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Da "Umanità Nova"
n. 1 del 12 gennaio 2003
XXIV Congresso della FAI: le
mozioni/1
Analisi della situazione socio-politica dal locale al globale
Oggi la logica del dominio e del profitto vede lo scontro di tutti i
poteri tra di loro, unificati solo dalla volontà di affamare, umiliare
e massacrare le classi subalterne. Per il resto, i meccanismi ideologici
di un tempo - lo stesso "neo"liberismo imperante per ogni dove - sono
relativamente secondari di fronte allo scenario di uno scontro feroce
per il predominio, dove gli obiettivi sono la sopravvivenza immediata
e la distruzione del nemico a qualunque costo, fosse pure la distruzione,
di lì a non molto, delle stesse possibilità di vita sul
pianeta.
In questi ultimi anni abbiamo assistito all'affermarsi del paradigma
della "Guerra Permanente". Enunciato dopo gli spettacolari attacchi contro
il Pentagono e le Torri gemelle, si è perfezionato nel periodo
successivo definendo uno schema che pone la guerra come elemento costante
del panorama politico. Il pretesto della "guerra al terrorismo" è
divenuto la chiave di volta di una politica guerrafondaia diretta ad affermare
le ragioni del più forte in spregio persino delle flebili "regole"
del diritto internazionale, portando a probabilmente definitivo compimento
l'esautorazione di ogni residua funzione mediatrice dell'ONU. Gli stessi
tentativi di alcune borghesie nazionali di garantirsi o costruirsi margini
di autonomia, se segnala tensioni interne al blocco dominante, non può
che rallentare, nella migliore delle ipotesi, la deriva che caratterizza
questa fase.
La guerra permanente, preventiva, globale non è che l'ultima
forma con la quale assicurare il dominio del più forte, affermando
le "ragioni" di chi sfrutta, asserve, opprime la maggior parte della popolazione
del pianeta. Queste "ragioni" si definiscono in base a poste in gioco
ben evidenti per quanto misconosciute sul piano propagandistico. La principale
è il controllo delle fonti energetiche (non solo petrolio, ma altresì
acqua ed i minerali necessari per le tecnologie di controllo satellitare
ad uso militare e civile) e delle vie di comunicazione attraverso le quali
ne è garantito l'approvvigionamento. Lo strumento bellico impiegato
nelle aree cruciali per gli interessi statunitensi garantisce agli USA
il mantenimento di un primato che, sul piano strettamente economico è
loro conteso dall'Europa, dal Giappone (ed area del Pacifico in genere),
e dal tentativo di "Blocco" Russia, Cina, India, che, invece, non dispongono
né dei dispositivi bellici né dell'autonomia necessari a
contrastare le pretese egemoniche di Washington. In effetti una possibile
chiave di lettura dell'escalation bellica degli ultimi dieci anni vede
il ridimensionamento delle ambizioni degli storici "alleati" degli USA
tra i non secondari scopi della smania bellicista dell'amministrazione
americana.
I paesi europei, hanno negli ultimi anni assunto il ruolo sempre più
ambiguo e difficile di "alleati/competitori" degli Stati Uniti e delle
loro politiche guerrafondaie. Privi di una forza d'urto bellica e di una
capacità di coordinamento politico efficace i paesi dell'Unione
Europea si barcamenano tra il tentativo di creare un polo militare e l'affiancamento
in chiave competitiva delle politiche guerrafondaie degli USA. Appare
perciò risibile la pretesa propagandistica dell'europeismo democratico
di costruire un polo alternativo all'imperialismo USA.
L'Italia, abbandonato il non-interventismo tipico dell'era democristiana
ed il ruolo di supporto dell'imperialismo anglo-americano integrato da
quello di mediazione verso il mondo arabo, ha oggi un proprio ruolo imperiale
attivo nello scacchiere Europeo e mondiale, con interessi e specificità
da difendere che la localizzazione mediterranea le permettono: dal nuovo
protettorato in Albania agli interventi di ricostruzione nelle zone disastrate
dalle guerre (Bosnia, Kossovo, Afghanistan...) alle lucrose commesse nella
produzione e nello smercio di armi. Il recente riallineamento in chiave
atlantica del governo di centro-destra è di fatto complementare
al ruolo regionalmente imperialista dello Stato italiano, che può
così tentare di contrattare la "mano libera" nei suoi protettorati
in cambio del sostegno attivo alle politiche guerrafondaie degli Stati
Uniti (ad esempio con l'impegno diretto assunto nella perdurante guerra
in Afghanistan).
La spesa militare è perciò cresciuta su scala continentale:
questo dato, in concomitanza con altri fattori insiti nell'attuale modello
capitalistico di produzione, ha concorso all'erosione della spesa sociale.
Di ciò fanno le spese i lavoratori, i malati, gli studenti che
non possono accedere a servizi ampiamente privatizzati mentre il welfare
lascia sempre più il posto al warfare.
Quella che oggi viene definita - con termine in verità generico
- "globalizzazione" è in realtà una generalizzazione della
miseria della classi subalterne, sia a livello planetario sia a livello
regionale. La maggioranza della popolazione mondiale è nella miseria
o in procinto di cadervi, persino nel cuore della metropoli capitalistica
- gli U.S.A. Il caso argentino, poi, è il risultato maggiormente
paradigmatico dell'applicazione della ricetta "neo"liberistica e, allo
stesso tempo, la rappresentazione della visione del futuro che ci vorrebbe
riservare, di là dalle sue contraddizioni interne, la classe dominante
del pianeta.
In un mondo sempre più diviso tra chi ha e chi non ha, sia a
livello globale, sia a livello locale, quello dell'immigrazione è
divenuto uno dei tanti fronti sui quali si combatte la guerra non dichiarata
dei ricchi contro i poveri.
L'Europa, con i trattati di Maastricht e di Schengen, ha stabilito il
principio che la libera circolazione vale per le merci ma non per quella
particolare merce che sono i lavoratori immigrati. Nei loro confronti
in questi ultimi anni si sono moltiplicate le barriere sia fisiche che
legislative. Il clima di intolleranza alimentato dalle destre xenofobe
e razziste ha contribuito a spianare la strada a leggi che contrastano
in modo netto con le pretese dell'universalismo liberale.
Nel nostro paese la legge 795/2002, la cosiddetta Bossi-Fini, che perfeziona
l'impianto della precedente legge 40/2000, la Turco-Napolitano promossa
dal centro-sinistra, inaugura di fatto una concezione asimmetrica del
diritto, configurandosi come una vera e propria legge razzista.
Un po' ovunque sono sorti campi di detenzione per stranieri illegali.
In Italia alcuni di questi centri, circondati dal filo spinato, con torrette
di guardia e uomini armati a presidiarle, somigliano a dei veri lager.
Lager di Stato.
Uno Stato la cui politica nei confronti dell'immigrazione si può
riassumere con una semplice e micidiale formula: selezione, sfruttamento,
lager, espulsione. La selezione è affidata agli scafisti: i più
giovani, i più sani superano le difficoltà del viaggio,
gli altri, i più deboli, i malati, gli anziani, i bambini spesso
non ce la fanno e muoiono durante il viaggio. Sono le vittime anonime
di una lunga strage. Una strage di Stato. Lo sfruttamento è compito
dei nostri bravi imprenditori i cui profitti si accrescono grazie ad una
manodopera infinitamente flessibile, poco costosa, per nulla esigente.
Sempre sotto il ricatto del licenziamento i lavoratori migranti sono di
fatto schiavi legalizzati. Poi arrivano i poliziotti ed i carabinieri
a far piazza pulita: prima il centro di detenzione, poi l'espulsione forzata.
La piena internità dell'immigrazione alla questione sociale è
resa evidente dalla dispiegata contraddizione fra bisogno da parte delle
imprese di forza lavoro senza o con ridotte garanzie e diritti e le politiche
xenofobe più estreme. D'altro canto l'immigrazione supplisce, nel
settore dei servizi alla persona al taglio delle garanzie sociali e concorre
a determinare una vera e propria ristratificazione sociale delle classi
subalterne. Questa contraddizione inizia a essere consapevolezza collettiva
grazie alle prime mobilitazioni dei lavoratori migranti.
A livello più complessivo, anche come reazione a decenni di politiche
"neo"liberistiche, sono sorti negli ultimi anni numerosi movimenti di
opposizione allo stato presente delle cose. Il movimento dei lavoratori,
dopo troppi anni di acquiescenza al modello dominante, ha dato chiari
segnali di un nuovo protagonismo, capace di porre un argine, almeno fino
ad ora, all'applicazione delle ipotesi di riforma strutturale dei rapporti
di lavoro ed all'ulteriore riforma delle pensioni, tutte cose che Confindustria
aveva chiesto all'attuale Governo,
Questo rinnovato protagonismo ha dimostrato, da un lato, che solo la
lotta paga, dall'altro, che questa produce anche nuovi effetti di consapevolezza,
che hanno dato fiato e gambe, dopo molti anni, a richieste di discreti
aumenti salariali tendenzialmente egualitari, con un'esplicita critica
alle dinamiche contrattuali passate.
Da Seattle in poi, il mondo ha assistito all'emergere sulla scena politica
e sociale di vasti movimenti di contro globalizzazione che, da Seattle
in poi, sono balzati con prepotenza sulla scena politica e sociale. La
rivolta contro la logica annichilente della merce, la rabbia per la distruzione
ambientale, il crescente divario tra chi ha troppo e chi nulla sono alla
radice di questi movimenti. Le tante anime dei movimenti di contro globalizzazione
sono riuscite a convivere nella loro fase aurorale ma, da Genova in poi,
lo scontro tra aree riformiste, fautrici di una "moralizzazione" dei processi
di globalizzazione ed aree radicali, convinte dell'urgenza di una politica
anticapitalista ed antistatale si è fatto sempre più aspro.
I movimenti no-global hanno fatto riemergere il protagonismo di piazza.
Una piazza che ri-diviene luogo pubblico, spazio della critica e della
rivolta, luogo di una presenza diretta non delegata di persone che prendono
in mano la facoltà politica, fuori e contro i tragicomici teatrini
della democrazia parlamentare.
È la piazza fisica nella quale si esprime la ribellione e lo
scontro contro i poteri costituiti ed è la piazza virtuale nella
quale si colloquia con il mondo intero. È una piazza nella quale
agiscono attori diversi: da chi esprime una rivolta radicale ma nichilista
come il Black Bloc, a chi insegue forsennatamente la visibilità
mediatica, e, perché no, una poltrona (oggi in qualche consiglio
comunale e tra qualche tempo, chissà, in parlamento). Questi movimenti
esprimono oggi un disagio difficilmente riassorbibile da ambiti istituzionali,
anche perché vi è l'emergere del protagonismo di giovani,
precari e disoccupati.
La scelta che ha caratterizzato in questo movimento l'anarchismo comunista,
sociale e federato, è sintetizzabile nello slogan "Radicali e radicati":
rifuggire la spettacolarizzazione della protesta, voluta da vasti settori
della piazza - bianco o nero vestiti - privilegiando, invece, il coinvolgimento
nella lotta contro la globalizzazione capitalistica dei più vasti
settori delle classi subalterne. Lottare, insomma, per la globalizzazione
della libertà e dell'uguaglianza, non per la mera estensione di
diritti formali e/o per una "moralizzazione" del sistema presente delle
cose, ma senza perdere il contatto con la realtà sociale. Non a
caso a Genova 2001 fummo noi a lanciare per primi la parola d'ordine dello
sciopero generale contro il G8 - come strumento di critica materiale e
di coinvolgimento popolare contro i potenti della terra - e fummo poi
presenti al corteo operaio che si svolse il 20 luglio a Sampierdarena.
L'invito ad una lotta globale non ha solo un significato spaziale ma
anche e soprattutto il senso di un movimento capace di investire con la
propria capacità critica e di intervento tutti gli aspetti della
vita e, soprattutto, quell'agire politico e sociale che in troppi vorrebbero
ridotto a mero gioco istituzionale.
Oggi il capitalismo è divenuto a tal punto pervasivo da divenire
una sorta di seconda natura per cui cade nell'oblio il suo carattere di
costruzione sociale storicamente data e questo diviene non il migliore,
non il peggiore, ma l'unico dei mondi possibili.
Vi sono, però, altri mondi, vi sono altre possibilità:
uno spazio di libertà e di eguaglianza per ogni uomo ed ogni donna,
per esempio...
[Seconda
parte della mozione]
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