senza guardare a destra (dove l’offerta politica non mancava: Forza Nuova, Casa Pound…).
La situazione non è tanto diversa da quella che si era creata l’anno scorso in Grecia in occasione delle elezioni. Lo stesso tipo di vuoto però è stato riempito là dalla nazista Alba Dorata e dalla Coalizione della sinistra radicale Syriza. Syriza è stata in grado di proporsi al popolo greco come soggetto alternativo e nuovo perché la frammentazione dei soggetti che la costituiscono non le ha impedito di presentarsi come forza fresca, unitaria, radicalmente separata dalla sinistra moderata del Partito Socialista corresponsabile delle politiche di austerità, in sintonia con l’ondata di proteste. Perché in Grecia, al contrario che in Italia, alle politiche di austerità i sindacati si sono opposti nelle piazze.
E qui arriviamo alle gigantesche responsabilità di un altro pezzo della sinistra: la Cgil. Uno dei più grandi sindacati al mondo ha accettato quasi senza fiatare le tremende stangate del governo “tecnico”. Basti pensare che non ha dato alcuna seria battaglia nemmeno contro la riforma pensionistica che obbligherà decine di milioni di persone a lavorare anni e anni in più gratis per il bene della patria e le tasche di quelli che la crisi l’avrebbero dovuta pagare. La Cgil è pienamente corresponsabile del clima di passività sociale, ed era complice del piattino che le elite stavano preparando. La Camusso ha puntato tutto sul possibile governo Bersani senza nemmeno preoccuparsi di negoziare col suo partito misure concrete che andassero a favore di coloro i cui interessi dovrebbe rappresentare.
Riprendiamo l’inizio del nostro pezzo: “in teoria un individuo dovrebbe riconoscersi di sinistra quando, nel conflitto tra un soggetto sociale oppresso ed uno che opprime sceglie di stare dalla parte del primo. Se la gente di sinistra prendesse sul serio la ragione fondante della propria identità, dovrebbe rallegrarsi assai del risultato elettorale.” Ma non si sta rallegrando. Allora che si preoccupi, perché significa che qualcosa di profondo e sinistro è accaduto alla sua coscienza. E forse è questo che gli ha impedito e gli sta impedendo di connettersi col nuovo periodo che si apre, e i suoi spazi politici, densi di promesse certo più benigne si quelle del periodo che si è appena concluso.
Michele Corsi