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Da "Umanità Nova" n. 3 del 26 gennaio 2003

Smilitarizziamoci!
Basi USA: l'opposizione da Vieques ad Aviano

Non si vende la terra dove un popolo cammina.
Cavallo Pazzo

A Diego Garcia, piccola isola dell'Oceano indiano [1], l'intera popolazione (quasi 8 mila abitanti) è stata deportata perché dava fastidio alle attività militari statunitensi.

Gli ultimi abitanti, circa un migliaio, si sono visti sbaraccare grazie alle direttive del buon Clinton, il democratico condottiere del passato Establishment USA, che nel suo periodo governativo ha potuto fare il giro del mondo senza mai uscire dai territori degli Stati Uniti d'America, passando per Ramstein, Aviano, Tusla e via fino a Incirlik e ancora più giù fino a Dubai.

È recente invece la notizia che dopo tre anni di mobilitazioni i cittadini di Vieques, isoletta al largo di Porto Rico, sono riuscito a far sloggiare niente di meno che la marina statunitense.

Il Pentagono ha infatti deciso di abbandonare le esercitazioni militari (nel 1999 un abitante dell'isola era stato ucciso) che hanno inquinato tutta l'area di uranio impoverito provocando l'aumento esponenziale dei tumori [2].

L'isola della Maddalena, in Sardegna, gemellata con Vieques e vittima dell'"occupazione" militare delle truppe Usa, non può che sentirsi partecipe di questa seppur parziale vittoria, ma soprattutto può riprendere un po' di fiato nella lotta contro i "giganti".

Altri episodi di ampie e vincenti mobilitazioni popolari si sono viste già negli anni '70 quando furono sfrattate con attiva partecipazione popolare le basi nella vicina isola di Culebra e quella hawaiana di Kaho'lawe.

Restando nel belpaese le installazioni militari USA e Nato sono una realtà diffusa e geograficamente estesa. Si pensi a Camp Ederle (VI) dove c'è il quartier generale della NATO e il comando della SETAF (Southern European Task Force) dell'US Army (esercito americano), ad Aviano dove si estende la più grande base avanzata, deposito nucleare e centro di telecomunicazioni dell'USAF in Italia con più di 9.000 militari statunitensi.

Ed ancora in Sicilia a Sigonella (CT) c'è la principale base terrestre dell'US Navy nel mediterraneo centrale, utilizzata come supporto logistico della VI flotta (circa 3.400 tra militari e civili americani)... e poi depositi d'armi, comandi sotterranei protetti e centri di telecomunicazioni sparsi dal Piemonte alla Basilicata [3].

Se l'estensione territoriale è solo un aspetto, certo significativo, della potenza "persuasiva" di una nazione, la militarizzazione dei territori attorno alle basi altro non è che la globalizzazione all'opera nella sua forma intensiva: la società, l'ambiente, il territorio, perfino le istituzioni e la cultura locale sono infatti sussunte alla funzione bellica.

Se a livello locale le Basi militari USA e NATO e le loro propaggini sono in realtà una rete di rapporti economici, produttivi, sociali che consente alle installazioni di permanere e di espandersi pur essendo fondamentalmente estranee al territorio, non dobbiamo dimenticare che a loro volta fanno parte della macro rete delle basi militari che in tutto il mondo assicurano la supremazia aerea alla potenza militare che si è assunta il ruolo di gendarme della globalizzazione.

Ma se sulle Basi NATO e USA non mancano attente analisi, studi e soprattutto un'opposizione più o meno significativa a seconda dei paesi invasi, ben più difficile è il rapporto con le Basi e più in generale con il militarismo "nostro".

Difficoltà per certi versi ovvie ma per altri affatto scontate.

Ovvia è la repressione diretta e immediata che investe chiunque tenti un boicottaggio od anche solo un'opposizione "pratica" alle strutture della "sacra patria". Ovvie le conseguenze anche solo per un obiezione fiscale alle spese militari, ovvii sono i capi d'accusa per chi sostiene illegittimo il monopolio della violenza dello stato: attentato al cuore dello stato, grave attacco all'istituzione della Difesa e ai valori della patria e così via... in rassegna le più becere, ipocrite e deliranti norme salva-potere.

Ciò che invece non è così ovvio e scontato è la metabolizzazione di questa "logica dominante" nelle coscienze degli individui che formano la società.

Eppure la recente probabile e annunciata guerra all'Iraq sembra far riemergere un'esitazione ed una sorta di rigetto alla propaganda bellicista ben collaudata dai mass-media.

Interessante è infatti l'esito di un recente sondaggio online del Time dove emerge che più della metà dei lettori (60%) pensa che la nazione più pericolosa per la stabilità degli equilibri internazionali sia proprio quella americana.

Ora più che mai diventa prioritario rimettere al centro delle mobilitazioni le lotte alle basi militari, lotte che sappiano territorializzarsi per poi coordinarsi e diffondersi, lotte che pongano l'antimilitarismo come orizzonte praticabile a fianco degli importanti aspetti sindacali e legali d'intralcio dei cosiddetti "lavori" ordinari degli eserciti (esercitazioni, poligoni, sorvoli, inquinamenti ecc.).

Antimilitarismo come disprezzo verso le autorità, come intransigente rifiuto della gerarchia.

Antimilitarismo come riappropriazione del territorio, delle relazioni, insomma delle nostre vite.

Stefano Raspa

Note

[1] l'isola più estesa dell'arcipelago, con una superficie di 44 chilometri quadrati.
[2] Il cancro al seno, alla cervice e all'utero sono aumentati infatti negli ultimi venti anni del 300%.
[3] Per una mappa più dettagliata vedere "Umanità Nova" n.12 del 4 aprile 1999


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