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Da "Umanità Nova" n. 2 del 19 gennaio 2003

Operazione Babilonia/2
Il petrolio come arma politica

Pubblichiamo la seconda parte del lungo saggio di Giacomo Catrame dedicato al contesto geopolitico in cui si inserisce la guerra che gli Stati Uniti si accingono a scatenare contro l'Iraq. La prima parte "Operazione Babilonia/1. Guerra all'Iraq o all'Arabia Saudita?" è uscita sul numero 43 del 2002. La terza, ed ultima, parte, verrà proposta sul prossimo numero di UN.

IL PETROLIO COME ARMA POLITICA

Il petrolio iracheno, quindi, assume agli occhi di Washington (e di Londra) la funzione di strumento di disarticolazione del cartello dei maggiori paesi produttori di petrolio, nonché di mezzo di pressione nei confronti degli altri tre membri del Consiglio di Sicurezza dell'ONU dotati del potere di veto (Francia, Cina e Russia), le cui riserve sono state bypassate (pur permettendo loro di salvare la faccia) minacciandone l'esclusione dal mercato del greggio mesopotamico. È già stata data comunicazione ufficiale della formazione di un consorzio petrolifero guidato dall'Exxon-Mobil e dalla Chevron-Texaco (e con la sicura partecipazione dell'anglo-olandese Shell) che nel dopo Saddam gestirà le quote di produzione e le postazioni più interessanti del paese. Queste postazioni sono le stesse il cui sfruttamento russi, francesi e cinesi (oltre che italiani, vietnamiti, algerini e indiani) hanno trattato con Saddam in questi anni in vista della fine delle sanzioni. In particolare i russi hanno centrato la loro attenzione su tre giacimenti particolarmente promettenti situati nell'Iraq meridionale e garantiti da un maxiaccordo per 40 miliardi di dollari, mentre i francesi di TotalFinaElf avevano raggiunto un accordo per lo sfruttamento del giacimento di Magnun situato al confine con l'Iran e accreditato di una potenzialità di 30 miliardi di barili. I cinesi, infine hanno avviato ricerche e accordi per lo sfruttamento dei giacimenti ancora poco sfruttati del deserto occidentale. Gli italiani, gli indiani, gli algerini e i vietnamiti (e dietro a loro sembra anche i tedeschi) si sono per ora limitati ad accordarsi per future ricerche nella stessa area dove avrebbero dovuto operare i cinesi. Lo stesso programma Oil for Food è entrato clamorosamente nel gioco ad impadronirsi del petrolio iracheno. Questo non solo a proposito del percorso dell'oleodotto prescelto per il trasporto del greggio, decisione che come abbiamo visto ha favorito la Turchia e il suo ruolo nell'area. Questo ruolo e i finanziamenti ricevuti dall'ONU per svolgerlo ha permesso ad Ankara di iniziare prospezioni petrolifere nel nord dell'Iraq (che occupa militarmente) d'intesa con il Partito Democratico del Kurdistan di Barzani che amministra l'area al confine con il paese di Ataturk; altre prospezioni, sempre con gli stessi fondi, sono state avviate d'intesa con lo stesso Saddam nel sud Iraq a maggioranza sciita. Tutti questi movimenti spiegano bene la riluttanza dei turchi a prendere parte alla guerra che si avvicina senza avere avuto rassicurazioni certe sul futuro dei propri investimenti petroliferi, anche se occorre sottolineare come essi siano avvenuti non in contrapposizione con gli interessi delle compagnie petrolifere USA ma in piena concordia con loro che in questo modo si sono assicurate una riserva di un milione di barili al giorno utile a calmierare il prezzo del greggio in caso di forzature da parte dei paesi OPEC.

In generale il sistema energetico iracheno si presenta come ben più interessante di quanto non si pensasse alla fine della prima Guerra del Golfo, sia per le riserve accertate di petrolio (112 miliardi di barili, l'11% di quelle mondiali), sia per quelle possibili che si pensa siano almeno il triplo. Baghdad si affermerebbe in questo caso come il primo paese produttore del mondo e il primo fornitore di Europa e Asia, e potrebbe decuplicare l'attuale produzione massima potenziale stimata in 2,8 milioni di barili al giorno. Oltre al petrolio non si deve dimenticare che le più recenti stime indicano che l'Iraq potrebbe decuplicare in dieci anni la sua produzione di gas (attualmente ferma a soli 160 milioni di metri cubi al giorno) grazie ai giacimenti appena scoperti nel nord est del paese, mentre si calcola che la produzione di gpl (gas petrolio liquido) dovrebbe portarsi a 3,8 milioni di tonnellate annue. In qualche misura, quindi, un vero e proprio paese del Bengodi del capitalismo petroliero.

Tutto questo rende comprensibile non solo l'operazione anglo americana volta al controllo totale delle risorse del paese, ma anche gli scontri sottotraccia tra i molti beneficiari di questo piano, tra loro in rapporto di collaborazione-competizione ma totalmente infeudati agli Stati uniti, dalla cui benevolenza dipende la loro partecipazione a questo grande business. I turchi non vogliono perdere la loro posizione di privilegio nel controllo del tracciato gas-petrolifero Iraq-Europa via porto di Ceyhan, e sono coscienti che eventuali turbolenze nella zona curda potrebbero convincere gli americani (una volta che essi fossero definitivamente padroni del paese) a utilizzare la bidirezionalità del sistema di oleodotti e gasdotti iracheni per spostare il flusso verso il Golfo. Per Ankara, quindi, diventa essenziale garantirsi buoni rapporti con i curdi iracheni senza peraltro mollare di un'unghia nell'attività di repressione e di genocidio culturale dei curdi di casa propria. I curdi iracheni, sia quelli del Partito Democratico del Kurdistan (Barzani), sia quelli dell'Unione Patriottica del Kurdistan (Talabani) sono coscienti delle possibilità che una guerra può loro aprire e mirano alla diretta gestione del greggio presente sul loro territorio e non solo più ad ottenere tasse di transito e quote di produzione. La pace tra i due partiti curdi e la formazione di un loro parlamento sembra rispondere alla necessità di rendersi credibili in vista del futuro conflitto con la Turchia per la gestione del petrolio della zona. Inoltre Ankara e i curdi iracheni sono in competizione per la futura gestione dell'area di Kirkuk, situata nel nord dell'Iraq ma fuori dalla zona sotto controllo curdo.

La Siria, infine è anch'essa interessata al proseguimento della politica di trasporto del petrolio inaugurata dal programma Oil for Food che, come abbiamo visto ha privilegiato la direzione Mediterraneo rispetto a quella del Golfo. In questi anni, infatti, i siriani hanno ottenuto l'implicito assenso americano alla gestione di ampie quote di petrolio iracheno di contrabbando trasportato dall'oleodotto Kirkuk-Baniyas (porto siriano) e i loro tentativi di non uscire dal gioco oggi si concentrano sul rendere ufficiale questo flusso; obiettivo raggiungibile solo con l'accordo degli Stati uniti, e questo dato spiega meglio di mille analisi il voto favorevole della Siria in sede di Consiglio di Sicurezza dell'ONU alla risoluzione-capestro sulle ispezioni in Iraq.

Come api sul miele tutti gli attori che possono guadagnare qualcosa (o confermare i risultati ottenuti) dalla fine del regime di Saddam hanno iniziato la corsa al miglior posizionamento nel futuro ordine iracheno. Per quanto riguarda gli USA, però, l'obiettivo è ben più ambizioso del semplice controllo del petrolio del paese mesopotamico; esso, anzi, è il tramite per l'obiettivo vero e proprio: l'Iraq filoamericano uscirà dall'OPEC, affrancandosi dagli obblighi di quota, affermandosi come alternativa petrolifera all'Arabia Saudita (e, en passant, al Venezuela, all'Iran e magari un domani a una Russia meno sdraiata sulle posizioni americane). La conseguenza sul breve periodo sarà probabilmente quella di portare il prezzo del barile a 15-16 dollari, e sul medio periodo a 9 o dieci dollari. Una colossale riduzione del reddito e dell'influenza politico-economico dei paesi produttori e una gigantesca iniezione di liquidità dovuta a risparmio per l'economia americana, la cui dipendenza dal greggio non solo non verrà messa in discussione ma, anzi, alimentata da questi sviluppi. Sviluppi che metteranno viceversa in difficoltà le politiche europee volte alla differenziazione energetica e alla maggiore dipendenza dal gas, e quelle cinesi tese alla ricerca di fonti petrolifere indipendenti dal ferreo controllo americano.

ARABIA E RUSSIA: DUE FRONTI DELLA GUERRA ALL'OPEC

Le ragioni profonde della rottura non pubblicizzata tra gli USA e l'Arabia Saudita vanno ricercate nella politica energetica di quest'ultima. Secondo le proiezioni sull'aumento della domanda USA di petrolio la dipendenza di questi ultimi dal greggio OPEC passerà entro il 2002 da 5,4 a 9,7 milioni di barili al giorno. Riyad è in testa alla classifica dei fornitori USA e quindi vedrebbe aumentare di molto le proprie vendite agli Stati Uniti. Quasi la metà dei 4,3 milioni di barili al giorno che gli USA consumeranno in più dovrebbe infatti avere origini saudite.

L'Arabia Saudita, però, non ha fatto nulla per incamminarsi su questa strada, l'aumento di capacità produttive è stato modesto: da 8,8 a 9,4 milioni di barili al giorno, di cui soltanto 7,5 di produzione effettiva. In questi anni l'Aramco (la compagnia petrolifera saudita) non ha investito a sufficienza per rispondere alla crescita preventivata della domanda americana. Questo fondamentalmente per mantenere il più alto possibile il prezzo del barile.

Gli americani richiedono ai sauditi di portare per il 2010 la loro capacità produttiva a 14 milioni di barili al giorno (riserve incluse) e per ottenere questo sono giunti a offrire a Riyad di gestire direttamente la ricerca e la produzione del petrolio in Arabia Saudita. In altre parole, di fronte alla freddezza saudita nel rispondere alle richieste americane di aumentare la produzione, gli Stati Uniti propongono a Riyad di passare dalla commercializzazione del prodotto saudita al controllo del territorio del regno mediorientale. Controllo che sarebbe garantito militarmente dai soldati americani presenti in Arabia. Washington di fatto ha chiesto a Riyad di accettare amichevolmente che gli Stati Uniti facciano fare al loro paese la stessa fine dell'Iraq. Solo senza bisogno di una guerra.

Di fronte a questa offensiva americana che a tratti diventa franca minaccia, la casa regnante dei Saud ha provato a reagire utilizzando quattro armi: da un lato il finanziamento dei movimenti wahabiti armati in Asia Centrale e Caucaso, dall'altro l'appoggio diplomatico e spettacolare alla causa palestinese (proposta del principe ereditario 'Abdallah, subito appoggiata dal pagliaccio nostrano Berlusconi e immediatamente passata in cavalleria), da un lato minacce riguardanti la diminuzione della produzione in caso di conflitto, dall'altro proposte di utilizzare la propria eccedenza petrolifera (dai 2 ai 2,5 milioni di barili al giorno) per evitare un'impennata del prezzo in caso di conflitto prolungato. Anche Riyad come Washington cerca di usare insieme bastone e carota, ma il gioco saudita è molto più difficile e rischioso, e la stessa famiglia ha oggi visibilmente paura di una sua defenestrazione dal trono arabo soprattutto dopo che a Londra e negli ambienti oltranzisti di Washington si è iniziato a parlare di un'eventuale sostituzione dell'attuale famiglia regnante con quella hashemita, un tempo custode dei luoghi sacri dell'Islam e oggi confinata al trono di Giordania. La sensazione di isolamento deve essere davvero forte nei palazzi dei Saud se, per la prima volta dalla caduta dello Shah, si sono avuti colloqui positivi tra i ministri degli Esteri arabo e iraniano.

Il primo fronte della "Guerra all'OPEC", quello arabo, in sintesi può essere descritto così: Washington ha bisogno per rilanciare un'economia in recessione di aumentare notevolmente il consumo di petrolio e ridurne notevolmente il costo; nello stesso tempo allo scopo di evitare che dei potenziali futuri concorrenti possano ottenere l'accesso privilegiato alle risorse energetiche fondamentali ha necessità di ottenere il controllo dei principali giacimenti di gas e petrolio tra il Medio Oriente e l'Asia Centrale. Per ottenere questi obiettivi deve piegare l'OPEC ottenendo i prezzi più bassi possibili e, insieme, deve ottenere il controllo di uno dei due paesi che dispongono di riserve tali da condizionare fortemente il prezzo del petrolio (l'Iraq) e piegare l'altro ad accettare il proprio protettorato (l'Arabia Saudita) con le buone o con le cattive.

Il secondo fronte della guerra all'OPEC è rappresentato dalla Russia nei confronti della quale, come abbiamo visto, gli Stati Uniti hanno compiuto una svolta decisa nel senso del miglioramento dei rapporti. L'obiettivo di questo riavvicinamento americano è la volontà di sfruttare la ripresa petrolifera russa per creare approvvigionamenti alternativi che consentano loro di combattere meglio la guerra dei prezzi. L'interesse russo nell'accompagnarsi agli USA nella guerra all'OPEC è rappresentato dalla prospettiva di rastrellare i finanziamenti e il know-how necessario per lo sviluppo dei giacimenti siberiani e dell'isola di Sahalin. I capitali e le capacità tecniche necessarie per queste operazioni sono reperibili solo tra le corporations americane le quali, come abbiamo visto hanno tutto l'interesse a finanziare le trivellazioni al fine di disporre di ulteriori alternative al greggio saudita.

Al momento, però, questo secondo fronte risulta ancora un'incognita dal momento che le ricerche russo-americane sui nuovi giacimenti sono appena all'inizio e la Russia riesce ad eccedere di appena un milione di barili al giorno la quota assegnatale dall'OPEC. È evidente che i russi sono disposti a seguire gli Stati Uniti nella guerra per l'abbassamento dei prezzi, ma è altrettanto evidente che in questo momento non sono in grado di assestare ai paesi OPEC un colpo decisivo.

In compenso la Russia è interessata a salvaguardare i suoi interessi in Iraq che non riguardano tanto il regime di Saddam quanto la possibilità di contare sul flusso di petrolio iracheno tramite la Siria e di trarre profitto dagli investimenti fatti finora sul sottosuolo del paese mediorientale. Una convergenza con Washington su questi terreni non è da escludere ma ad oggi non è nemmeno scontata, dal momento che la volontà americana è quella di evitare intromissioni nella gestione del greggio del Golfo.

IL QUARTO MARE

Ultimamente nel dibattito geopolitica si è iniziato a definire "Quarto mare" l'area dell'Asia Centrale particolarmente ricca di materie prime energetiche e teatro delle ripresa del "Grande gioco" tra potenze. Quest'area è da tempo teatro dell'interferenza americana. In un primo momento, durante l'invasione sovietica dell'Afganistan, gli Stati Uniti hanno agito in collaborazione con sauditi e pakistani. In quel momento la diffusione dell'islamismo wahabita era appoggiata da Washington dal momento che gli americani erano convinti che l'ampliamento della sfera di influenza dei Saud andasse a tutto vantaggio della strategia di controllo energetico USA. In un secondo momento, come sappiamo, l'insorgere di correnti antiamericane all'interno della galassia wahabita estremista ha convinto gli americani a dare il via a un'azione diretta di controllo dell'area scontrandosi con gli ex alleati. L'attentato alle Twin Towers e la guerra afgana (che, giova dirlo, continua nell'assordante silenzio dei media) sono solo i risultati più evidenti di questa battaglia che ha come posta in palio il controllo delle risorse energetiche mondiali e, quindi, i rapporti di forza tra la superpotenza americana e il resto del mondo.

La consistenza esatta delle risorse del "Quarto mare" è tuttora poco conosciuta. Le cifre ufficiali sulle riserve di greggio oscillano tra i 7 e gli 8 miliardi di tonnellate ma, in realtà, le ultime scoperte permettono di pensare che questi valori siano troppo bassi. Inoltre la possibile unione in solo flusso di greggio delle risorse dell'area con quelle del Caspio si arriverebbe a superare i 35 miliardi di tonnellate. Le riserve di gas sono ancora più importanti contando almeno su 8000 metri cubi.

Il collegamento Caspio-Caucaso con il Quarto mare viene a configurarsi come la grande riserva energetica dell'Eurasia.

Il problema americano nell'area è sintetizzabile in questo: il collegamento dei tre mari più uno risolve la questione di far raggiungere l'Europa a queste risorse ma non quella di ottenere lo stesso risultato con l'Asia del sud est.. Quest'ultima area, infatti, può essere raggiunta utilmente solo passando per la Russia o per l'Iran. Non a caso gli Stati Uniti hanno inserito l'Iran nell'ormai famoso "Asse de male" e operano scopertamente per favorire un cambio di regime. Allo stesso tempo gli americani ricercano in quest'area la massima collaborazione dei russi ai quali hanno aperto i consorzi che si apprestano a sfruttare i risultati di questo business. Esempi lampanti in questo senso son l'oleodotto Tengiz (in Kazakistan)- Novorossijsk (in Russia) o quello famoso Baku (in Azerbaigian) - Ceyhan (in Turchia), in via di realizzazione con la partecipazione di americani, russi, turchi, arabi, giapponesi e italiani. In particolare per l'Italia sono coinvolte l'Agip e la Saipem che lavorano la prima alle prospezioni, la seconda alla fornitura di tecnologie di trasporto.

Giacomo Catrame

 

 


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