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ALTROVE N°13 - 2007

Altrove N.13

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SOMMARIO

Marco Margnelli: STATI ALTERATI DI COSCIENZA E
PARAPSICOLOGIA.


Maria Rosa Montani: STATI DI COSCIENZA: STRUTTURE
O FUNZIONI.


Massimiliano Calmieri: LA VASCA DI RESTRIZIONE
SENSORIALE: UNESAME PSICOFIOLOGICO DELLE
PROSPETTIVE DI UTILIZZO.


Maria Rosa Montani:I COLORI DELLA COSCIENZA.


Giuseppe Cicciu: INDUZIONI DI STATI MODIFICATI DI
COSCIENZA E CURA DEL TOSSICODIPENDENTE: MODELLO TEORICO.


Riccardo Scotti: LE APPARIZIONI ALLA FINE DEL 1517 NEI PRESSI DI VERDELLO.


Massimo Centini: LA MEDICINA POPOLARE
TRA SAPERE ANTICO E MAGIA.


Maurizio Nocera: MARXISMO E STATI DI COSCIENZA.


Carl A.P. Ruck: IL MISTERO ELEUSINO E
LA RIVOLUZIONE PSICHEDELICA.


Peter Webster: THOMAS KUHN
E LA RIVOLUZIONE PSICHEDELICA.


Gilberto Camilla: MOLECOLE RARE E CURIOSE:
L’ETERE ETILICO.


Gianluca Toro: INTERPRETAZIONE ETNOMICOLOGICA DELL’ARTE RUPESTRE SAHARIANA DELLE “TESTE ROTONDE”: ULTERIORE
EVIDENZE.


 

Marco Margnelli: STATI ALTERATI DI COSCIENZA E PARAPSICOLOGIA

?Nel 1924, quasi casualmente, Hans Berger, un ricercatore di origine belga che si era trasferito in Germania “scoprì” ( sono tentato di scrivere “si accorse”) che il cervello è un produttore di onde elettromagnetiche. Come prevedibile il significato della sua scoperta assunse un adeguato spessore solo molti anni dopo la pubblicazione delle sue osservazioni sperimentali (circa una decina) allorché i codificatori delle scienze sperimentali (in questo caso i fisiologi), attivi nelle università, si applicarono alla ripetizione degli esperimenti di Berger e alla comprensione dei meccanismi che davano luogo a un “tanto inusitato” o “insospettabile” fenomeno. La cautela degli scienziati di allora (come quella di quelli di oggi) non era ingiustificata: Berger non era un fisiologo, la sua preparazione elettrofisiologica era praticamente nulla e anche di elettrologia ne sapeva molto poco. C’erano dunque tutte le premesse per agire con cautela. Dapprima Berger impiegò un galvanometro di Edelman, uno strumento assai poco sensibile in confronto alle odierne apparecchiature; in seguito impiegò ovviamente degli amplificatori a valvole. Anche ammesso che quanto aveva registrato con questi strumenti molto approssimativi avesse importanza, occorreva innanzitutto decidere se si trattasse di un vero fenomeno e non di “artefatti”, magari dovuti alla primitività degli strumenti, ma comunque occorreva un lungo lavoro.
A distanza di più di mezzo secolo, sappiamo che Berger aveva scoperto un fenomeno genuino, e anche importante, e che la sua scoperta ha avuto sviluppi ampi e decisamente utili per l’umanità e il progresso delle scienze mediche.
Nel 1924 l’elettrofisiologia era agli albori: tanto quanto oggi si potrebbe immaginare tra la fisiologia e il magnetismo (quello vero, quello delle calamite, e non il “magnetismo animale” di Messmer), sicché la spiegazione di come il cervello potesse produrre elettricità appariva fantascienza piuttosto che solido cartesianesimo.
Non di meno molti credettero alla scoperta di Berger e si buttarono nello studio sperimentale della fenomenologia elettrica del cervello dando luogo a una preziosa branca della semiologia neurologica che oggi è correntemente usata: l’elettroencefalografia.
L’attività elettrica del cervello, come quella di qualunque oggetto produttore di elettricità, può essere quantificata secondo la legge di Ohm: E = I x R, ovvero potenziale = intensità per resistenza.
Per varie ragioni che non sono state evidenziate da Berger, si è scoperto che è più utile e significativo studiare le variazioni di potenziale piuttosto che le altre e queste vengono registrate solo dalla superficie corticale del cervello piuttosto che da altre regioni. In altre parole, l’elettroencefalogramma (EEG) è l’espressione delle variazioni di potenziale della corteccia del cervello in ogni istante di una registrazione. Naturalmente queste variazioni variano da un punto all’altro della superficie corticale (per es., dai poli frontali a quelli occipitali), ma si è scoperto che queste variazioni seguono una logica precisa, o meglio, seguono una precisa simmetria, che non è solo anteroposteriore ma è anche speculare tra un emisfero e l’altro, cosicché una volta studiate tutte le possibili variazioni in funzione di elementi relativamente banali, quali l’avere gli occhi chiusi o aperti, l’essere seduti o distesi, il non pensare a nulla o l’essere impegnati in un complicato calcolo mentale, l’aver assunto certe sostanze piuttosto che muovere una mano ritmicamente, si è venuti in possesso di uno strumento interpretativo decisamente utile: può essere usato per fare diagnosi di tumori cerebrali, di epilessia, di lesioni degenerative di varie strutture profonde, di insufficienze vascolari e così via.
Il principio fondamentale dell’EEG sembra essere la sincronizzazione o la desincronizzazione delle migliaia di neuroni la cui attività dà, appunto, luogo al tracciato elettrocorticale.
Per capire questo concetto solitamente si ricorre a un paragone audiovisivo: immaginate un cinematografo o un teatro o, insomma, un luogo nel quale siano riunite moltissime persone. Immaginate che questo assieme di individui non sia altro che la corteccia cerebrale, e cioè un’assemblea di neuroni (di elementi modulari). Se tutti gli individui (tutti i neuroni) parlano tra loro, a voce alta o bassa, rivolgendosi a un solo altro individuo, oppure a tre o a quattro persone, il risultato sarà un chiacchiericcio indistinto e inintelligibile, sarà una “asincronia” d’attività dei singoli moduli. Se invece un coordinatore salisse sul palco del teatro e guidasse l’attività dei convenuti, dicendo, per es., “Al mio comando, urlate la parola Maria”, l’attività dei singoli moduli verrebbe “sincronizzata” secondo precisi schemi spaziotemporali.
L’EEG funziona proprio così: nella veglia tutti i neuroni scaricano capricciosamente a caso, uno indipendentemente dall’altro, in modo asincrono, dando luogo a un ritmo, chiamato beta, che è composto da onde di potenziale piccole, frequenti e diverse una dall’altra. In una condizione di sincronizzazione, invece, come per esempio nel ritmo alfa, la maggior parte dei neuroni della corteccia scarica nel medesimo istante in cui scaricano tutti gli altri e il risultato non può essere altro che una “ordinata” sequenza di onde ampie e regolari, così come verrebbe avvertita la voce del pubblico nel cinematografo dell’esempio fatto prima, quando il coordinatore desse il “via” alla pronuncia della parola “Maria”. Sulla semplice base di queste due condizioni opposte, l’elettroencefalografia è in grado di diagnosticare un disturbo: è ovvio che se quando ci si aspetta del ritmo alfa in un determinato punto della superficie corticale si vede invece un altro ritmo, in quel punto c’è qualcosa che non va. Come se, nel nostro cinematografo, un gruppo di spettatori si fosse addormentato e non partecipasse più alla pronunzia collettiva del nome “Maria”.
Il fatto è che in condizioni di normalità fisiologiche, esiste effettivamente un “coordinatore” dei ritmi e che quando esso stesso non funziona bene, tutta l’attività EEG ne risulta alterata.
Per la verità esistono diversi coordinatori principali (che regolano I’EEG degli stati di coscienza; quali la veglia, il sonno o lo stato di sogno) e dei coordinatori secondari, che partecipano o contribuiscono all’attività generale, o meglio, finale, perché essendo l’EEG la registrazione dell’attività della corteccia è come l’espressione dello stato della superficie di un lago: se nelle profondità si manifestano delle turbolenze, in superficie si vedranno onde o gorghi in corrispondenza dei punti di turbolenza profondi.
Ê, per esempio, il caso dell’epilessia, che si manifesta proprio così: come una tempesta proveniente dalle profondità, che sconvolge l’ordine elettrico della corteccia (e non solo quello).
Fin dagli albori dell’elettroencefalografia (ma anche in epoca contemporanea) si era sperato che lo studio dell’attività elettrica del cervello potesse aiutarci a capire qualcosa del funzionamento della psiche, del pensiero o di altri fenomeni, magari straordinari. In realtà il rapporto tra onde EEG e stati psichici e/o mentali è molto grossolano, anche se, come si vedrà, tali relazioni possono essere sfruttate con ottimi risultati. La Convenzione Elettroencefalografica Internazionale codifica quattro ritmi principali, ai quali sono correlati altrettanti stati di coscienza più o meno riconoscibili. Il ritmo beta è quello compreso tra i 13 e i 32-45 Hertz (lo Hertz è l’unità di misura dei fenomeni oscillatori e cioè il numero di oscillazioni al secondo). Il beta è il ritmo caratteristico dello stato di veglia e tende alle alte frequenze in funzione dell’attività mentale in corso (per es. sforzo attentivo, calcolo mentale, stato emozionale intenso, ecc.). Le frequenze si abbassano in situazioni inverse, che si avvicinano al rilassamento. Il beta è anche il ritmo che caratterizza lo stato di sogno: malgrado il corpo sia profondamente rilassato (addirittura contemporaneamente paralizzato), il cervello, o meglio la corteccia cerebrale, sono attivi come durante la veglia. Questa apparente contraddizione ha fatto si che il sonno con sogno, negli anni sessanta, venisse anche chiamato “sonno paradosso”.
Il ritmo alfa è quello compreso tra gli 8 e i 12 hertz. È un ritmo che nasce spontaneamente nelle regioni posteriori del cervello, con la semplice chiusura degli occhi. Se dopo ciò il soggetto si rilassa intenzionalmente, il ritmo si diffonde a tutto il mantello cerebrale e aumenta di ampiezza. Lo stato interno che i soggetti in alfa avvertono è generalmente di quiete e benessere, ma non mancano coloro che hanno un’esperienza sgradevole, di inquietudine e di lieve angoscia.
Un ritmo alfa stabile di grande voltaggio (con onde ampie) è certamente associato a un buon grado di “distacco dalla realtà”, nel senso che, per mantenerlo, un soggetto deve essere in grado di non prestare attenzione agli stimoli ambientali e per riuscire in questo deve essere in grado di concentrare l’attenzione su “oggetti” interni, siano essi sensazioni, immagini, pensieri. Poiché una simile pratica è ciò che fanno da secoli i meditatori, sia orientali che occidentali, il rimo alfa è stato considerato una specie di porta di passaggio verso l’autocontrollo interiore. Ciò è rigorosamente vero, come dimostrò un esperimento su maestri yoga che riuscivano a continuare a produrre alfa stabile e di grande ampiezza malgrado dovessero tenere una mano immersa nell’acqua ghiacciata. I non meditatori non sono in grado di fare ciò. Tuttavia, l’allenamento a produrre alfa non ha grandi effetti terapeutici, come dire che calma la mente, ma non raggiunge il livello somatico, a meno che non venga associato ad altre pratiche, quali per esempio visualizzazioni fisse o simboliche, visualizzazioni dinamiche, percezione ragionata di segnali somatici.
Nel 1958 un ricercatore californiano, Joe Kamyia, mise a punto la tecnica di addestramento per imparare a produrre ritmo alfa stabile e di grande ampiezza. Oggi questa tecnica fa parte delle tecniche note come Biofeedback e non è difficile diventare buoni produttori di alfa in dieci sedute. In pratica si viene collegati a un encefalografo che registra l’attività di un intero emisfero. Mediante un sistema di filtri e di conversione dei segnali, tutte le volte che si entra nel ritmo alfa, lo strumento invia un segnale in modo che si è in grado di capire come fare e cosa fare per continuare a produrlo. L’addestramento viene solitamente fatto in posizione distesa e il segnale di feedback viene ricevuto in una cuffia stereofonica, in modo da poter tenere gli occhi chiusi e “l’attenzione dentro”.
Come si è detto, questa pratica ha scarse virtù terapeutiche (mentre in un primo tempo si era pensato che potesse avere le stesse virtù di una qualunque tecnica di rilassamento come il training autogeno) ma può ben essere considerata come punto di partenza per un percorso di autocontrollo degli stati interni, la cui utilità va oltre la terapia dell’ansia e dello stress. Dopo l’alfa, la Convenzione Elettroencefalografica riconosce come individualizzabile un altro ritmo, il theta, che ha frequenze tra i 4 e gli 8 Hertz e che, in condizioni fisiologiche, viene prodotto in grande quantità (fino ad occupare il 90% del tracciato EEG) durante la fase dell’addormentamento, detta anche fase di presonno oppure stato ipnagogico.
Il theta è un ritmo molto interessante: allo stato di veglia, quando se ne produce un po’ per qualche secondo, sembra essere associato all’emersione di ricordi remoti oppure a uno stato come di sospensione sognante tra due realtà. Queste sono anche le caratteristiche dello stato ipnagogico, stato che tutti viviamo prima di addormentarci; sappiamo pertanto che è uno stato molto piacevole, nel quale l’attività mentale è centrata sul ricordo della giornata o su fantasie di futuribili. Le ricerche hanno tuttavia dimostrato che lo stato ipnagogico è anche caratterizzato da altre fenomenologie che sfuggono a chi lo vive per quei pochi secondi che precedono il sonno, ma che si riescono ad avvertire se lo si vive più a lungo. Innanzitutto, la coscienza è come sdoppiata: la coscienza vigile, sebbene in uno stato crepuscolare, “assiste”, per così dire, all’emersione nella scena percettiva di materiali intrusivi, estranei (non pensati) che sembrano talvolta veri e propri brani di sogni. In effetti la coscienza della veglia può osservare quella del sogno, perché per questi attimi le due coscienze coesistono. Il materiale intrusivo consiste in vere e proprie allucinazioni che possono essere visive, uditive, tattili, cinestesiche e che come tutte le allucinazioni possono essere talmente vivide da indurci a “controllare” la loro verità, nel senso che se si era udita una voce si aprono gli occhi per vedere chi c’è nella stanza, se si aveva avuto una sensazione di “presenza”, si accende la luce per vedere chi si è introdotto in camera da letto, se si aveva avuto la sensazione di essere toccati, si ha lo spavento di pensare un estraneo tra le lenzuola. Le allucinazioni visive, molto piacevoli, vengono ricordate anche nei giorni successivi. Nello stato ipnagogico compare un tipo di pensiero, detto associativo, o primario, che è caratteristico del sogno e, quel che più conta, la coscienza della veglia che è attiva, registra ciò che il pensiero associativo ha pensato, e lo ricorda. In pratica, la situazione assomiglia ad un assopirsi e ad un risvegliarsi continuamente, in modo dolce e sognante, perché non ci si addormenta come non ci si sveglia del tutto.
Il pensiero associativo sembra essere quello delle intuizioni geniali, dell’improvvisa risoluzione di problemi tormentosi, quello delle illuminazioni esistenziali e da ciò si capisce quali potrebbero essere i vantaggi di autoindursi lo stato ipnagogico a volontà. L’addestramento a produrre onde theta non è diverso da quello descritto per il biofeedback alfa: la strumentazione è la stessa, l’esercizio di concentrazione/rilassamento è uguale, le difficoltà solo un poco più impegnative.
Gli effetti di un training theta vanno oltre l’autogestione della creatività. Innanzitutto possono costituire l’inizio di un percorso di autocoscienza più incisivo di quello che può innestare un training alfa. E poi si ha la netta impressione di entrare in contatto con una realtà trascendente al tempo stesso affascinante e paurosa.
Per quel che riguarda le allucinazioni visive, per es., si tratta di simboli, volti, occhi oppure di scene vere e proprie, spesso provenienti da ricordi di vita vissuta, da sogni già fatti, da film o spettacoli televisivi, ma spesso anche di scene completamente aliene alla memoria del passato, che si accompagnano alla sensazione che si tratti di premonizioni, squarci nel velo del futuro, come se nello stato ipnagogico possano operare quelle mitiche possibilità extrasensoriali che molti riconoscono al nostro cervello. Più spesso, le allucinosi visive fanno vivere esperienze emblematiche che si ritrovano nella simbologia esoterica di varie tradizioni culturali, quale per es., l’esperienza del tunnel, ovvero l’esperienza di un passaggio, difficile e pauroso, attraverso una cavità oscura, un cunicolo penoso al di là del quale brilla il sole, fioriscono gli alberi e regna la pace imperitura: quasi l’esperienza di una rinascita. Anche le allucinazioni uditive sono talvolta intrise di questo significato ultimativo: una voce sconosciuta, maschile o femminile, ma autorevole, detta regole, suggerisce cambiamenti, prescrive nuovi comportamenti.
Molti ricercatori sono giunti alla convinzione che coloro che praticano intensamente la meditazione, raggiungono inconsapevolmente lo stato theta e confondono i fenomeni allucinatori che vi si manifestano con avvenimenti sovrannaturali. La psichiatria chiama questa possibilità col nome di illusione. L’illuso è in buona fede, ma i fenomeni che vive sono percezioni devianti e non extraumane.
È in questo senso che un training theta innesca un percorso autoconoscitivo più profondo di quello che intraprende un produttore di alfa: quando arriva ad incrociare “l’irrealtà della realtà”, deve far fronte a dei dubbi che mettono in discussione non solo la realtà individuale, ma addirittura il mondo. Non a caso le filosofie orientali sostengono che la realtà è maya, illusione.
Il ritmo theta, dunque, sembra essere la regione elettroencefalografica più interessante di tutto lo spettro. Sembra essere quello che corrisponde a uno stato di coscienza molto connotato, facilmente riconoscibile e decisamente diverso dallo stato di coscienza ordinario. L’ultimo ritmo che la Convezione EEG Internazionale riconosce come autonomo, infatti, il ritmo delta (che ha frequenze comprese tra 0,5 e 4 Hertz) non corrisponde a vissuti particolarmente incisivi, anzi, corrisponde piuttosto a una sensazione di vuoto e di buio che ad un’esperienza con contenuti degni di memoria.
Grandi quantità di ritmo delta nell’EEG, in condizioni fisiologiche si trovano solo negli stadi più profondi del sonno senza sogni, mentre in condizioni patologiche il ritmo delta caratterizza l’EEG del coma. Ambedue le situazioni a loro volta sembrano caratterizzate da un “riposo funzionale” dei cosiddetti centri nervosi superiori e una riduzione dell’attività in corrispondenza delle parti più profonde del cervello. Di fatto, sia il sonno profondo che il coma non hanno memoria. Il vissuto di chi si sottopone a un training delta è perlopiù sgradevole, caratterizzato da sensazioni di irrigidimento muscolare e senso di minaccia incombente.
Un tempo si pensava che il ritmo delta caratterizzasse certi tipi di trance, come quella medianica, durante la quale la tradizione pretende che uno spirito o comunque un’entità, si sostituisca temporaneamente alla personalità, alla mente e alla psiche dell’ospite, e cioè del medium. Le registrazioni EEG hanno smentito questa possibilità: la trance si accompagna a vari ritmi, praticamente tutti, eccetto il delta.
L’entusiasmo iniziale degli elettroencefalografisti (come quello attuale, di chi non ha molta familiarità con l’elettroencefalografia) sulla possibilità di correlare certi tipi di onde ad altrettanti fenomeni o stati di coscienza, ha dovuto ridimensionarsi notevolmente di fronte alla complessità della materia.
È certamente possibile essere addestrati a produrre ritmi precisi per periodi di tempo anche lunghi, ma questa pratica non dà risultati entusiasmanti. È un po’ come se, sapendo che l’EEG del sogno è caratterizzato da ritmo beta, ci si addestrasse non solo a sognare (a entrare in stato onirico) ma si pretendesse di fare sempre lo stesso sogno.
L’EEG normale è una miscela di tutti i ritmi: il beta e l’alfa predominano, costituendo circa il 90/95 % delle frequenze. Il resto è theta (3/4%) e delta (addirittura 0,5/1%).

 

 

 

 

 

 
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