Risposta a Paul
La risposta alla lettera di Paul O'Brien sulla questione delle alleanze elettorali del PRC. Dove si analizza la differenza tra partiti di sinistra ("operai") e di centro e di destra ("borghesi"), si difende la classica posizione leninista del "fronte unico", e che oggi più modernamente possiamo chiamare "unità della sinistra"; e si argomenta perché i DS non possano essere definiti un partito "liberale" o "borghese". REDS. Marzo 2000.


 

Rispondiamo volentieri a Paul O'Brien che ai tempi della guerra in Kosova è stato tra i pochi a difendere coraggiosamente le posizioni del marxismo classico sulla questione nazionale. Ci pare comunque che il suo dissenso nei nostri confronti sulle alleanze elettorali sia di carattere più terminologico che sostanziale. È pur vero che questo genere di dissensi nasconde a volte differenze più profonde; dunque, in questa nostra risposta, "approfitteremo" delle contestazioni di Paul per approfondire, ancora una volta, la questione dell'analisi sociologica dei partiti.

Paul ci contesta il fatto che definiamo i partiti di sinistra come "operai" mentre invece a suo dire sarebbero "operai-borghesi". Scopriamo poi alla fine dell'articolo che Paul è d'accordo con noi sulla parola d'ordine della rottura del centrosinistra e dell'unità dei partiti di sinistra. Dunque Paul pare condividere il fatto che questi partiti abbiano qualcosa di differente dai "normali" partiti borghesi, anche se non ci dice quali esse siano. La differenza tra lui e noi risiede forse nel fatto che Paul preferisce il termine "operai-borghesi" ad "operai". Spiegheremo di seguito perché noi preferiamo utilizzare alcuni termini invece di altri, ma ci preme dire che se è solo una questione di parole la "querelle" non ci sembra particolamente interessante. Mentre se dietro alle scelte lessicali si nasconde della sostanza, allora bene, discutiamo di quella.

Non parliamo in generale nei nostri documenti di "partiti operai" ma di "partiti di sinistra". Utilizziamo il termine "partiti operai" tra virgolette e accompagnato sempre da varie specificazioni. Lo facciamo per "legare" le nostre analisi a quelle più lontane dei vecchi bolscevichi, che utilizzavano termini che a nostro avviso non sono più comprensibili, e quindi neppure utili. I termini che servono a "rivestire" i fenomeni devono essere, nella misura del possibile, immediatamente compresi non diciamo dalle "larghe masse" (che di questi tempi s'occupano di tutt'altro) ma dalle avanguardie (piccoline) che oggi resistono in Italia. Il termine "partiti operai" non è oggi compreso da nessuno se non da coloro che possiedono una solida formazione trotskista, quindi poche centinaia di persone in Italia. Per il resto, anche i marxisti non trotskisti quando sentono parlare di "partiti operai" contestano: "perché operai? I salariati vanno molto al di là degli operai"; oppure: "operai? e perché: D'Alema sarebbe un operaio?"; "ma che dite? Vi pare che i DS e il PRC abbiano un radicamento tra gli operai?". Tutte obiezioni che hanno un loro fondamento e che indicano dunque che il termine, perfettamente comprensibile sino a cinquant'anni fa, deve essere sostituito da qualche cosa di più accettabile e che si presti ad un numero minore di equivoci.

Noi proponiamo su REDS il termine "partiti di sinistra", per varie ragioni. La prima è che quando utilizziamo questo termine la gran parte delle avanguardie, e non solo, capisce a quali partiti ci riferiamo: DS e PRC. È vero che vi è una fetta di avanguardia (i bertinottiani e, ci pare, Proposta) che fanno discorsi dai quali si deduce che non considerano più i DS come partito di sinistra. Ma si tratta di un settore ristretto che pensa di trasformare definizioni sociologiche in strumenti di battaglia politica (del tipo: "fai una politica di destra? E io ti tolgo la qualifica di "sinistra"!). Gran parte degli elettori, quindi le "larghe masse", sa di che cosa si sta parlando, quando si parla di "sinistra". Mannheimer pubblica periodicamente sul Corriere della Sera degli interessanti sondaggi in cui domanda agli elettori dei vari partiti dove si collocano sull'asse destra-centro-sinistra. La stragrande maggioranza degli elettori DS e PRC si collocano a sinistra, non così quelli del PPI o dei Democratici. La gran parte degli elettori, cioè, dà alla parola "sinistra" esattamente il senso generale che diamo noi: partiti ai quali si "domanda" una politica a favore delle classi popolari.

Quindi nella elaborazione delle parole d'ordine, che devono possedere sempre la caratteristica di essere "popolari" (cioè comprensibili) e allo stesso tempo "esatte", ci pare che la parola d'ordine "unità della sinistra" invece di "unità dei partiti operai", o "fronte unico dei partiti operai" sia più accettabile.

In questo senso l'uso del termine "operai-borghesi", o peggio "agenti della borghesia nel movimento operaio", ci pare ancor più bizzarro ed incomprensibile. Ad un termine che si presta a numerosi equivoci - "operai" - se ne somma un altro - "borghesi" - che noi riteniamo si debba utilizzare correntemente nel dibattito della sinistra, ma che è comunque tuttora poco familiare. Immaginiamo una parola d'ordine che chiami alla "unione degli agenti della borghesia nel movimento operaio"...! Chiunque farebbe fatica a capire se si tratta di una consegna marxista o della pubblicità dell'ultimo film di 007. In pratica si tratta di una definizione che per essere comprensibile si deve trascinare dietro un libro di definizioni e disquisizioni. Che senso ha? Oltretutto dà un'idea errata della natura di questi partiti, e forse qui veniamo al dunque di un possibile problema di sostanza.

I partiti di sinistra sono espressione (a volte deformata) di una classe che non può più essere definita "operaia". Questa classe è la classe dei lavoratori dipendenti, o detto in termini più desueti, del proletariato. Come abbiamo spiegato in altra sede (vedi "Le classi sociali in Italia") questa classe è composta da operai (in Italia circa al 50%) ma anche da impiegati statali, lavoratori dei servizi, ecc. Certo, la frazione operaia di questa classe è quella con maggiori potenzialità di bloccare il sistema, quella normalmente con più coscienza sindacale, ecc. Ma rimane comunque una frazione. Quindi se si vuole legare, nell'uso delle parole, la natura dei partiti ad una classe si dovrebbe dire "partiti proletari" o "partiti della classe lavoratrice". Ma per le ragioni di cui parlavamo sopra definirli di "sinistra" ci pare più facilmente comprensibile.

Il termine "agente della borghesia" è fuorviante. È la peggior definizione che si possa immaginare. Il termine "agente" richiama qualcosa di nascosto e poliziesco che ha poco a che fare con la politica ad esempio di aperta collaborazione di classe dei DS, i cui dirigenti fanno ben poco per nascondere i propri fini. Inoltre dà l'impressione che il problema dei partiti riformisti sia "esterno" alla classe lavoratrice, che rimarrebbe pura, estranea, ma - ahimè - "infiltrata" da agenti esterni ad essa. Al contrario: al centro dell'elaborazione del nostro collettivo c'è l'idea che la burocrazia sia un problema del tutto interno alla nostra classe. Dire o far intendere ai lavoratori che i tradimenti delle proprie organizzazioni dipendono da qualcosa che si sviluppa al di fuori della loro concreta esistenza, significa far abbassare la guardia alla classe circa un pericolo che si produce nel suo seno, sin dalla fabbrica, da dove spesso i burocrati del movimento operaio muovono i primi passi.

Ciò che intendiamo per "burocrazia" l'abbiamo detto in un nostro documento fondativo e non lo ripeteremo qui (vedi "La burocrazia"). Richiamiamo solo un paio di concetti. I grandi sindacati di massa, come i partiti di sinistra, hanno una base ed un vertice abbastanza ben definiti, ma in mezzo tutta una serie di sfumature senza soluzione di continuità. Contrariamente alla borghesia, che è esattamente definibile e quantificabile, secondo la metodologia marxista da noi riproposta nel documento sulle classi sociali, la burocrazia non è esattamente individuabile se non con grande approssimazione. La possiamo immaginare, per facilità espositiva, come una sorta di piramide con una base gigantesca, e un'altezza ridotta. La base nei sindacati è formata dalla massa degli iscritti, così come vi è una base dei partiti di sinistra costituita dalla massa dei loro elettori. Al gradino superiore troviamo una "avanguardia larga", costituita nei sindacati dalla massa dei delegati e degli attivisti sindacali e nei partiti dalla massa degli iscritti. Già a questo livello si manifestano i primi fenomeni di burocratizzazione. Ad un gradino appena superiore troviamo infatti tra i delegati coloro che sono membri degli esecutivi delle medie e grandi fabbriche, oppure quelli che frequentano la Camera del Lavoro, che ha numerosi giorni di distacco ed un certo potere da gestire. Tra la massa degli iscritti ai partiti ci sono i membri dei direttivi di circolo, tra loro i segretari, e poi i consiglieri comunali o di circoscrizione, che pure gestiscono potere. Sia ben chiaro: non diciamo che tutti costoro sono dei burocrati, ma certamente a questo livello troviamo fenomeni di burocratizzazione, persone cioè che cominciano a determinare le proprie scelte non in base ai propri ideali o agli interessi della propria classe, ma a seconda delle esigenze di conservazione del proprio ruolo (di potere) o dei propri (piccoli) privilegi: è il caso del delegato che non vuole mai ruotare, che trascorre più tempo fuori che sul posto di lavoro, che costruisce rapporti privilegiati con il ceto in cui sta entrando (istituzionale, sindacale, ecc.) distaccandosi progressivamente dalla base che l'ha generato. È anche il caso del consigliere comunale che piano piano si adatta all'ambiente istituzionale e lo si ritrova cinque anni dopo con idee completamente capovolte e a dannarsi in ogni angolo per essere rieletto. La "base" favorisce questo processo con un atteggiamento di delega che deve essere combattuto imponendo, come pensiamo noi di REDS, la pratica della rotazione.

Da quest'area "grigia", a metà tra burocrazia e base, si selezionano personaggi con incarichi, poteri e privilegi maggiori: a livello sindacale i funzionari, e poi i funzionari dirigenti, ecc. e a livello di partito il funzionario, il consigliere regionale, il parlamentare, il segretario di federazione, ecc. Si tratta di quella che possiamo definire dunque la "burocrazia" allo stato puro. Ma tra questa e la base abbiamo visto esserci tutta una serie di gradini intermedi che costituiscono il "brodo di coltura" di ogni burocrazia.

I burocrati non sono affatto agenti posti dalla borghesia a capo dei sindacati e dei partiti, ma persone che nascono e crescono nella nostra classe: D'Alema era un giovane estremista e Cofferati un lavoratore dipendente della Pirelli. Sono dunque persone che sanno benissimo da dove vengono e all'interno di che cosa sono inseriti: una burocrazia, cioè un'entità sociologica assai poco studiata dai sociologi, e molto studiata da Trotsky, senza che i trotskisti si siano mai spesi molto, putroppo, per approfondire il tema. Ogni burocrate arrivato al vertice ha una sola esigenza: conservare e se possibile estendere in potere e privilegi la propria posizione e quella del suo ceto (perché la difesa dell'intero suo ceto è la condizione per la sua stessa sopravvivenza). La linea sindacale traditrice delle direzioni dei sindacati confederali non è dovuta al fatto che sono agenti infiltrati, ma che costituiscono una burocrazia che deve mantenere la propria influenza all'interno di questa società. I burocrati non sono interessati a conservare il capitalismo di per sé, ma sono convinti che per mantenere il proprio potere non conviene creare sconvolgimenti a questo sistema, perché qualsiasi sconvolgimento potrebbe mettere in discussione la loro stessa esistenza. Non traggono profitti di tipo capitalistico, ma dividendi politici dalla loro particolare posizione nella società: una società dominata dai capitalisti, ma con una classe intrinsecamente antagonista e i cui interessi le burocrazie sono chiamate a difendere. La posizione della burocrazia è cioé intermedia, nel vero senso del termine: è cioè continuamente costretta a mediare tra la domanda dal basso di tutela degli interessi di classe e le esigenze dall'alto di mantenere integro il sistema capitalista. È questa posizione ambigua che spiega le contraddizioni di questo ceto e i suoi improvvisi cambiamenti di linea.

I dirigenti della classe lavoratrice devono dunque "rispondere" alla propria classe (la base). Rispondere non significa che facciano ciò che la base chiede loro di fare. Ne devono semplicemente tenere conto, altrimenti sarebbero disconosciuti e perderebbero la propria influenza. Allo stesso tempo devono rispondere alle esigenze della borghesia in maniera da non scontentarla troppo perché altrimenti sarebbero da questa combattuta, cosa che non vogliono, perché non vi è nulla che più temono quanto l'acuirsi della lotta di classe. La burocrazia oscilla continuamente tra queste esigenze contrastanti, cercando continuamente di mediare tra loro. La sua linea (politica o sindacale) tende a seguire pedissequamente le linee guida tracciate dalla borghesia nei periodi di riflusso, quando cioè la classe lavoratrice "dorme" e quindi non è in grado di esercitare nel gioco delle forze alcuna pressione. Quando invece questa si radicalizza allora la burocrazia è costretta a "cavalcare la tigre" e a virare a sinistra: in caso contrario l'elettorato la punisce con l'astensione (o il voto ad altri partiti) o stracciando le tessere.

Così i DS hanno dovuto prendere posizione contro il referendum sui licenziamenti perché così gli chiedeva la base, con grande dispetto dei mezzi di informazione della borghesia che hanno messo fine alla luna di miele con il governo D'Alema. A livello sindacale la CGIL è stata a suo tempo sorpresa dall'ondata del '69 ma s'è subito ripresa decidendo di cavalcare la tigre (prima di allora la dirigenza aveva portato avanti una linea sindacale del tutto simile a quella attuale, con una riforma delle pensioni che aveva fatto indignare la base nel '68).

Quindi per determinare se un partito è o non è di sinistra non si deve rispondere alla domanda: "quali interessi di classe difende?" Perché altrimenti temiamo che assai pochi partiti di sinistra potrebbero essere considerati tali. Si darebbe vita ad un giochino al massacro in cui anche molte organizzazioni considerate rivoluzionarie rischierebbero di ritrovarsi nel campo degli "agenti della borghesia nel movimento operaio". Apprendiamo ad esempio che Paul considera "Proposta" un gruppo "strategicamente adattato" al PRC, ma visto che secondo Paul il PRC è un partito borghese, ergo anche Proposta lo è? È utile questa maniera di ragionare? A cosa serve sostituire delle formulazioni scientifiche con degli epiteti?

Un'altra è la domanda a cui si deve rispondere per sapere se un partito è o non è di sinistra: "a che classe deve rispondere?" Se un partito di sinistra non risponde alla propria classe, la classe lo disconosce. Per questo i DS sono in calo elettorale costante. Non fanno cose di sinistra e dunque l'elettorato li punisce. Un partito di centro che fa una politica di centro non è punito dal suo elettorato, proprio perché non essendo di sinistra non è espressione della speranza delle classi subalterne di emanciparsi. Calerà solo se il suo elettorato si sposterà a sinistra, se si radicalizzerà e dunque porrà alla politica altre domande ed altre esigenze alle quali potranno rispondere solo altri partiti.

Ciò che determina la natura di classe dei partiti dunque non è il volere dei vertici, né la loro formazione culturale, né la loro origine di classe, ma ciò che la base di cui loro sono espressione li obbliga ad essere indipendentemente dalla propria volontà. Forse ai vertici DS piacebbe tanto non avere quella base sociale, ma questa è quella che si ritrovano e con questa devono fare i conti. Per anni hanno cercato di sganciarsene, ma invece di ingrandirsi hanno cominciato a scendere, per questo l'ultimo congresso ha agganciato l'identità DS alla socialdemocrazia.

Anche il PRC è un partito di sinistra ("operaio" nella vecchia accezione) burocratizzato. Ha cioè uno strato superiore di dirigenti più o meno inamovibili e distaccati. Inoltre dispone di un'ampia base elettorale e di una fascia intermedia piuttosto ridotta di iscritti, con una zona "grigia" fatta di una certa quantità di consiglieri comunali. Ma questa constatazione sociologica non ci porta a considerare DS e PRC la stessa cosa. Anche AN e PPI sono partiti sociologicamente borghesi, ma pensiamo che non esiste nessuno così politicamente rozzo da affermare che siano la stessa cosa.

I partiti di sinistra sono diversi perché esprimono non solo la propria classe, ma anche frazioni di classe, sedimenti di esperienze storiche, di vissuti di lotte, di bisogni di altri soggetti sociali oppressi. Ad esempio il PRC nel periodo di oppozione a Dini era divenuto espressione anche dei bisogni di radicalità di una fetta consistente di giovani, poi con il prevalere dell'approccio istituzionalista il partito ha perso quel favore. Tutte queste determinazioni fanno sì che i partiti di sinistra debbano tener conto delle domande particolari che vengono dal settore di classe e di oppressi che essi sono chiamati ad esprimere. Si sbaglierebbe ad esempio a pensare: "i dirigenti dei DS sono dei venduti ma la loro base elettorale invece..." No: la base elettorale dei DS è riformista quanto i vertici, ma certamente vuole cose di sinistra che però i vertici, inseriti negli apparati dello stato, non possono o non vogliono fare. La contraddizione cioè è la seguente: la massa elettorale dei DS non pensa alla rivoluzione e ormai non immagina più come possibile un'altra società non capitalista, ma vuole un capitalismo "dal volto umano". Il problema è che un "capitalismo dal volto umano" è una contraddizione in termini e dunque, quando i dirigenti si ritrovano a cercare di "umanizzare il capitalismo" si ritrovano invece con un sistema e delle pressioni che li obbligano a seguire i desiderata della borghesia. Da qui la delusione della massa elettorale, che non è delusione perché i vertici non fanno la rivoluzione, ma perché non fanno i riformisti, non seguono cioé il mandato ricevuto.

I partiti sono dunque un fatto sociologicamente complesso, soprattutto quelli di sinistra: sono il risultato allo stesso tempo di una domanda dal basso, di esigenze proprie di un ceto burocratico e delle esigenze della classe dominante. Non si può semplificare questa realtà o si finisce per non capire nulla.

I DS sono dunque un partito di sinistra (o "operaio" secondo la vecchia denominazione), burocratizzato (perché ha un ceto che ragiona con una logica conservativa burocratica), riformista (perché espressione di esigenze di cambiamenti morbidi), socialdemocratico (perché non pensa a costruire un'altra società).

Cosa è invece il PRC? Il PRC è un partito di sinistra, con un certo grado di burocratizzazione. Distinguiamo la situazione del PRC da quella dei DS non per "adattamento strategico", ma perché ci pare un dato della realtà. I DS sono un tipico partito socialdemocratico basato su una potentissima burocrazia operaia, quella della CGIL. Inoltre le dimensioni della burocrazia diessina inserita negli apparati dello stato è enorme (anche se del tutto paragonabile a quella di altre socialdemocrazie). Tutto ciò è senza paragoni rispetto al PRC. Il PRC non è basato su una burocrazia sindacale. Ci ha provato con la fondazione dell'Area Programmatica dei Comunisti, ma l'operazione è fallita. Il peso dell'Area è così piccolo che, ad esempio, in occasione della mobilitazione nella scuola "Liberazione" ha scelto di appoggiare i Cobas di Bernocchi. Inoltre il corpo dei funzionari del PRC è estremamente ridotto. Certo, vi è un inserimento notevole (se paragonato al numero degli iscritti) negli organismi istituzionali di basso livello (consigli comunali), che porta, vista la ridotta dimensione del partito, a deformazioni che sono visibili in gran parte dei circoli, oggi spesso concentrati in maniera pressoché esclusiva sul lavoro istituzionale. Ciò comporta un forte adattamento della militanza del PRC alle logiche del "meno peggio" e spiega anche perché la controsvolta che ha imposto gli accordi con il centrosinistra alle regionali sia passata tutto sommato in maniera abbastanza indolore nel corpo del partito, reduce da una scissione consumatasi proprio sul quel terreno. La debole presenza di una burocrazia di tipo superiore però (pochi parlamentari, scarso peso sindacale) spiega anche perché la pressione burocratica interna al PRC sia debolissima. Non vi è un vero e proprio controllo burocratico sui circoli ad esempio. Pochi circoli possono dire ad esempio di essere impediti dalla federazione nella propria azione (per loro è possibile anche NON fare alleanze con il centrosinistra a livello locale). E spiega anche la relativa radicalità sul terreno sindacale. Per questo sul piano della burocratizzazione interna, DS e PRC non sono confrontabili.

Sia il PRC che i DS sono partiti riformisti: le loro basi elettorali e la massa degli iscritti non pensano di poter giungere a dei cambiamenti tramite una rivoluzione, ma con graduali riforme. Tutti e due esprimono cioè dei bisogni di cambiamento senza rotture traumatiche. Non c'è di che meravigliarsi. Le masse, specie nei periodi di riflusso, sono spontaneamente riformiste. Ma anche qui vi è una differenza sostanziale tra i DS ed il PRC. L'elettorato DS si aspetta da quel partito che migliori il capitalismo, quello del PRC "immagina", "sogna", "desidera" il superamento del capitalismo e crede possibile e auspicabile una società diversa. Per questo l'elettorato del PRC è diverso da quello DS, per questo i dirigenti del PRC sono costretti a porsi in maniera dialettica con questa domanda di radicalità. Ciò spiega la rottura con il governo Prodi, mentre la parziale burocratizzazione del PRC spiega il rientro nei ranghi del centrosinistra. Chiamiamo la tipologia di partito che il PRC rappresenta "anticapitalista" e lo distinguiamo in ciò da quella "socialdemocratica". Usiamo questi termini non per caratterizzarne la linea politica che nei fatti non è riformista per i DS (come tutti i socialdemocratici quando sono al governo fanno di tutto fuorché riforme), così come quella del PRC non è conseguentemente anticapitalista, ma per esprimere il tipo di domanda che "forma" il carattere particolare del PRC e che ne spiega in ultima istanza le azioni politiche concrete. Tipicizzare la linea politica dei DS e del PRC invece non è in alcun modo interessante perché è largamente dipendente dai mutevoli rapporti di forza tra le classi ed è dunque, per sua essenza, zigzagante pur nei limiti di cui parlavamo prima: le esigenze della classe dominante da un lato e le domande che vengono dal basso dall'altra, senza mai aderire completamente né ad una né all'altra.

Quindi per concludere consideriamo il PRC un partito di sinistra, parzialmente burocratizzato, riformista, anticapitalista. I DS invece sono un partito di sinistra, burocratizzato, riformista, socialdemocratico.

Veniamo per ultimo alla questione della tattica elettorale. Paul dice: "Ritengo che la giusta tattica consista nel rivendicare un governo regionale e nazionale dei DS e del PRC, insistendo che sia l'uno che l'altro rompano con la borghesia. Dobbiamo inoltre imporgli di battersi per un programma di difesa delle pensioni e dei salari, contro la fortezza Europa, per l'apertura dei confini, per un'ingente iniezioni di fondi nelle scuole e nella sanità, per l'abbattimento della disoccupazione attaverso un massiccio programma di opere pubbliche sotto il controllo operaio, tutto questo poi pagato dall'esproprio dei profitti dei padroni. Bisogna informare la classe operaia e i suoi alleati però, che né i DS né il PRC accetteranno queste rivendicazioni, appunto perché non vogliono scontrarsi con la borghesia, perché sono rappresentanti dei SUOI interessi e degli interessi del SUO Stato. È così che possiamo convincere i militanti più radicali alla posizione rivoluzionaria".

È una posizione scarsamente difendibile appena fuori da un consesso di ultraconvinti rivoluzionari. In sostanza noi dovremmo dire "alle masse": "per il bene dei lavoratori ci vuole un governo DS-PRC anche se sappiamo che essi sono i rappresentanti della borghesia". Immaginiamo "le masse" che strabuzzano gli occhi, scuotono la testa e tra sé e sé e mormorano: "certo che al mondo ce ne sono di tipi strambi"! Non occorre essere particolarmente acuti per formulare questa semplicissima domanda: "e perché diavolo dovrei volere quel governo, se tu mi dici che comunque rappresenta gli interessi degli altri?"

Come abbiamo già detto DS e PRC non rappresentano gli interessi della borghesia, altrimenti non si capisce perché la borghesia non li finanzi e non faccia loro da megafono. È una maniera poco analitica considerare tutte le vacche nere, per il solo fatto che ci siamo ritrovati al buio. Ci pare un po' semplicistico dire che tutti i partiti sono borghesi (da AN al PRC), o che tutti "fanno il gioco di...", o che tutti sono impegnati nel più ben riuscito "gioco delle parti" che si possa immaginare. Pensiamo che ci sia bisogno di analisi un po' più raffinate.

Noi diciamo un'altra cosa, facilmente comprensibile perché parla di realtà e di esperienze vissute da tanti, perché in Italia molti hanno fatto l'esperienza concreta di come le posizioni di sindacati e partiti di sinistra possano cambiare in meglio se sottoposti a forti pressioni dal basso: "sappiamo che DS e PRC sono votati dalla classe lavoratrice per fare cose di sinistra, sappiamo che quando hanno avuto l'opportunità di farlo non l'hanno fatto, ora dobbiamo fare in modo che lo facciano e la condizione indispensabile per fare cose di sinistra è cercare di farle con chi di sinistra è. Come è possibile fare cose di sinistra con Martinazzoli? Noi chiediamo che DS e PRC siano alleati elettorali e ci batteremo perché una volta al governo facciano le cose per le quali li abbiamo eletti".

Un'ultima cosa. Ringraziamo anzitutto Paul di averci fatto conoscere il suo pensiero e aver dato la possibilità di iniziare un dibattito che speriamo si arricchisca di altre voci. Apprezziamo inoltre il suo tono nel complesso garbato, ma notiamo che usa certi accenti alla maniera di un "vecchio bolscevico". Noi li comprendiamo, perché siamo cresciuti sui testi di Lenin e quindi sappiamo che all'epoca era abbastanza normale polemizzare in maniera anche più "forte". Lo stesso Lenin ha tirato, in vari momenti, una tale valanga di insulti addosso a Trotski che oggi appare difficile pensare che fossero poi alleati nella rivoluzione d'Ottobre. Questo modo di polemizzare ci pare però poco adatto ai tempi nostri. In generale, riteniamo siano poco utili epiteti quali "adattamento strategico", "opportunista", e via dicendo, perché non aggiungono nulla alla discussione se non colorazioni che, nel migliore dei casi, appaiono obsolete. Se Paul si trova a suo agio con questa terminologia noi non ci offendiamo, perché ne capiamo la matrice culturale, ma lo vorremmo portare a riflettere sul contesto odierno, dove pochissimi ormai leggono Lenin, e dove gli aggettivi con il tempo hanno acquisito altri significati. Crede che sia utile alla discussione dirci che siamo "privi di programma rivoluzionario"? Ci porta a riflettere sulle nostre eventuali mancanze? Non ne siamo sicuri. Preferiremmo sentir dire da Paul che abbiamo posizioni sbagliate, o semplicemente diverse dalle sue, e poi ascoltare le argomentazioni che smontino i nostri convincimenti. La parola "opportunismo", con cui ci etichetta, significa "adeguarsi di volta in volta alle circostanze cercando di sfruttarle a proprio vantaggio" (Dizionario Garzanti); implica cioè una malafede, il dire una cosa e praticarne un'altra, nascondere interessi concreti e non detti. Francamente non ci pare di meritarlo. Questa maniera di polemizzare pensiamo che sia una cattiva abitudine dell'estrema sinistra. Ci piacerebbe invece che prendesse piede il costume che ogni accusa "forte" fosse preceduta da una serie di pacate argomentazioni, da una precisa esposizione di fatti, ecc. Per quanto ci riguarda abbiamo da tempo rinunciato ad affibbiare titoli a chicchessia quando non abbiamo la possibilità, all'interno dello stesso articolo in cui "accusiamo", di argomentare adeguatamente le nostre parole.



Di nuovo sulle alleanze elettorali
vai all'intervento di Paul O'Brien