3.6 DEMOCRAZIA E ISTITUZIONI

 

3.6.1 Per un nuovo costituzionalismo democratico in Italia e in Europa

E' in atto una fuga dalla democrazia da parte delle classi dirigenti: una fuga dalla statualità nazionale, una negazione della sovranità popolare in direzione di istituzioni a-democratiche ed elitarie, prodotte dalla supremazia del mercato. Il mercato oggi, non solo alloca risorse e distribuisce reddito; esso è accettato come produttore di norme indipendentemente dallo Stato. Per questo la politica e il potere statale vengono trattati come attrezzi inutili; perché l'accoppiata del mercato con il "governo della legge" vengono considerati sufficienti, e anzi assunti come unici e veri limiti necessari alla possibile "deriva totalizzante" della politica. È in atto una fuga liberal-liberista dalla sovranità democratica che è davanti agli occhi di tutti; che è tutt'altro che da assumere come valore universale, essendo un processo storico, determinato e prodotto dalle scelte delle imprese.

Nel nostro paese, la rottura in chiave presidenzialistica della democrazia rappresentativa, il ritorno al mercato e al privato per produrre beni pubblici essenziali, la negazione del valore politico istituzionale delle autonomie (attraverso il federalismo competitivo che esalta le regioni forti del Nord), la manomissione della funzione giurisdizionale sono strettamente intrecciati con i processi di globalizzazione e flessibilizzazione dell'impresa. Il mercato e il profitto hanno bisogno di una società passivizzata, politicamente neutralizzata, dove i poteri siano personalizzati secondo il modello gerarchico dell'impresa e prevalga il principio autoritario della governabilità in ogni ambito sociale.

Nella legislatura, che si chiude, c'è stato un tentativo con la Commissione bicamerale presieduta da D'Alema di riscrivere, con Berlusconi e Fini, intere parti della Carta costituzionale. Questo tentativo è stato accompagnato sul piano ideologico dal revisionismo storico, teso a legittimare gli eredi del fascismo. La nascita della ‘seconda repubblica' avrebbe dovuto legittimare gli esclusi dal sistema di potere democristiano: gli eredi del Pci e quelli, appunto, del fascismo.

Con quel tentativo, la sinistra liberale, cioè i DS, ha accettato un'idea di democrazia immediata finalizzata a saltare i diaframmi del parlamento e delle istituzioni di garanzia, e a esaltare il potere decisionale dell'esecutivo; insomma: ad affermare una ‘democrazia governante'. Il decisionismo di Craxi e la sua ‘grande riforma' sono il retroterra di queste controriforme istituzionali. Nella Bicamerale di D'Alema si è affermata l'ideologia della democrazia di investitura, che trova nel sistema elettorale maggioritario e nell'elezione diretta dei vertici dell'esecutivo i propri strumenti di attuazione.

Contraddizioni interne ai e tra i due Poli, ma soprattutto le due sconfitte referendarie (nel 1998 e 1999) hanno per il momento frenato questa tendenza; che tuttavia si vuole alimentare di nuovo nella prossima legislatura.

La strategia per cercare di instaurare la "democrazia governante" non è stata lineare. In generale si può affermare che il processo, in virtù della globalizzazione, si è realizzato su scala mondiale, con lo slittamento dei poteri decisionali di fondo — politica monetaria, di bilancio, di scelte produttive — da un lato verso organismi che rappresentano i governi, e cioè gli esecutivi, e dall'altro verso la tecnocrazia internazionale — Fmi, Wto, Nato, Ue... — e le grandi imprese transnazionali: che assumono sempre più le caratteristiche di veri e propri nuovi sovrani nell'ordine mondiale. A livello di sistemi nazionali si è accentuato ovunque uno stile politico plebiscitario, in cui la figura del leader si staglia come personificazione del potere, prevalendo vieppiù un sistema plebiscitario rispetto a quello rappresentativo-parlamentare. La cosiddetta società di massa ha prodotto un moderno cesarismo, sostenuto da un'élite economica e tecnoburocratica: sembrava inarrestabile il progresso della democrazia, la storia ha replicato dando ragione alla visione disincantata di Max Weber, che vedeva in cammino una democrazia di acclamazione.

Al sistema proporzionale sono state addebitate colpe inesistenti; si è detto che esso alimentava la frammentazione della rappresentanza e dunque impediva processi decisionali rapidi ed efficaci. Al sistema proporzionale si ascriveva il ‘sezionamento' della sovranità tra partiti e gruppi. L'esperienza storica degli anni 90 in Italia ha dimostrato che è il sistema maggioritario a depotenziare i processi politici decisionali, dato che le coalizioni sono costrette a mercanteggiamenti continui al loro interno per garantire la maggioranza elettorale e parlamentare. La storia di questi anni in Italia prova che il confronto sui programmi e sui valori-guida è evaporato, perché al ‘dunque' vale la duplice pressione: per essere eletti e per garantire l'appoggio al governo. Così si esalta la logica della trattativa e dello scambio, così i peggiori vizi del parlamentarismo vengono alimentati e ogni decisione deve attraversare fasi di mercanteggiamento: le decine e decine di passaggi di parlamentari da un gruppo all'altro sono ormai una triste consuetudine parlamentare, che neppure il trasformismo ai tempi d'oro di Rattazzi, e poi di Giolitti, conobbe. Si pretendeva col maggioritario di immettere una carica di decisionismo nel governo, si è finito per depotenziarlo di ogni capacità decisionale, sottoponendolo a una miriade di pressioni, che ora non trovano neppure più il filtro dei partiti di massa. La sovranità si è ‘sezionata', non tra partiti come pretendeva Maranini, bensì tra gruppi e categorie.

Naturalmente più è debole la politica più è forte il potere economico. Un'altra patologia, molto grave, alimentata dal sistema maggioritario, è quella dell'omologazione al centro dei partiti e delle coalizioni, sempre più indistinguibili nei programmi politici per potere conquistare il centro: la polemica sui programmi fotocopie per la riforma del fisco e delle grandi opere infrastrutturali tra Berlusconi e il centrosinistra testimoniano di questa omologazione al centro dei partiti e delle coalizioni.

Il sistema maggioritario e la democrazia dell'alternanza sono utilizzati come punto d'appoggio per consolidare definitivamente l'egemonia di questo nuovo centro; totalitaria fina al punto di cercare di escludere dal sistema rappresentativo le forze dell'alternativa antiliberista, a cominciare da Rifondazione comunista. Si è determinata una nuova costituzione materiale il cui nucleo sono l'impresa e il mercato, ed essa è fonte di legittimazione per governare e base di esclusione per chi è contro l'egemonia dell'impresa e del mercato. L'emarginazione politica di Rifondazione era uno degli obiettivi politici della controriforma istituzionale e dell'affermarsi del ‘maggioritario perfetto' tramite i referendum, sostenuti da Segni, Fini, Occhetto e Veltroni.

La sconfitta dei referendum ha aperto la via per una battaglia per un sistema elettorale proporzionale capace di garantire la rappresentanza e la governabilità: si conferma con forza l'opzione di Rifondazione comunista per il sistema elettorale tedesco, con la clausola di sbarramento al 5% per limitare la frammentazione, e la proposta di mantenere fermo il principio dell'elezione del Presidente del consiglio in Parlamento, introducendo semmai la norma della sfiducia costruttiva. Il rapporto di fiducia tra governo e parlamento rimane per noi uno dei cardini irrinunciabili della democrazia rappresentativa, contro qualsiasi deriva plebiscitaria che veda le elezioni, non come strumento di formazione della rappresentanza, ma come strumento di investitura dei vertici del potere.

Si pone con drammatica urgenza il problema di invertire la rotta rispetto all'involuzione elitista e oligarchica della democrazia. Che il più ricco capitalista, Berlusconi, concorra per l'incarico di Presidente del consiglio dà la misura della gravità della situazione. I ricchi vogliono assumere nuovamente il potere politico nelle loro mani, escludendo tutti coloro che nella e attraverso la democrazia hanno imposto limiti al potere e ottenuto conquiste mediante i movimenti politici, sociali e sindacali: la democrazia è stato il terreno e la via perché le classi sfruttate strappassero conquiste sociali e politiche. D'altra parte anche negli Stati Uniti, faro della ‘democrazia' occidentale la scena politica è dominata dalla ricchezza — le ultime elezioni tra Bush e Gore ne sono un esempio. All'orizzonte non c'è una moderna democrazia dei diritti universali, ma lo Stato patrimoniale.

C'è una via a sinistra per contrastare la cosiddetta legge ferrea delle oligarchie e dello Stato dei ricchi?

Non siamo per l'esaltazione dello Stato nazionale: lo Stato è troppo grande per le cose piccole e troppo piccolo per le cose grandi. Per questo siamo convinti assertori dello sviluppo e della democratizzazione dell'Unione Europea, la cui Carta dei diritti, approvata a Nizza, non fa compiere un passo avanti, non solo per i limiti delle sue formulazioni, regressive soprattutto nel campo dei diritti sociali, ma anche perché il tema di fondo è quello dell'elaborazione di una Costituzione europea non decisa dai governi (attraverso trattati e nuove conferenze intergovernative), ma chiamando il Parlamento europeo a varare una proposta di Costituzione da sottoporre ai cittadini europei, che così compirebbero un atto costitutivo del popolo europeo, determinando uno spazio pubblico continentale, garantito e retto da una Costituzione.

L'altra via per combattere le deriva oligarchica, elitista, della democrazia è quella di perseguire lo sviluppo del costituzionalismo democratico, capace di superare una visione dello Stato considerato autonomo e sovraordinato alle relazioni tra le persone. Gli uomini e le donne sono i soggetti reali, che danno vita a un sistema di rapporti sociali, essi ed esse devono essere i e le protagonisti/e. Lo Stato — al pari del capitale — è ostile al diritto e alla democrazia, per questo la storia del costituzionalismo è la storia della limitazione del potere dello Stato: si tratta di compiere un salto verso un ‘nuovo costituzionalismo', democratico, che sia capace di rimuovere ogni pratica oppressiva di potere.

Oggi deve continuare, sulla base dei nuovi diritti umani e sociali, l'opera di conformazione dello Stato e del sistema politico al costituzionalismo.

La forma universale, che a essi proviene dalla loro stipulazione universale come diritti fondamentali in norme costituzionali sopraordinate a qualunque potere decisionale, garantisce che essi siano di tutti, siano inalienabili e indisponibili, rappresentando così limiti e vincoli invalicabili di qualsiasi potere, pubblico e privato. I nuovi diritti universali, che garantiscono a ogni persona la libertà dalle miserie e povertà sociali e dall'oppressione politica, non sono più solo formali, ma anche sostanziali perché l'indisponibilità dei diritti vale sia verso la sfera politica sia verso il mercato.

 

3.6.2 Il ruolo degli enti locali

Nel corso degli anni 90 gli enti locali hanno guadagnato un ruolo politico via, via crescente. Ciò è stato dovuto a interventi legislativi radicali che ne hanno modificato a fondo la struttura e l'ordinamento istituzionale, ma anche a una mutata attenzione da parte della popolazione locale nei confronti dei governi degli enti locali.

Le Regioni vanno sempre più assumendo un ruolo quasi statuale, svolgendo competenze di grande valenza politica trasferite dallo Stato, e un tempo di esclusiva competenza legislativa nazionale. Gli stessi Comuni e le stesse Province accrescono le loro funzioni amministrative e organizzative. I cittadini individuano sempre più gli enti locali territoriali come i più diretti responsabili della loro qualità della vita.

Tuttavia, questa grande trasformazione è avvenuta e avviene sulla base di una pura logica di riduzione del debito dello Stato centrale. Cosicché vengono trasferite funzioni senza che esse vengano coperte con adeguati trasferimenti, e anzi in un quadro di riduzione dei trasferimenti dello Stato sulle stesse funzioni già attribuite agli enti locali.

L'introduzione del patto di stabilità interno ha ulteriormente aggravato il sistema di bilancio degli enti locali territoriali, imponendo rigidi vincoli monetaristici e costringendoli a ricorrere a "esternalizzazione" nell'esercizio delle loro funzioni mirate e a vere e proprie svendite patrimoniali e di servizi.

L'idea comune, sia al centro-sinistra che al centro-destra, è nella sostanza che le amministrazioni locali debbano limitare il proprio intervento a un ruolo di regia, senza gestire direttamente ciò che può essere gestito da un privato. La differenza tra i due poli sta nel fatto che il centro-sinistra pensa almeno ad offrire una "opportunità" per le fasce sociali più deboli, anche se questa intenzione viene nella sostanza ridotta a un intervento di carattere caritatevole.

Il Prc propone una svolta radicale nella politica verso gli enti locali e le regioni.

In primo luogo, va ripristinato il primato della carta Costituzionale vigente, la quale assegna ad enti locali e regioni compiti e funzioni precisi, in un quadro di unitarietà e di valorizzazione delle autonomie.

In tale quadro, allo Stato spetta il compito di legiferare in modo unitario definendo un sistema universale di garanzie su materie di grande rilevanza sociale (scuola, sanità, lavoro, ambiente, trasporti, servizi essenziali); alle Regioni il compito di legiferare relativamente all'attuazione delle leggi-quadro nazionali, oltre a quello della programmazione; mentre tutte le funzioni amministrative vanno esercitate dagli enti locali.

Va perciò abbandonato ogni riferimento a modelli federali frutto, nel nostro paese, di un dibattito marcato da spinte separatiste e da frantumazione sociale.

Il nodo centrale da affrontare per imprimere una svolta nelle politiche per le autonomie locali, è una riforma fiscale che investa anche il sistema della finanza locale. Sino ad oggi le modifiche intervenute hanno solo costantemente eluso il problema del riordino della finanza locale, continuando la pratica dei tagli ai trasferimenti. Ed è illusorio pensare, come fa il Governo, che il problema possa risolversi nell'ambito di una semplice riforma dell'Irpef.

Il PRC ritiene che, a ordinamento e Costituzione dello Stato invariati, il sistema compartecipativo sul gettito fiscale può essere un sistema efficace a condizione che lo stesso Stato si faccia garante di un fondo di perequazione tale da sopperire le differenze sociali esistenti nel paese.

L'ici va abolita e sostituita con una vera patrimoniale che colpisca in modo progressivo (tra 0,5 e 1,5%) e a scaglioni di patrimonio tale da garantire l'esenzione alla prima abitazione e ad un patrimonio non superiore ai 200 milioni. Questo meccanismo consentirebbe l'abolizione tra l'altro delle attuali addizionali sul reddito e sulle bollette delle famiglie.

L'Irap va radicalmente modificata, in modo da recuperare il gap negativo andato ad appannaggio delle grandi imprese (uno dei tanti regali ricevuti) e che in questi due anni ha marcato la bella cifra di 28.500 miliardi. Tanto hanno perso le regioni dall'introduzione dell'Irap in sostituzione di 5 differenti imposte. Anche in questo caso la modifica deve essere di sostanza introducendo una differenziazione delle aliquote (tra il 4 e l'8%) in modo che artigiani e piccolo commercio paghino il minimo mentre il massimo sia riservato a grandi imprese, banche, finanziarie, assicurazioni, grande distribuzione, ecc...

Un altro punto di grande rilievo è l'introduzione della compartecipazione di regioni ed enti locali alla lotta e al recupero dell'evasione fiscale. Questo elemento, oltre ad essere un punto capace di qualificare un intero programma (essendo il livello di evasione fiscale, un'autentica vergogna nazionale, nonché la causa di tante sperequazioni), può diventare anche un significativo sistema di autofinanziamento delle autonomie locali. L'incentivazione alla compartecipazione nella lotta all'evasione fiscale potrebbe essere portata fino al 40 per cento ed essere così concepita: per ogni 100 lire di evasione recuperata, 10 andrebbero alle Regioni, 25 al Comune e 5 alla Provincia.

Nel corso di questi anni, tra i punti più pesantemente negativi per gli enti locali c'è stato il violento, ideologico, processo di privatizzazione dei servizi, sia a carattere industriale sia a carattere sociale. Occorre dapprima fermare e poi invertire tale processo sottraendo la sfera del bisogno e dei diritti alla mercificazione.

Gli enti locali devono poter mantenere il diritto di decidere in piena autonomia, la forma di gestione a cui ricorrere nell'erogare i servizi ai propri cittadini e ciò deve avvenire anche in relazione ai criteri di affidamento, su cui si ricorrerà a gara solo in caso di affidamento esterno cioè al di fuori di proprie aziende, società, o controllate.

Nella dichiarazione di principio unita alla carta dei diritti dei cittadini di cui ogni ente locale deve fornirsi, vengono dichiarati beni indisponibili e quindi inalienabili, oltre alle strutture dei servizi a rete anche i beni vitali quali l'acqua, l'energia elettrica, il gas metano, stabilendo in questo modo l'impossibilità di sottoporre tali beni a processi di privatizzazione.

Sarà compito di ogni Regione stabilire criteri e rapporti qualitativi di applicazione dei minimi di legge per l'erogazione dei servizi e sarà compito degli enti locali erogare ai cittadini le prestazioni di servizio. I servizi sono pubblici, quando agiscono su bisogni e diritti fondamentali e in questo caso gli enti locali territoriali sono obbligati alla loro erogazione. I cittadini compartecipano ai costi dei servizi pubblici in termini compatibili con il proprio reddito, che saranno comunque coperti dalla fiscalità generale.

I processi di privatizzazione già in stato di forte avanzamento, come il trasporto pubblico locale, saranno fermati e ricondotti in ambito pubblico. Il nuovo modello tariffario garantirà gratuità ai soggetti socialmente deboli e sarà legato al reddito individuale.

 

3.6.3 Una politica per le città

Le scelte di politica economica assunte nel corso di questi anni, com'è stato documentato nel capitolo precedente, hanno penalizzato in modo rilevante gli enti locali, rendendo difficile la stessa gestione di politiche locali efficaci. E' del tutto evidente che questi indirizzi hanno impattato in modo particolare sulle città, in quanto luoghi d'eccellenza nel territorio. Il paradosso che, anzi, si è venuto a determinare sta nel fatto che le città mentre tendono a divenire i luoghi strategici dell'innovazione, con tutto ciò che questo comporta in termini di modifica delle loro funzioni economiche e di riassetto della loro struttura sociale, sono sempre meno in grado di attuare politiche efficaci per far fronte alle nuove problematiche. Ne deriva che una politica nazionale di riequilibrio territoriale, di superamento degli squilibri sociali e di attivazione di nuove opportunità di sviluppo è seriamente compromessa dall'assenza di un'iniziativa forte dei governi locali. Occorre pertanto rimettere al centro l'esigenza di una politica per le città. I cardini di tale politica possono essere cosi sintetizzati.

 

 

 

3.7 Giustizia e apparati dello stato

 

3.7.1 Giustizia

I processi di privatizzazione hanno così pesantemente investito tutti gli aspetti del vivere sociale da modificare la costituzione materiale del nostro paese: i diritti dei cittadini, anche quando restano scritti sulla carta, diventano sempre più difficilmente esigibili.

La mancata realizzazione, per la gran parte dei cittadini, del diritto di "accesso" alla giustizia si traduce di fatto in negazione dei diritti sostanziali. Una situazione che si ripercuote negativamente soprattutto sulle fasce deboli della società, che sono quelle che hanno maggiore bisogno di una tutela veloce ed efficace dei propri diritti.

Le nostre proposte e la nostra azione parlamentare nel campo della giustizia civile e penale hanno perciò teso a coniugare l'affermazione del principio di legalità e la difesa delle garanzie dei cittadini, avendo presenti le disparità sociali che rendono il diritto "meno uguale".

Il bilancio di legislatura ci porta ad esprimere un giudizio articolato. Siamo partiti da un progetto organico che si prefiggeva l'obiettivo di rendere più efficiente ed efficace la "macchina" della giustizia, e in questo senso si sono approvate leggi importanti, i cui effetti positivi, considerati i milioni di processi arretrati, si vedranno più compiutamente nei prossimi anni: dalla riforma delle sezioni stralcio in campo civile, al giudice unico di primo grado, dalla competenza penale del giudice di pace, al rafforzamento dei riti alternativi e alla depenalizzazione dei reati minori (che non significa affatto impunità, ma sanzioni amministrative più immediate ed efficaci, anche ai fini di prevenzione).

Così come abbiamo dato un contributo determinante nel proporre e votare riforme tese ad allargare il sistema delle garanzie dei cittadini, con particolare attenzione alle condizioni dei meno abbienti, e dentro un quadro di battaglia anche culturale per affermare il principio di pene diverse dal carcere.

Per quanto riguarda la giustizia civile, vanno sottolineate le riforme delle sezioni stralcio e dell'esecuzione finalizzate, da un lato, a concludere in tempi celeri procedimenti che duravano da oltre 10 anni e, dall'altro, a far si che, dopo una sentenza, questa non rimanesse sulla carta per i tempi lunghi e le difficoltà della sua esecuzione. In campo penale abbiamo dedicato particolare impegno, e certo il nostro apporto è stato determinante, per l'approvazione della legge sulla difesa d'ufficio e di quella per il patrocinio a spese dello stato per i non abbienti.

Ci siamo impegnati all'approvazione di norme specifiche tese a combattere efficacemente lo sfruttamento dei minori, in particolare lo sfruttamento sessuale e la pedofilia, e- più in generale- per la tutela dei minori, contro le violenze in ambito familiare e gli abusi nei luoghi di lavoro, nonché per rendere effettivi la protezione, la tutela e il risarcimento dei danni per le vittime di reati, soprattutto rispetto a chi è stato colpito dalla criminalità mafiosa. Contemporaneamente abbiamo operato affinché, nei processi penali, si riuscisse a coniugare la celerità dei giudizi (i tempi vergognosamente lunghi della nostra giustizia di fatto avvantaggiano i colpevoli e danneggiano gli innocenti) con le garanzie necessarie per evitare, o per limitare il più possibile, il rischio di errori giudiziari (riforma costituzionale del "giusto processo", legge sulle indagini difensive, riforma del giudice unico).

Nello specifico campo della criminalità organizzata vanno ricordate la legge sulle videoconferenze (per limitare il "turismo giudiziario"), quella per gli incentivi ai magistrati destinati alle sedi disagiate, l'approvazione delle norme antiracket e antiusura, la modifica alle norme sui collaboratori di giustizia per rendere trasparente e affidabile la collaborazione, per renderla ancor più inattaccabile in sede processuale e per ridare efficacia a questo strumento essenziale per la lotta alla mafia.

Determinante è stato il nostro contributo per rafforzare e distinguere la protezione e il trattamento dei collaboratori di giustizia da quella dei testimoni e, cioè, di quei cittadini che, estranei alle organizzazioni criminali, hanno il coraggio di testimoniare nei processi di mafia mettendo a rischio la vita.

Ci continueremo a battere, comunque, affinché vengano applicate le leggi esistenti (come quella sull'archivio unico dei conti correnti che risale alla finanziaria del 1991 e quelle sul riciclaggio) o venga ratificato immediatamente il trattato con la Svizzera sulle rogatorie perché crediamo che le varie mafie vadano combattute soprattutto sul terreno della accumulazione illecita.

In molte regioni del nostro Sud, le mafie, con la loro integrazione nel blocco di potere economico, politico, e istituzionale ivi dominante oltre a costituire una delle principali cause del mancato sviluppo di quelle specifiche aree, rappresentano un pericolo per la vita democratica dell'intero Paese.

Ci sarà tutto il nostro impegno per riportare ai primi posti dell'agenda politica la lotta alle varie mafia, nella consapevolezza che queste, passata la grande stagione delle inchieste giudiziarie e dei processi, sono tornate a essere forti e presenti, se non più, almeno quanto prima.

Tuttavia, la legislatura che si aprirà dovrà affrontare nodi irrisolti sia sul terreno della giustizia civile, sia su quello, complesso, del penale. Si dovrà dare razionalità alle riforme approvate, eliminando tutte quelle norme contraddittorie, frutto della schizofrenia che ha caratterizzato le politiche del centro sinistra in piena armonia con la destra, nella seconda parte della legislatura; operare concretamente per un nuovo codice ispirato al principio del "diritto penale minimo" che sostituisca l'attuale codice, che risale al periodo fascista; intervenire, anche con adeguati fondi, per una efficace razionalizzazione e sburocratizzazione della macchina giudiziaria, affinché la giustizia sia realmente al servizio dei cittadini e non il contrario, come troppo spesso accade oggi.

Per quanto concerne la giustizia civile rimane aperto il problema della riforma complessiva del codice di procedura civile, per accelerare il corso dei processi e rendere più facile, e meno oneroso, l'accesso alla giustizia da parte di chi ha subito un danno o si vede negato un diritto. E' necessario, inoltre, contrastare la tendenza marcata alla privatizzazione della giustizia civile ed amministrativa attraverso l'istituto dell'arbitrato. Mentre, da un lato, infatti, riteniamo utile rafforzare strumenti di conciliazione e filtri precontenziosi, quando vi è richiesta dei soggetti interessati, al fine di arrivare a una soluzione stragiudiziale di contenziosi civili in tempi brevi, (soprattutto quelli che riguardano problemi inerenti la vita quotidiana di singoli cittadini), ribadiamo la nostra contrarietà al fatto che questi siano obbligatori e che, di fatto, condizionino la possibilità di iniziare l'azione civile per il riconoscimento di diritti lesi o per il risarcimento di danni subiti (l'obbligatorietà finisce sempre per avvantaggiare la parte economicamente più forte).

Significativo, a tale proposito, quanto sta avvenendo nel processo del lavoro, dove l'obbligo alla conciliazione ha indebolito il lavoratore e non ha per nulla risolto il problema dei tempi lunghi della decisione, danneggiando di fatto proprio la parte socialmente più debole. A questo settore va quindi destinata buona parte dei mille magistrati previsti, accelerando i tempi del concorso, ripristinando allo stesso tempo lo spirito iniziale del processo del lavoro.

In materia di infortuni sul lavoro, insieme alle misure preventive anche in ambientale, è necessario un Testo Unico che riunisca e renda efficaci le norme antinfortunistiche (oggi inserite in numerose leggi e di fatto spesso disapplicate). Proprio ai fini di prevenzione dei sempre più numerosi incidenti sul lavoro — nel solo 2000 vi sono stati oltre 1200 morti e milioni di infortuni anche con conseguenze gravissime (senza considerare i casi ancora più frequenti nel lavoro nero che non vengono neppure denunciati). E' indispensabile prevedere immediate sanzioni amministrative che colpiscano le aziende, oltre a quelle penali già esistenti per i responsabili, affinché le norme penali insieme a quelle interdittive siano più efficaci, proprio per gli interessi economici che andrebbero a colpire.

Nel settore penale va condotta innanzitutto una vera e propria battaglia culturale.

Il centro sinistra ha infatti inseguito le destre anche sul terreno emergenziale: microcriminalità, immigrazione, diritto d'autore, solo per citarne alcune, sono stati i temi di vere e proprie campagne di "legge e ordine". Anziché contrastare culturalmente e politicamente le destre, l'Ulivo le ha seguite nella logica regressiva e repressiva, con effetti conseguenti che si sono visti persino nella gestione delle piazze dell'ultimo anno, in occasione di manifestazioni antifasciste e antiliberiste.

Dentro questo solco regressivo è, tra l'altro, maturato il cosiddetto "pacchetto sicurezza" del governo, un insieme di misure demagogiche in totale contrasto con le riforme approvate nei primi due anni con il nostro contributo. Norme che abbiamo fortemente contrastato e che, non solo sono del tutto inefficaci rispetto al diritto di sicurezza dei cittadini, che riteniamo fondamentale, ma che — se non saranno modificate al più presto — determineranno numerose scarcerazioni di boss mafiosi.

La nostra azione, in totale controtendenza con la logica emergenziale e con la strumentalizzazione della giustizia a fini elettoralistici, oltre ad affrontare alla radice le cause sociali di tanti fenomeni di devianza, si propone di combattere incisivamente la grande criminalità economica, finanziaria e mafiosa.

In questa direzione vanno le proposte di legalizzazione delle droghe leggere e la somministrazione controllata degli stupefacenti per tossicodipendenti gravi, nonché l'eliminazione delle sanzioni amministrative per chi fa uso personale di sostanze stupefacenti.

I dati relativi alla popolazione carceraria dicono infatti che la stessa è composta per il 32% da immigrati e quasi al 50% da persone con problemi di tossicodipendenza, in carcere per reati connessi con il loro stato.

Nei paesi in cui si è cominciato a sperimentare la somministrazione controllata di stupefacenti (in Svizzera innanzitutto) si è registrato un crollo del numero dei morti per overdose, dei malati di Aids o altre patologie, e dei reati collegati alla tossicodipendenza. Per quanto riguarda il carcere, ci siamo battuti per condizioni meno disumane e, soprattutto, per la tutela del diritto alla vita e alla salute (la nostra proposta di legge relativa alla incompatibilità tra carcere e persone gravemente malate, in particolare affette da Aids, e quindi in piena sintonia con i principi costituzionali, è stata approvata malgrado forti resistenze sia all'interno del Polo che dell'Ulivo.

Sul versante immigrazione, ci battiamo per un'accoglienza "vera", per l'aumento del numero degli immigrati "legali", per la regolarizzazione dei rapporti di lavoro, per un piano di infrastrutture da destinare a centinaia di migliaia di lavoratori extracomunitari, ormai indispensabili per interi settori della nostra economia (agricoltura, ristorazione, industria, ecc.), oggi sfruttati, senza alcuna protezione sociale, alloggiati in condizioni disumane, emarginati, senza occasioni di socialità tra di loro e con "noi", e, proprio per questo, spesso costretti a delinquere o vittime della criminalità organizzata.

Questo modo di affrontare i problemi legati alla tossicodipendenza, all'emarginazione e alla immigrazione è quindi l'unica strada alternativa, di sinistra e non demagogica, per tutelare la sicurezza dei cittadini, affermando così una idea di società alternativa a quella delle destre.

Sempre una battaglia culturale dovrà altresì accompagnare proposte che guardano alla concezione della pena e alle condizioni dei detenuti.

Il centro sinistra ha affrontato con una logica di opportunità politica elettorale la questione posta da più parti tesa a ridimensionare il sovraffollamento nelle carceri, e non ha perciò avuto il coraggio di procedere sul terreno di una amnistia condizionata e di un indulto revocabile. Rifondazione comunista ha avanzato, anche in quel caso, proposte tese a rendere più umane le condizioni di vita dei detenuti, e allo stesso tempo prevedere che amnistia ed indulto, per i fatti di minore pericolosità sociale, fossero condizionati e seguiti da un percorso di verifica e di recupero sociale che offrissero garanzie rispetto alle preoccupazioni di sicurezza dei cittadini.

La questione carceraria rimane invece tra i fondamentali nodi irrisolti, sia sul piano del regolamento interno, non rispettato ancora in tante realtà, sia sul piano delle pene alternative. Proprio per questo forte è stata la nostra critica al governo che ha rinunciato ad esercitare una delega, approvata dal Parlamento su nostra proposta, che sarebbe stato il primo fondamentale passo per il diritto penale minimo, tanto invocato a parole ma mai concretamente attuato. La delega avrebbe permesso che, per i reati di minor allarme sociale, anziché il carcere fossero previste pene diverse (lavori socialmente utili, detenzione domiciliare nei week end, sanzioni finalizzate al risarcimento del danno), certamente non solo più efficaci per chi ha sbagliato, ma anche più utili alla collettività e alle vittime dei reati. Una delega, dunque, che, appunto, individuava un percorso di realizzazione di una serie di principi, in parte già contenuti nella filosofia della legge "Gozzini". Legge che, invece, nei provvedimenti emergenziali proposti dal centro sinistra, e approvate da tutte le forze politiche esclusa la nostra, è stata modificata in senso restrittivo, azzerando in molti casi gli effetti positivi di reinserimento sociale.

Le ulteriori proposte di cui ci faremo portatori: riforma del segreto di Stato; concessione dell'indulto per le pene relative ai reati commessi con finalità di terrorismo e eversione; distinzione di funzioni tra magistratura giudicante e inquirente; riforma dei codici penale e civile improntate ai principi del diritto penale minimo ad una maggiore tutela dei soggetti sociali più deboli ed altre ancora stanno perciò in un quadro in cui si rende sempre più evidente il rapporto tra diritto formale e diritto sostanziale, tra garanzie e condizioni sociali. Particolare impegno dovrà essere sviluppato per quanto riguarda le problematiche dei reati commessi da minorenni, sia in relazione alla ricerca di luoghi di espiazione di pene diverse dal carcere (es. comunità), sia affinché nel processo minorile si valutino sempre più, oltre alla gravità del reato, le previsioni sul futuro e sulla personalità del minore.

Una delle priorità, per la prossima legislatura, dovrà essere l'approvazione delle norme di attuazione dell'art. 10 della Costituzione che garantisce il diritto d'asilo allo straniero al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche.

Il nostro obiettivo è quello di arrivare ad una giustizia più celere e più efficiente, offrendo maggiori garanzie per tutti i cittadini e tenendo sempre più conto della tutela delle vittime dei reati.

Anche il capitolo specifico della giustizia, insomma, assume sempre più chiaramente i caratteri del modello di società che proponiamo.

 

3.7.2 Apparati dello Stato e difesa

La semplificazione burocratica.

Lo snellimento del sistema burocratico pubblico era ed è certamente necessario, ma le riforme portate avanti in questi anni a partire dalle Bassanini, seppur improntate ad una riduzione della "macchina" pubblica e quindi ad un magrimento del sistema burocratico, non sono state risolutive ne tanto meno prive di fattori preoccupanti sul piano degli equilibri di potere tecnocratico e per il personale dipendente.

Come è noto sulle amministrazioni pubbliche hanno pesato decenni di malgoverno e stagioni di corruzione e clientelismo, ciò nonostante, il sistema pubblico era ed è indispensabile alle funzioni di servizio e funzionamento dell'intero sistema paese. Gli interventi di riforma hanno snellito e trasferito ulteriori responsabilità in capo ad un personale pubblico demotivato e "criminalizzato" indiscriminatamente, senza una adeguata formazione e con trasformazioni di "direzione" del personale che in alcuni casi sono persino sostitutive delle decisioni assunte in sede politica in merito alle scelte di indirizzo sulle funzioni. A ciò occorre aggiungere che le retribuzioni del personale sono tra le più basse d'Europa e il nuovo contratto non ha certo recuperato in tal senso, anzi su altri aspetti di qualificazione e valorizzazione del personale, sono stati fatti persino passi indietro.

Nel quadro succintamente riassunto, pensare che il riordino imposto con le norme preparate dal Ministro Bassanini sia sufficiente ad imprimere una sburocratizzazione e una maggiore efficienza alla macchina amministrativa è quanto meno azzardato.

In realtà uno snellimento del sistema può essere intrapreso se si ha il coraggio di sancire definitivamente chi ha le competenze amministrative, cancellando sovrapposizioni di enti che al contrario devono avere funzioni precise e non ripetitive.

I passaggi di attuazione delle norme varate dal governo, rischiano però di introdurre deregolamentazioni, che in partenza possono avvantaggiare società o gruppi economici forti. Lo snellimento non può essere intrapreso a solo vantaggio delle imprese, deve al contrario garantire i cittadini verso una migliore fruibilità dei servizi.

 

Dietro l'abolizione della leva una truffa per le nuove generazioni

Entro il 2010 le Forze Armate italiane saranno composte totalmente da militari di professione. Questo secondo il proposito del centrosinistra, che ha finito per sposare acriticamente una posizione che storicamente era della destra estrema di Giorgio Almirante. Così, mentre non si trovano le risorse per assunzioni pubbliche nelle attività di prevenzione degli incendi o delle altre catastrofi provocate dall'uomo, ecco che lo Stato si rivolge ai giovani affinché scelgano la vita militare.

La stragrande maggioranza di questi nuovi posti di lavoro riguardano ruoli di combattimento. Per convincere però tanti giovani alla scelta delle armi (che spontaneamente non si arruolerebbero come dimostra il fatto che i posti già oggi disponibili sono stati coperti solo parzialmente) si è escogitata una pericolosa ed anticostituzionale politica degli incentivi. In particolare, si vuole garantire ai volontari, una volta lasciato il servizio, strade di accesso privilegiato al mondo del lavoro (riserva di posti). Questo avviene attraverso: l'accesso esclusivo ai corpi armati dello Stato (carabinieri, guardie di finanza, polizia di stato), l'accesso esclusivo agli altri corpi dello Stato (vigili del fuoco, vigili urbani, corpo forestale), l'accesso privilegiato al comparto civile della difesa, l'accesso privilegiato alla pubblica amministrazione.

Si fa leva sulla pressione occupazionale, di cui sono vittime principali i giovani provenienti da aree depresse, e a cui verranno appaltati i ruoli combattenti nelle forze armate. Non è un caso che la Brigata Garibaldi, prima unità interamente volontaria, risulta composta da volontari provenienti in prevalenza da Caserta, Salerno e Napoli; così come a grande prevalenza meridionale risulta essere il contingente italiano IFOR che ha operato in Bosnia. Si delinea, quindi, un sistema di reclutamento che passa dalla leva obbligatoria alla leva indotta dal bisogno di un posto di lavoro. Le ripercussioni di questo sistema di riserva dei posti sui corpi di polizia sono estremamente rilevanti ed assai pericolose sotto il profilo democratico. Non solo allontanano la prospettiva della necessaria smilitarizzazione della Guardia di Finanza (entrando in Europa con una polizia tributaria civile), ma finiscono anche per cancellare la riforma della polizia dello Stato (smilitarizzazione) del 1980.

La riserva dei posti porta ad avere personale di polizia abituato ad agire militarmente ed in contesti di guerra, che dovrà essere "rieducato" per i compiti di una polizia destinata ad agire nella società civile.

Ma qual è la vera ragione che ha ispirato la riforma della leva? Spendibilità politica, ecco il motivo. In poche parole, l'esercito di mestiere crea meno problemi politici di uno di leva, sia nel caso di interventi di aggressione, sia nel caso di un utilizzo repressivo interno.

Conseguenza principale di tale politica è un'ampia ed estesa militarizzazione della società, in quanto: 1) lo strumento militare è più facilmente impiegabile perché più slegato dalla società; 2) attraverso l'accesso diretto ed esclusivo dei volontari, magari con esperienze di combattimento in zone di guerra, nelle forze di polizia viene di fatto reintrodotta una militarizzazione strisciante, vanificando gli effetti della riforma che ne ha democratizzato il funzionamento; 3) attraverso l'accesso privilegiato di ex-soldati a posti di lavoro nella pubblica amministrazione si attua una militarizzazione strisciante anche di questi enti; 4) sarà presente nella società un crescente numero di persone che, in quanto ex-soldati di mestiere, sono state addestrate ad una risoluzione violenta di qualsiasi genere di conflitto e ad un approccio gerarchico alle relazioni sociali e interpersonali.

 

Democratizzazione degli apparati della difesa

Il Parlamento Europeo votò, ormai 15 anni fa, una risoluzione che invitava tutti gli Stati membri a varare leggi che riconoscessero ai militari il diritto di costituire associazioni sindacali. Conseguentemente, la Camera dei Deputati votò, nel 1984, un ordine del giorno coerente con le indicazioni del Parlamento Europeo, tenendo anche conto che in quasi tutti i Paesi d'Europa esistono associazioni sindacali di militari. In tutti questi anni, anche a fronte di Disegni di Legge presentati - come ha fatto anche il PRC al Senato nel 1999 — non è stato possibile approvare una Legge, moderna e progressista, per l'ostruzionismo del centro-destra, per le divisioni interne al centro-sinistra e per l'opposizione di una parte delle alte gerarchie militari. Con il passaggio ad un esercito formato esclusivamente da volontari professionisti, la creazione di strutture sindacali vere e proprie che possano autonomamente confrontarsi sulle problematiche proprie dei lavoratori del comparto difesa appare ineludibile. Ripresenteremo le nostre proposte di legge, miranti a consentire l'esercizio, anche fra i militari, del diritto costituzionalmente previsto e garantito di associarsi liberamente in sindacati.

Abolizione della giustizia militare

Siamo fra i pochi Paesi all'interno dell'Unione Europea che conservano una distinzione tra magistratura ordinaria ed magistratura militare. Occorre superare questa anomalia e ricondurre anche la giustizia militare sotto la giurisdizione della magistratura ordinaria (compresi i reati previsti dal Codice Penale Militare), quale passo concreto verso un modello di giustizia di carattere europeo per gli appartenenti alle Forze Armate, superando l'attuale carattere corporativo.

 

Riforma strutturale delle forze di polizia

I cittadini e la magistratura si avvantaggerebbero enormemente da una profonda riforma delle Forze di polizia. L'Italia è l'unico Paese dell'Unione Europea dove esistono ben tre corpi di Polizia a ordinamento civile (Polizia di Stato, dipendente dal Ministero degli Interni, Polizia Penitenziaria, dipendente dal Ministero di Grazia e Giustizia e Corpo Forestale dello Stato, dipendente dal Ministero per le risorse Agroalimentari) e ben due corpi di Polizia ad ordinamento militare (Arma dei Carabinieri, dipendente dal Ministero della Difesa e Corpo della Guardia di Finanza, dipendente dal Ministero delle Finanze), oltre a vari corpi di Polizia Municipale e Provinciali: inoltre sono numerose le società private che organizzano la vigilanza privata a pagamento, per un totale di oltre seicentomila addetti e cioè uno ogni ottanta abitanti, neonati compresi .

Scoordinamento, disfunzioni, sovrapposizioni, conflittualità, sono una parte degli elementi della scarsa efficacia dell'attività di prevenzione e repressione della criminalità che, a causa di questa numerosissima presenza di corpi di polizia, non sono in grado di intervenire con efficienza ed efficacia sulla criminalità organizzata in settori come l'evasione fiscale e contributiva, il contrabbando, le frodi alimentari, il dissesto ambientale e urbanistico, la tratta dei minori, la sicurezza nei luoghi di lavoro.

E' quindi necessario procedere a un forte coordinamento e a un'integrazione delle attuali forze di polizia; alla smilitarizzazione della Guardia di Finanza, pur conservandone e valorizzandone le conoscenze, le professionalità, le specificità acquisite e praticate; alla attribuzione all'Arma dei Carabinieri di soli compiti di Polizia militare.

Queste sono le proposte del PRC, che comporterebbero razionalizzazione, specializzazione, unicità di direzione, riduzione dei costi, aumento dell'efficacia e dell'efficienza per la prevenzione dei reati, configurazione di tipo europeo della Polizia italiana, maggiori garanzie per i cittadini, per gli stessi appartenenti alla Polizia, soprattutto in materia di diritti sindacali.

 

3.8 L'Italia nel mondo di fronte ai processi della globalizzazione

Il nuovo ordine mondiale ci ha consegnato negli ultimi anni un mondo più insicuro. Guerre, repressioni, violazioni dei diritti umani, nuova corsa al riarmo dimostrano che un sistema basato sull'ingiustizia e sul "libero mercato" non può in alcun modo costruire la pace e dare una risposta alle speranze di vita dell'intera umanità. Oggi costruire la pace significa in primo luogo operare per rimuovere le violentissime ingiustizie prodotte dal sistema economico dominante.

Il Nuovo Modello di Difesa varato in questa legislatura dall'Ulivo, e votato anche dai partiti della destra, si muove esattamente nella direzione opposta. Ridando legittimità alla guerra come strumento "normale" della politica si è operato uno strappo con la cultura giuridica che aveva ispirato i Costituenti ("L'Italia ripudia la guerra come strumento per la risoluzione delle controversie internazionali", art. 11 della Costituzione).

La Nato, con il suo nuovo concetto strategico varato mentre erano ancora in corso i bombardamenti sulla Jugoslavia, si va sempre più connotando come gendarme della globalizzazione. Si tratta di un patto militare privato tra i paesi ricchi che esclude buona parte del pianeta, che invade spazi riservati ad altre istituzioni universalistiche, come l'Onu. L'espansione ad est della Nato contribuisce a rendere ancora più instabili i paesi dell'ex-Unione Sovietica e sottopone l'Europa alla tutela militare degli Stati Uniti, che non a caso, in questi anni, hanno notevolmente aumentato il numero di basi militari e di truppe dislocate sul nostro continente.

 

3.8.1 Bandire le armi di distruzione di massa

Il Nuovo Modello di Difesa italiano è emanazione diretta del nuovo concetto strategico della Nato, che prevede l'intervento militare ovunque gli interessi occidentali siano messi in discussione. La Nato pianifica e prevede l'uso dell'arma nucleare e punta ad imporre sul pianeta la propria supremazia atomica attraverso lo scudo stellare. Come è possibile imporre gli altri paesi che non ne fanno parte l'esistenza di un pugno di nazioni privilegiate unite in un vero club atomico? Non è forse questa palese e arrogante ingiustizia che spinge paesi del sud del mondo alla ricerca nucleare o a dotarsi della cosiddetta "atomica dei poveri", ovvero l'arma chimica? E, conseguentemente, non è con il pretesto di fronteggiare questa proliferazione che si giustificano i nuovi modelli di difesa dell'occidente, le forze di intervento rapido, le guerre umanitarie, i raid punitivi?

Allora non sarebbe più logico e sicuramente più giusto per un paese come l'Italia battersi affinché la causa dell'escalation sia interrotta, spendendosi per esempio affinché il nostro continente sia finalmente libero dalle armi di sterminio di massa? Noi pensiamo che questa sia la strada da seguire, senza cedere all'utopia di un mondo normalizzato dall'alto dal pugno atomico e militare della parte ricca del pianeta.

La prima scelta, quella dei nuovi modelli di difesa, pianifica la guerra come fatto inevitabile, conseguenza necessaria per tutelare il fortino della ricchezza e il libero (dai diritti e dall'equità sociale) scorazzare del mercato e delle merci. La nostra opzione, invece, ripudia la guerra e compie atti conseguenti per demolire l'attuale sistema di guerra ed edificare un vero sistema di sicurezza e di pace.

 

3.8.2 Per un'Italia di pace

Il decennio che si è chiuso ha visto il tradimento delle speranze di pace suscitate dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine della guerra fredda. Allo scioglimento del patto di Varsavia si è risposto rilanciando e rafforzando la Nato. Alla richiesta di superare i confini e le barriere tra i popoli si è preferito accentuare i processi di disgregazione alimentando il nazionalismo etnico ed escludente. Invece del disarmo nucleare, sotto la guida degli Stati Uniti, si vuole rilanciare la corsa al riarmo atomico attraverso la militarizzazione degli spazi siderali. Armi radioattive e mutagene sono usate dalle forze armate occidentali nelle guerre umanitarie, così che i territori "liberati" saranno inabitabili ed avvelenati per centinaia di anni. Tutto è piegato alla logica militare. Ai marines è garantita la totale impunità da vergognosi trattati segreti come quelli che hanno sottratto alla giustizia i responsabili della strage del Cermis. I nostri mari sono tutti un brulicare di portaerei e sommergibili nucleari, che approdano nei nostri porti senza alcun piano di sicurezza per la popolazione civile. Gli stessi aerei civili sono costretti a volare in cieli sottoposti a servitù militari, con i caccia Usa che si "addestrano" utilizzando i jet civili come bersagli. Ustica con i suoi 81 morti innocenti non è servita a fermare le acrobazie aeree del potente padrone americano che si comporta in Italia come non si può permettere in casa propria.

Porre il problema dello scioglimento della Nato non è porre un problema ideologico ma farsi carico del diritto alla sicurezza ed alla pace del popolo italiano.

Chiediamo di rinegoziare la concessione agli Stati Uniti delle basi straniere sul nostro territorio. Concesse con accordi segreti, non sono mai passate al vaglio del voto e del controllo parlamentare Chiediamo di bandire dal territorio, dalle acquee e dallo spazio aereo nazionale le armi di sterminio di massa, nucleari, chimiche e batteriologiche.

Ci battiamo per ridurre le spese militari che oggi superano il tetto dei 33mila miliardi l'anno, cominciando a tagliare i programmi per quei sistemi d'arma a "braccio lungo", ovvero destinati a portare fuori dal territorio nazionale la capacità offensiva dell'Italia, come la nuova portaerei, i cacciabombardieri F16 e Tornado, il costosissimo (oltre 200 miliardi ad esemplare) caccia Eurofighter (Efa).

Chiediamo la soppressione di tutti quei contratti di cessione di armi con paesi in guerra a cominciare dalla Turchia che con le armi italiane e Nato massacra il popolo kurdo. Sosteniamo la campagna delle Ong per una moratoria della vendita di armi leggere all'Africa, perché è con questi strumenti di morte che si combattono le guerre e si provocano quegli etnocidi nei riguardi dei quali anche gli assertori dell'interventismo umanitario preferiscono rimanere a guardare.

Siamo per sperimentare forme alternative di difesa, valorizzando il grande patrimonio di decine di migliaia di giovani che hanno scelto l'obiezione di coscienza, attraverso un servizio civile degno di questo nome.

Siamo per una leva della protezione civile con un corpo smilitarizzato, in grado di far fronte ai veri nemici del nostro Paese: gli incendi, il dissesto idrogeologico, la catastrofi naturali o provocate dall'uomo.

Ci battiamo per la riconversione in produzione civile dell'industria bellica ponendo al contempo fine all'emorragia di posti di lavoro nel settore. Anche qui solo la pace rappresenta un buon investimento.

Dal punto di vista europeo, una politica di sicurezza e di difesa comune non può che essere fondata sull'integrazione dei sistemi di difesa dei paesi di ambito OSCE, e cioè dell'Europa dall'Atlantico agli Urali, per la creazione di uno spazio denuclearizzato e tendenzialmente smilitarizzato, con l'esplicita esclusione di ogni intervento al di fuori del proprio continente.

Noi proponiamo dunque una svolta nella politica estera italiana ed europea, necessaria per rompere il processo di costruzione di un assetto unipolare del mondo che è andato avanti negli ultimi anni sia a livello economico-sociale, sia a livello politico militare. La nuova fase di riorganizzazione del capitale che chiamiamo "globalizzazione" ha prodotto e produce un aumento intollerabile delle disuguaglianze a livello planetario. In questo processo di impoverimento generalizzato, però, cresce la concentrazione di potere economico nelle mani delle élites della parte più ricca del pianeta, favorita dalle politiche liberiste promosse da organismi multilaterali come l'Organizzazione Mondiale per il Commercio, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Si tratta di organismi sempre più al di fuori del controllo democratico della comunità internazionale nel suo insieme e sempre più al servizio degli interessi del capitale multinazionale. Ma l'aspetto più preoccupante è che a questo processo di polarizzazione della ricchezza e del potere si accompagna un mutamento della funzione di organizzazioni militari come la Nato, divenuta ormai il gendarme mondiale al servizio degli interessi dei paesi più ricchi, a scapito di tutti gli altri, accompagnata dall'azione di quello che ormai è divenuto il vero organismo di governo mondiale, il G7.

 

3.8.3 L'Italia in Europa

Per rompere questo schema, sia nell'ambito dell'Unione Europea, sia unilateralmente l'Italia può e deve svolgere una funzione di punta. Non c'è nessun futuro per un'Europa democratica nel mondo senza che si produca al tempo stesso una svolta nelle politiche economico-sociali e, conseguentemente, nella politica estera. Lo stesso dicasi per il processo interno di costruzione dell'Unione Europea, che nel Vertice di Nizza del dicembre scorso ha posto solo in secondo piano l'esigenza di un vero processo costituente in grado di democratizzare l'architettura istituzionale dell'Ue, anche in vista dell'allargamento ad Est.

A questo fine, il Prc è convinto della necessità di rompere la continuità delle formule intergovernative che hanno finora monopolizzato l'evoluzione dell'integrazione europea. La stessa vicenda dell'elaborazione della Carta europea dei diritti è stata fortemente limitata, nella sua piena riconoscibilità da parte della società europea, dai limiti imposti dal Consiglio europeo e dall'eurocrazia comunitaria. L'integrazione non può procedere oltre se non si colma il deficit di legittimità che attarda le istituzioni europee, se non si ristabilisce un vero circuito democratico tra società europea, Stati nazionali, e istituzioni comunitarie. Allo stesso modo, occorre contrastare qualsiasi riforma istituzionale che danneggi l'apertura di un limpido processo costituente affidato al ruolo centrale del Parlamento europeo. Per far ciò, va abbandonata ogni ipotesi di cooperazione rafforzata tra un nucleo di paesi forti, a danno di tutti gli altri, per perseguire, invece, un processo di integrazione che possa colmare i divari di sviluppo interni all'Ue.

 

3.8.4 Un nuovo paradigma di politica macroeconomica a livello europeo

Vi è dunque la necessità di riformare radicalmente l'attuale palinsesto dell'Unione monetaria europea. Obiettivo della riforma è di chiudere con le ossessioni antinflazioniste, con la politica degli alti tassi d'interesse, con il trattamento assolutamente residuale del livello di occupazione; di chiudere insomma con il paradigma neoliberista e con gli interessi che lo sostengono, per aprire un nuovo capitolo della politica dell'Unione, con l'obiettivo prioritario della piena occupazione, liberando altresì nuove risorse pubbliche da destinare allo sviluppo, allo stato sociale ed alla salvaguardia dell'ambiente.

In precedenza abbiamo sostenuto che, data l'assenza di sanzioni formali in difesa dell'obiettivo del pareggio di bilancio fissato dal Patto di Stabilità, l'Italia dovrebbe perseguire una politica di gestione del deficit flessibile, limitata esclusivamente dal vecchio vincolo del 3% in rapporto al Pil (per il quale le procedure sanzionatorie invece esistono). Inoltre, al fine di allentare anche il vincolo del 3% e di intraprendere un primo passo verso la trasformazione del quadro istituzionale europeo, occorrerà sollecitare la Commissione ad ammettere una interpretazione estensiva dell'articolo 104c del Trattato di Amsterdam. Ciò consentirebbe ai paesi afflitti da tassi di disoccupazione elevati e/o crescenti di aumentare il deficit pubblico oltre il 3% del Pil senza correre il rischio di esser sottoposti alle procedure di infrazione vigenti. Questa interpretazione estensiva dell'articolo 104 andrà in un secondo momento formalizzata, attraverso l'inclusione del tasso di disoccupazione tra i parametri di politica fiscale dei singoli paesi e la sostituzione del parametro del 3% con un semplice vincolo a tenere decrescente il rapporto debito/Pil per quei paesi che si trovino al di sopra di un dato valore soglia, che non dovrà necessariamente esser fissato sull'attuale 60%.

Naturalmente, la spinta per il cambiamento istituzionale dovrà poi andare oltre, attraverso una piena riforma delle norme inerenti alla politica fiscale e monetaria europea. Si tratterebbe, dal lato delle entrate, di ampliare il budget federale dall'attuale 1,2% al 5% del Pil europeo, tramite maggiore gettito da destinarsi direttamente alla Commissione Ue e la possibilità per la Commissione di incorrere in deficit di bilancio, il tutto su mandato del Parlamento. Una quota di gettito fiscale dovrebbe poi esser destinata alla Banca Europea degli Investimenti, per consentirle di praticare prestiti agevolati per progetti d'interesse collettivo. Dal lato delle uscite, occorrerà affidare alla Commissione, sotto il controllo del Parlamento, il compito di praticare politiche di stabilizzazione e soprattutto di incrementare le spese per lo sviluppo delle aree depresse d'Europa. E' fondamentale sottolineare, a tal proposito, che negli ultimi anni è chiaramente emersa una tendenza alla divaricazione tra zone sviluppate e zone arretrate all'interno dei paesi europei. Questa tendenza rende evidente l'assoluta necessità di rilanciare un progetto di sviluppo per i vari Mezzogiorni d'Europa, e di contrastare tutti i tentativi di risolvere il problema dell'allargamento ad Est con un trasferimento a costo zero dei fondi strutturali dalle attuali alle future zone obiettivo 1 dell'Unione.

Sul versante della politica monetaria, per garantire il necessario coordinamento macroeconomico con la politica fiscale, occorrerà modificare lo statuto della Banca centrale europea in modo da rendere l'obiettivo dell'occupazione almeno paritario rispetto a quello della stabilità dei prezzi e del cambio; inoltre, si dovrà introdurre un canale istituzionale di collegamento tra i membri del direttorio della Banca e il Parlamento europeo. Al di là delle esigenze di coordinamento macroeconomico, tale riforma in senso democratico della struttura della Banca centrale europea è resa pienamente legittima dal fatto che le decisioni della stessa sui tassi d'interesse incidono non solo sui prezzi e sul Pil, ma anche in misura rilevantissima sulla distribuzione del reddito.

Occorre poi rafforzare gli ambiti di autonomia già riconosciuti alle Banche Centrali Nazionali all'interno del sistema della BCE (attraverso normative nazionali e proposte a livello comunitario) quale elemento atto a garantire un più equo e democratico sviluppo del settore finanziario ed a correggere le distorsioni presenti nei processi di selezione e destinazione del credito. Fondamentale, a tal fine, risulta il mantenimento, il potenziamento ed il riorientamento nel senso delineato delle attività istituzionali tradizionali.

L'intera riforma mira a porre al centro della strategia di politica economica europea l'obiettivo della piena occupazione. Le modalità di conseguimento della stessa risulteranno in piena sintonia con gli equilibri ambientali se la spesa pubblica verrà indirizzata allo sviluppo delle tecnologie pulite, alla promozione di attività estranee alla logica dell'accumulazione, al rilancio delle politiche di riduzione dell'orario. Sul piano della sostenibilità macroeconomica, l'obiettivo del pieno impiego si rivelerà pienamente alla portata dell'Unione, considerata soprattutto la grande autonomia commerciale e finanziaria dell'Europa rispetto al resto del mondo. Un'autonomia che potrà essere ulteriormente rafforzata dall'adozione della Tobin tax, di accordi internazionali sui tassi di cambio e/o di misure di controllo dei movimenti di capitale.

Per quanto attiene alle relazioni esterne dell'Ue nel suo complesso, riteniamo che sia opportuno abbandonare la strada fallimentare del libero scambio, ripristinando accordi preferenziali con le aree più povere del pianeta, a partire dai paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Precondizione per l'avvio di una nuova fase nei rapporti dell'Ue con i paesi meno avanzati è la cancellazione totale e incondizionata del debito estero, accompagnata da una revisione dei meccanismi di concessione dei crediti e da un aumento consistente dei fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo. Aumento che potrebbe essere efficacemente finanziato, ancora una volta, dall'introduzione di una tassa sui flussi speculativi di capitale (Tobin tax) e dal ritiro dei finanziamenti europei a Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale, a partire da quelli destinati all'iniziativa Hipc per i paesi poveri maggiormente indebitati e all'applicazione dei piani di aggiustamento strutturale (chiamati oggi "piani di riduzione della povertà").

In questo nuovo quadro, bisognerà privilegiare gli interventi volti a rafforzare la cooperazione regionale e bilaterale tra i paesi meno avanzati, favorendo interventi di cooperazione orizzontale, in particolare nei settori dell'agricoltura, dell'artigianato e dei servizi, finalizzati al rafforzamento dei sistemi di produzione e dei mercati locali in una prospettiva di sviluppo ambientale e sociale.

In generale, l'intervento dell'Ue deve essere incentrato sul potenziamento dei movimenti sociali locali, per migliorare la loro capacità di orientare le scelte di politica economica e di sviluppo verso il soddisfacimento dei bisogni sociali, lo sviluppo sostenibile e la garanzia dei diritti fondamentali, come il lavoro. A tal fine, tutti i fondi stanziati dall'Unione Europea dovrebbero prevedere, quale parametro per il finanziamento dei progetti o l'aggiudicazione degli appalti, la capacità di creare occupazione ed il rispetto dei diritti del lavoro e sindacali e delle norme relative alla tutela ambientale, sia a livello locale che nel paese di origine dell'impresa che esegue il progetto.

Intendiamo costruire un'Europa solidale, fondata sulla garanzia dei diritti economici, sociali e politici fondamentali, sia al suo interno che nei rapporti con paesi terzi, in un quadro di autonomia rispetto ai modelli di cooperazione di stampo neocoloniale.

Siamo convinti, infatti, che solo un'Europa dotata di un proprio modello sociale autonomo può inaugurare rapporti diversi da quelli vigenti con le altre aree integrate e con singoli paesi terzi, a partire dalla politica commerciale. Crediamo che l'Italia debba avere un ruolo deciso nel dare un corso profondamente diverso al ruolo dell'Unione Europea, sia per quanto attiene ai negoziati multilaterali nell'ambito dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, sia rispetto a quelli bilaterali.

Ci opponiamo a qualunque rilancio dei negoziati volti ad accelerare ulteriormente la liberalizzazione degli scambi nell'ambito dell'Omc. Siamo infatti contrari ad un ulteriore liberalizzazione del commercio internazionale ed occorre innanzitutto procedere ad una radicale riforma istituzionale dell'Omc. Ciò vale soprattutto per i settori dell'agricoltura e dei servizi, la cui apertura nella direzione richiesta dalle multinazionali non potrà che aggravare i divari di sviluppo non solo tra centri e periferie economiche del mondo, ma anche all'interno della stessa Unione Europea. Il riassetto istituzionale dell'Omc deve mirare a ricondurla all'interno del sistema delle Nazioni Unite, subordinando gli accordi conclusi al rispetto dell'intero corpo normativo delle Nazioni Unite, a partire dalle Convenzioni sull'ambiente e sul lavoro. Intendiamo, in ogni caso, operare affinché si proceda alla valutazione dell'impatto degli accordi sin qui conclusi sui paesi delle periferie dell'economia globale, al fine di orientare i nuovi accordi alla soluzione dei divari in termini di accesso ai mercati e di benefici del commercio internazionale. Riteniamo, inoltre, che la regolamentazione del commercio internazionale andrebbe riaffidata all'agenzia specializzata delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo (Unctad), il cui ruolo è stato determinante nell'introdurre misure di perequazione nei rapporti economici internazionali.

Spostando l'attenzione dalla scala europea a quella globale, e soprattutto ai rapporti tra centri e periferie dell'economia mondiale, si evincono immediatamente le responsabilità dei paesi più progrediti nei confronti dello sviluppo rallentato e squilibrato che ha contraddistinto le nazioni meno sviluppate nel corso degli ultimi anni. Tra le maggiori responsabilità dei governi dei paesi economicamente avanzati, spicca la disastrosa politica monetaria e finanziaria condotta dalle istituzioni monetarie internazionali nel finanziamento dei paesi poveri (il cosiddetto "aggiustamento strutturale"). Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale hanno infatti operato in modo da aggravare anziché alleviare il disagio dei paesi che, da oltre un ventennio, soffrono dell'onere derivante dall'elevato livello dei tassi d'interesse mondiali, un livello tuttora determinato in gran parte dalle scelte di politica monetaria degli Stati Uniti.

Ad oggi, queste politiche hanno provocato due effetti: da un lato, una divaricazione improvvisa e violenta della forbice distributiva; dall'altro, una discesa spesso incontrollata dell'inflazione che, accrescendo i tassi d'interesse reali, ha finito per accrescere ulteriormente il debito estero dei paesi sottoposti alla presunta "cura" del risanamento. A conti fatti, dunque, le politiche del Fondo Monetario e della Banca Mondiale hanno alimentato il circolo vizioso del debito dei paesi meno sviluppati, riducendone progressivamente l'autonomia politica. Attraverso l'imposizione dei piani di aggiustamento strutturale, le Istituzioni Finanziarie Internazionali (IFI) hanno ottenuto l'apertura forzata delle economie dei paesi indebitati, favorendo gli interessi delle multinazionali e degli investitori dei paesi ricchi, che hanno tratto enormi profitti dalle privatizzazioni a basso costo dei settori pubblici e dalle esportazioni in mercati non in grado di reggere la concorrenza internazionale.

Siamo fortemente critici dell'operato delle istituzioni finanziarie internazionali, sia per le loro scelte politiche, che per l'assoluta antidemocraticità del processo decisionale interno. L'Italia può e deve giocare un ruolo deciso nella progressiva chiusura di tali istituzioni, verso una radicale riforma dell'ordinamento monetario internazionale, con l'intento prioritario di abbattere i tassi d'interesse sui prestiti, e di accrescere il controllo democratico sulle decisioni relative ai rapporti di economici internazionali. Punto di partenza ineludibile è la totale e incondizionata cancellazione del debito esistente, condizione per ristabilire un grado minimo di equità nei rapporti economici internazionali. La cancellazione andrà gestita in un quadro profondamente diverso, ponendo fine all'attuale sistema di negoziati, che vede il Club di Parigi condurre trattative segrete tra tutti i creditori nei confronti dei singoli debitori. Al contrario, riteniamo che vada costituita una sede di negoziato con la partecipazione paritaria di debitori e creditori in un processo decisionale democratico e trasparente, in costante collegamento con i Parlamenti dei paesi interessati e con le campagne popolari che promuovono la cancellazione del debito.

I paesi poveri dovranno essere appoggiati nel loro sforzo per ottenere un maggiore controllo politico delle variabili macroeconomiche (e in particolare di quelle ad elevato impatto distributivo), quali l'inflazione e il tasso di cambio. A tale scopo, andranno ancora una volta promossi esperimenti di controllo dei movimenti di capitale a breve, per ridurre la minaccia della crisi finanziaria sulle scelte politiche nazionali. La Tobin tax potrà costituire uno dei possibili freni alle fughe di capitale, e potrebbe inoltre assicurare un prelievo internazionale non inferiore ai 1.500 miliardi di dollari all'anno da destinare allo sviluppo delle aree depresse del mondo. La remissione del debito dei paesi più poveri, insomma, non basta. Un progetto generale di riforma monetaria dovrà consistere nell'allargamento dei margini di manovra politica sulle scelte macroeconomiche e finanziarie dei paesi poveri, dopo un ventennio caratterizzato dal drammatico declino delle sovranità politiche nazionali.

Tutto questo non può avvenire se non nel quadro di un percorso di rilancio, riforma e democratizzazione dell'Onu, che comprenda l'abolizione del diritto di veto nell'ambito del Consiglio di Sicurezza e l'eliminazione totale degli embarghi e dei blocchi economici.

All'Onu andrebbe poi trasferita ogni responsabilità di polizia internazionale anche dotandola di un proprio strumento militare permanente costruito ed organizzato al solo scopo di intervenire con finalità di deterrenza ed interposizione per favorire iniziative politico-diplomatiche. Ne consegue, come abbiamo già affermato, la necessità di scioglimento della Nato anche attraverso atti unilaterali di fuoriuscita dell'Italia dall'Alleanza atlantica.

 

3.8.5 Per un'Italia solidale

L'Italia è il sesto paese più ricco del mondo, con un Pil che nel 2000 è stato di oltre due milioni di miliardi di lire. Cionostante, l'aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) continua a scendere, allontanandosi sempre più dall'obiettivo generale dello 0,7% del Pil. Nel 1999, l'Italia ha attribuito alla cooperazione internazionale poco meno di due miliardi di dollari, pari a circa 4mila miliardi di lire, pari allo 0,15% del Pil. Ma, se si analizza l'utilizzo di questi fondi, si evince che quasi il 78% del totale è stato assorbito da contributi (volontari e obbligatori) alle istituzioni multilaterali, tra cui spiccano Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale. Per la cooperazione bilaterale resta ben poco, come è evidente. Negli ultimi anni, inoltre, si sono succeduti provvedimenti governativi che hanno distolto ulteriori fondi alla cooperazione, per destinarli alla Difesa e agli incentivi per l'internazionalizzazione delle imprese (attraverso la Simest spa). Tutto questo in un quadro di generale crisi della cooperazione, la cui riforma, dopo sei anni di discussione in Parlamento, non è stata varata neanche in questa legislatura per responsabilità del governo di centro-sinistra.

Riteniamo doveroso promuovere il rilancio di un'autonoma cooperazione bilaterale dell'Italia, a partire da un aumento cospicuo delle risorse, almeno fino al raggiungimento dell'obiettivo dello 0,7% del Pil. Proponiamo che i fondi finora destinati alle istituzioni finanziarie internazionali siano invece destinati alla cooperazione decentrata su base territoriale ed agenzie delle Nazioni Unite che si occupano di sviluppo. Inoltre, la riorganizzazione delle attività di cooperazione internazionale non si può più rimandare: bisogna porre fine ad ogni commistione con interessi commerciali e attività militari eliminando definitivamente lo scandalo del finanziamento delle missioni militari all'estero con i fondi della cooperazione.

Riteniamo prioritaria, a questo fine, la costituzione di un'Agenzia per la cooperazione dotata di effettiva autonomia operativa e finanziaria, in grado di rilanciare efficacemente interventi coordinati a livello nazionale e regionale, con il coinvolgimento delle popolazioni destinatarie degli aiuti. Siamo convinti che il rilancio di una cooperazione allo sviluppo paritaria e con ampio respiro programmatico costituisca un elemento fondante per un'Italia solidale. L'Italia, infatti, può qualificare il proprio autonomo ruolo e conquistare un maggior prestigio e peso nella medesima Unione Europea, riconquistando una propria capacità di iniziativa internazionale soprattutto nell'ambito del Mediterraneo, sia lavorando al superamento della tendenziale contrapposizione liberista tra le due sponde, sia promuovendo un modello di sviluppo capace di valorizzare le produzioni peculiari dell'area.

Il punto di partenza resta la totale e incondizionata cancellazione dei crediti vantati dall'Italia nei confronti dei paesi meno avanzati. La cancellazione deve anche rappresentare l'occasione per introdurre maggiore trasparenza nella gestione dei crediti, finora affidata esclusivamente al Tesoro, senza alcuna possibilità di accedere ai dati reali. Per garantire maggiore efficacia ai futuri crediti concessi dal nostro paese, inoltre, bisogna introdurre meccanismi di valutazione dell'efficacia degli interventi, al fine di evitare che errori di programmazione si traducano in un fardello per i paesi destinatari. Ciò vale soprattutto per le attività della Sace, ente pubblico destinato alla concessione di crediti all'esportazione. Attività sulla cui natura il Parlamento è incredibilmente tenuto all'oscuro. E' necessaria una profonda riforma della Sace, con l'introduzione di elevati standard di tutela sociale ed ambientale e di rispetto dei diritti fondamentali per la concessione delle garanzie, per evitare il finanziamento pubblico di progetti dannosi. Allo stesso modo, deve essere elaborata una lista di prodotti la cui copertura assicurativa pubblica è da escludere, a partire dalle armi e dai prodotti dual use. Per questo, è necessario il coordinamento delle attività della Sace con quelle di cooperazione allo sviluppo, come richiesto, del resto, dallo stesso Trattato di Maastricht. In generale, è necessario introdurre maggiore trasparenza nella gestione dei fondi pubblici in dotazione alla Sace, ponendo fine alla scandalosa condotta della dirigenza dell'ente, che nega impunemente informazioni persino al Parlamento.

 

 


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