Democrazia e partecipazione nel PRC.
Alcune riflessioni per avviare una discussione. Di Andrea Vigni, Circolo di Bussoleno, Torino. Novembre 2000.


Care compagne e compagni,

vi sottopongo alcune considerazioni e un embrione di proposta su cui mi piacerebbe avere i vostri commenti ed eventualmente la vostra disponibilità per una diffusa azione politica nel partito, collettiva e di base.
Credo che per moltissimi di noi (più di quanti crediamo) la democrazia di partito, intesa come presenza determinante della base nelle scelte strategiche e tattiche, sia ormai sentita come elemento di capitale importanza. E ciò non solo e non tanto per quanto attiene al rispetto delle forme (peraltro usualmente calpestate), ma soprattutto per quanto attiene alla sostanza politica della linea del partito, che ci appare sempre più ambigua e casuale, quindi sempre meno partecipata e condivisa.
A mio avviso questa situazione non può essere spiegata con l'argomento generico (e anche comodo) della sconfitta della sinistra organizzata e di lotta, ma risiede in caratteristiche strutturali del PRC, perfettamente funzionali ad un apparato dirigente piramidale, che al vertice ha un orizzonte limitato alle istituzioni dello stato borghese (che con la fine del proporzionale si configurano sempre più in forma di regime), mentre ai livelli intermedi e locali pratica spesso i più squallidi opportunismi quando non si pone addirittura come gendarme delle scelte di vertice. Provo a passare a qualche riflessione più puntuale. In Rifondazione la democrazia è formalmente assicurata dalla presenza di maggioranza e minoranza. Ambedue si formano sulla base dei voti attribuiti in fase congressuale a differenti mozioni omnicomprensive di grandi temi teorici, analisi dei rapporti di classe e della situazione economica, scelte politiche del momento e quant1altro. Ciò significa che alla maggioranza viene conferita ad ogni congresso una delega a guidare il partito, di fatto senza vincolo di mandato, immutabile fino al successivo congresso.
Analoga sorte, anche se di segno opposto, tocca alla minoranza alla quale, una volta ottenuta la delega ad opporsi, non resta altro da fare che esprimere ritualmente il proprio dissenso, nelle direzioni e nei comitati politici a tutti i livelli, e contrattare con la maggioranza il massimo possibile di spazio nel partito. Tutto ciò risponde piattamente agli schemi della democrazia borghese (che è basata sulla rappresentanza delegata e non sul mandato vincolato alla volontà di base) e in più si presta a perpetuare una gestione del partito in cui un apparato ideologicamente variegato, diviso e rissoso trova il modo di sopravvivere eternamente a sé stesso non certo nel confronto dialettico, ma nella pratica dell'autoritarismo burocratico e del decisionismo di vertice. Del resto ogni apparato ha tendenza a perpetuare sé stesso a partire da deleghe comunque ottenute, delle quali si perdono (o si cancellano?) in fretta anche le ragioni fondanti.
Risultato: ossificazione degli schieramenti, decisioni assunte sulla base del voto di appartenenza anziché dell'analisi critica del reale in continua mutazione, fine dell'elaborazione collettiva e del confronto dialettico, distacco diffuso e progressivo dalla lotta militante. Se in questo quadro c'è del vero, allora vale la pena di ragionare sulle due proposte seguenti:
1 - Le mozioni omnicomprensive e precostituite sono sostituite da documenti monotematici (contributi teorici, strategici, politici, organizzativi, di genere, lavoro, ambiente, etc.) presentati alla valutazione delle assemblee congressuali, nelle quali riceveranno un certo numero di adesioni.
2 - La formazione dei direttivi e dei comitati politici viene fatta proporzionalmente al numero di adesioni ricevute dai singoli documenti (cui sono evidentemente collegati i compagni promotori), rapportato all'intero ammontare dei voti espressi, data la facoltà di aderire ad un numero illimitato di documenti. Il voto contrario si identifica a questo punto con il non voto e viceversa.
Senza pretendere di affrontare il tema della democrazia del partito a colpi di modifiche procedurali, l'applicazione dei due criteri sommariamente suesposti potrebbe dar luogo ad assemblee decisionali più attente alla sostanza degli argomenti all'ordine del giorno e quindi meno manovrabili, nelle quali le maggioranze possono variare formandosi di volta in volta su temi presenti e concreti. In altre parole, con la rottura degli schieramenti precostituiti (le truppe cammellate!), si potrebbe avviare il recupero di una pratica permanente di verifica delle scelte politiche, riconquistando così un certo protagonismo collettivo del partito.
Si potrebbe anche ovviare ad alcuni assurdi che derivano direttamente dal carattere omnicomprensivo delle mozioni, nelle quali ogni tema deve collocarsi per forza in un quadro ideologico predefinito e ad esso adeguarsi, con buona pace delle realtà scottanti e contraddittorie in cui il più delle volte il tema stesso nasce. Così l'ideologia, invece di essere 'logica delle idee', diventa 'imbalsamazione delle idee' e la mummia risultante serve egregiamente come ragione di appartenenza ad uno schieramento, alibi per non fare quotidianamente lo sforzo di pensare, criticare, scegliere come abolire realmente lo stato di cose presente. Per esemplificare questi assurdi mi sembra emblematico il caso della questione di genere, affrontata quasi esclusivamente dalle compagne. Primo: i temi di genere sono entrati solo dalla porta di servizio nelle due mozioni presentate all'ultimo congresso. Secondo: sarei curioso di sapere quante donne hanno partecipato alla stesura di quei testi. E inoltre chi ha detto che la varietà e la ricchezza del dibattito fra donne possa essere riassunta in due posizioni più o meno schematiche, che per giunta non devono entrare in contraddizione con tutto il resto della mozione? Non sarebbe più democratico e più creativo confrontarsi con documenti prodotti autonomamente da donne (e da uomini se ce ne fossero) che si impegnano su questi temi? E non sarebbe anche il modo di riconquistare l'impegno politico delle donne senza ricorrere alla pratica burocratica e avvilente delle quote obbligatorie?
È evidente che la proposta di cui sopra ha a che fare col regolamento congressuale, che è proprio uno di quegli argomenti decisi al vertice, con un processo di calcolo delle convenienze e di mediazione fra gruppi di potere, e propinato al partito così com'è uscito dalle chiuse stanze. Per la serie: o mangi questa minestra etc. Ma non è forse vero che le regole calate dall'alto (dai depositari delle deleghe) costringono sempre i percorsi decisionali entro limiti compatibili con gli interessi di chi le ha inventate? Chi ha detto che attraverso il dibattito e il confronto di base il partito non possa darsi regole condivise anziché imposte, che liberino e non soffochino energia creativa di massa e capacità rivoluzionaria? Non so, né al momento m'interessa, quando si farà il V congresso del PRC, ma ho l'impressione che quando si farà, o segnerà finalmente l'inizio della rifondazione comunista o avremo perso l'ultimo treno. Poi bisognerà prendere l'aereo, ma è più difficile, più costoso e negli aeroporti ci sono troppi controlli.
Per questo sono convinto che bisogna fin d'ora fare lavoro politico di base, con idee e proposte anche parziali ma capaci di opporsi sostanzialmente alla logica perversa per cui si va ai congressi solo per dire sì o no e per ritrovarsi il giorno dopo a scazzarsi all'interno e a balbettare all'esterno. Del resto sono anche convinto che lotta politica rivoluzionaria nella società (e nelle istituzioni che ne sono la sovrastruttura), e lotta contro ogni involuzione burocratica e autoritaria del partito vanno di pari passo.
Ultima considerazione: a mio avviso ogni azione tendente a costruire un partito capace di intercettare le istanze sociali di cambiamento, espresse o latenti, e trasformarle in movimento di lotta, cioè un partito rivoluzionario e di massa, sarà del tutto vana se Rifondazione dovesse assumere posizioni equivoche alle prossime politiche. Per questo aderisco senza riserve all'appello per una posizione autonoma del PRC e per la candidatura di Bertinotti. Spero che il testo sia pronto al più presto per dare inizio ad una raccolta capillare di firme in tutta Italia. La proposta è molto valida sul piano tattico perché, indipendentemente dal risultato elettorale, l'autonomia dagli schieramenti parlamentari attuali è premessa indispensabile sia per riprendere un'azione politica alternativa e autonoma, sia per riaprire il discorso sulla natura del partito. La cosiddetta non belligeranza alla Camera nasconde (male) la speranza di spendere il presunto risultato in seggi parlamentari al tavolo postumo della trattativa con il centro-sinistra (se vince!). Sappiamo bene quali sono gli esiti di queste manovrette e l'effetto devastante che hanno sulla già provata militanza di base. Volevo lanciare un'idea schematica a partire da poche considerazioni e ne è uscita una chiacchierata a ruota libera.

Pugno chiuso, compagne e compagni, e in alto, sempre.

a proposito di questo intervento vedi le riflessioni di Meri Rampazzo del circolo K.Marx di Padova