Il
diritto all'autodeterminazione del popolo basco.
Dossier a cura del Comitato Euskadi-Bari.
Maggio 2001.
La Costituzione spagnola ed il diritto allautodeterminazione
1. Il diritto dei popoli all'autodeterminazione
2. Il diritto all'autodeterminazione come diritto umano fondamentale e collettivo. Il suo riconoscimento legale a livello internazionale
3. Il caso della Spagna
4. Il caso basco
5. L'esercizio del diritto all'autodeterminazione per i baschi
6. La partecipazione politica dei cittadini nello stato spagnolo
7. Conclusioni
Il conflitto basco attraverso la storia di Josemari Lorenzo Espinosa
La sinistra abertzale tra nazione e classe di Josemari Lorenzo Espinosa
IL
PAESE DEI BASCHI
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I Paesi Baschi (Euskal Herria) sono un piccolo territorio a cavallo dei Pirenei abitato appunto dai baschi, un antichissimo popolo con una propria storia millenaria ed una specifica e ben sviluppata cultura, con una propria lingua, l'euskara, antecedente tutte quelle parlate oggi nel continente europeo e non imparentata con alcuna di esse; una nazionalità tutt'ora negata, colonizzata e divisa, nonché pesantemente occupata militarmente dagli stati spagnolo e francese.
Le province basche del nord (Behenafarroa, Lapurdi e Zuberoa) sono amministrate dallo stato francese e dipendono dal Dipartimento dei Pirenei Atlantici; non sono riconosciute ne come entità territoriale ne come minoranza linguistica dal governo di Parigi. Le province basche del sud (Araba, Bizkaia, Gipuzkoa e Nafarroa) rappresentano la maggior parte del territorio di Euskal Herria e sono divise in due differenti regioni all'interno dello stato spagnolo denominate Comunidad Autonoma Vasca (CAV) e Comunidad Foral de Navarra, sono dotate di formali e parziali legislazioni linguistiche e di una autonomia amministrativa ostaggio del governo di Madrid. Ma i baschi non sono ne francesi ne spagnoli, sono semplicemente baschi, e nonostante ciò sono ancora assoggettati ai nazionalismi di questi due stati. Tre milioni di uomini e donne divisi artificialmente dallo svilupparsi dei grandi e potenti stati moderni e ferocemente perseguitati da questi come degli ostacoli da abbattere, sono ancor oggi espropriati del diritto sacrosanto di poter decidere autonomamente del proprio presente e futuro come popolo sovrano.
La mancanza di sovranità impedisce ai baschi di decidere in merito alle politiche economiche, sociali e linguistiche che li riguardano. Così i baschi hanno subito la chiusura e lo smantellamento di importanti settori del proprio tessuto produttivo ed economico, che lo stato spagnolo non ha esitato a svendere per rientrare nei parametri di Maastricht, con il risultato di una delle percentuali più alte di disoccupazione d'Europa: il 20% in media, il 24% fra le donne e addirittura il 45% fra i giovani. O ancora, i cittadini baschi devono subire le politiche scioviniste ed aggressive di Madrid e Parigi nei confronti della loro lingua e cultura, che rischiano di scomparire e che si autosostengono solo grazie alla continua mobilitazione popolare in loro favore.
E' proprio questa mancanza di sovranità ad essere all'origine di uno scontro che ormai da decenni ed attraverso molteplici forme di lotta, di cui la lotta armata di ETA è solo una delle espressioni più note, vede di fronte i diritti dei baschi e gli interessi degli stati spagnolo e francese. I diversi governi che si sono succeduti a Madrid hanno conservato in Euskal Herria tutto l'apparato di controllo poliziesco e militare che vi aveva dispiegato la dittatura franchista; Guardia Civil e Ministero degli Interni negli ultimi venti anni hanno trafficato in armi e droga, promosso e finanziato gruppi terroristici paramilitari (GAL, BVE, ecc.), commissionato attentati, omicidi e sequestri di persona, con il denaro pubblico e l'appoggio di Parigi, ma soprattutto con una impunità degna delle più solide dittature latinoamericane. Infatti, nonostante alcune sentenze e verità processuali, i mandanti e i responsabili di questa sporca guerra contro i baschi sono tutt'ora seduti ai propri posti, mentre continuano le torture e le "morti misteriose" nei commissariati e nelle carceri, dove sono rinchiusi 600 prigionieri politici baschi, senza contare i 49 deportati e i 2000 rifugiati; tutto ciò accade adesso nel cuore dell'Europa occidentale.
Questa è la realtà di Euska Herria oggi, la realtà di un popolo che vive e lotta da ambo i lati dei Pirenei, ma anche di un formidabile movimento di liberazione nazionale e sociale che nulla ha a che fare con il nazionalismo aggressivo e la xenofobia che abbiamo visto rinascere un po' ovunque negli ultimi anni, una realtà saldamente ancorata alla tradizione e agli ideali della sinistra radicale, con una forte tradizione antifascista cementata dalla lotta contro la dittatura del Generale Franco. Quello di Euskal Herria è un contesto di lotta per la sovranità e l'autodeterminazione che si salda con la critica attiva a quell'Europa neoliberista di capitali e polizie che oggi significa ovunque disoccupazione, esclusione, razzismo, repressione e colonialismo economico-culturale; una lotta radicale per riaffermare il principio democratico della partecipazione attiva e diretta delle classi popolari alla vita politica, sociale, economica e culturale
LA
COSTITUZIONE SPAGNOLA ED IL DIRITTO ALLAUTODETERMINAZIONE
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1. Il diritto dei popoli all'autodeterminazione.
Tutti i popoli hanno diritto alla libera decisione. Sarebbe difficile incontrare oggigiorno una persona rappresentativa sul piano sociale, politico, culturale..., che non si mostri d'accordo con una dichiarazione di principio elementare come questa.
Ma questa unanimità, nasconde due realtà concrete che sistemino nei giusti termini le considerazioni riguardanti questo tema. Fino a poco tempo fa non era affatto pacifico e generalizzato questo riconoscimento al diritto all'autodeterminazione dei popoli e, ciò che si intende per "diritto all'autodeterminazione dei popoli", è molto differente a seconda degli utilizzi di questa espressione.
Se a questo uniamo il fatto che numerosi conflitti sociali e politici, alcuni dei quali prendono la forma del conflitto armato, hanno la loro causa primaria nel non riconoscimento di questo diritto, avremo constatato la necessità di considerare questo problema e di pensare ad una sua soluzione.
Essendo il diritto all'autodeterminazione un diritto riguardante l'essere umano in particolare ed i popoli in generale, la sua formulazione in quanto tale è storicamente recente. Praticamente appare nel XX secolo, sebbene copra un'assenza anteriore. Consiste nella Carta Atlantica (14.08.1941.), nella Dichiarazione delle Nazioni Unite (10.01.1942.), Conferenza di Yalta (10.02.1945.), Carta delle Nazioni Unite (1.02.1955.), Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici (16.12.1966.), Patto Internazionale dei Diritti Economici, Sociali e Culturali (16.12.1966.), Dichiarazione di Helsinki (1973) e Carta di Algeri (4.07.1976.). Già prima, nel 1918, il presidente degli USA Wilson aveva fatto riferimento al diritto all'autodeterminazione e, nella conferenza di pace che seguì la fine della I° Guerra Mondiale, questo principio fu utilizzato come base di lavoro per alcune delle risoluzioni che furono adottate.
La formulazione, soprattutto del Patto dei Diritti Civili e Politici e di quello dei Diritti Economici, Sociali e Culturali, così come quella della Carta di Algeri, è chiara rispetto al tema che ci riguarda. "Tutti i popoli hanno diritto all'autodeterminazione. In virtù di questo diritto stabiliscono liberamente il proprio status politico e provvedono ugualmente al proprio sviluppo economico, sociale e culturale" dicono entrambi i Patti all'articolo 1, mentre la Carta di Algeri stabilisce che "ogni popolo gode del diritto imprescindibile ed inalienabile all'autodeterminazione. Esso decide il proprio status politico in tutta libertà e senza alcuna ingerenza esterna".
In definitiva, il diritto all'autodeterminazione è la suprema manifestazione della libertà di un popolo, essendo la forma attraverso cui esprime politicamente se stesso e decide liberamente il proprio futuro. Per essere un diritto dei popoli esso viene prima degli stati e non dipende dal riconoscimento che gli stati possano concedere o meno.
1.1. Il concetto di popolo.
Il primo problema che ci troviamo di fronte parlando del diritto all'autodeterminazione riguarda il soggetto di questo diritto: il popolo. E' ovvio che in relazione a cosa si intende per popolo, si potrà giungere ad una conclusione o all'altra riguardo al diritto di determinate comunità umane all'autodeterminazione.
Questo concetto ha conosciuto nel tempo numerose interpretazioni, che hanno tentato di dare contenuto a questo termine da differenti posizioni. Da una parte, si è utilizzato rispetto ad elementi obiettivi come l'etnia, la storia, le frontiere, la religione, la lingua,...In altri casi invece rispetto all'elemento soggettivo consistente nella volontà delle persone che compongono il corpo sociale che si chiama popolo. E' evidente che nessuno di questi elementi da solo consente di risolvere la questione. Bisogna riconoscere che gli elementi obiettivi che permetterebbero la determinazione di un corpo sociale come popolo, non basterebbero in assenza della volontà di convivenza che lo converte in Popolo soggetto di autodeterminazione. Viceversa, la sola volontà di convivenza non accompagnata da elementi obiettivi servirebbe a poco.
Si può cercare di trovare la soluzione partendo da un'analisi al contrario. Se un corpo sociale possiede elementi in comune (lingua, cultura, storia, territorio, ...) e mostra espressamente la volontà di vivere ed essere riconosciuto come popolo, essendo tutti i popoli uguali e spettando loro gli stessi diritti, non è possibile negare loro questa possibilità. Non esiste alcun principio né ragione in base alla quale si possa negare un diritto a colui al quale questo diritto spetta. Nessuno lo può negare.
Il concetto di diritto all'autodeterminazione e, in relazione ad esso, quello di popolo è stato abitualmente circondato di ambiguità quando si è proceduto alla sua discussione e concretizzazione in carte e trattati internazionali. Non poteva essere altrimenti.
Originariamente le "comunità politiche che in modo aleatorio si andavano formando, avevano la necessità di formalizzare la propria evoluzione nella costituzione di stati con caratteristiche politico-territoriali differenziate. Il "principio delle nazionalità" cercò di coprire questa necessità giustificando che ognuna di queste comunità politiche (che andavano prendendo il nome di nazioni) aveva il diritto di costituirsi in stato.
Si tratta appunto degli stati-nazione, di coloro che nel presente secolo hanno discusso, fra loro, il senso del concetto di popolo. Evidentemente stati plurinazionali che contenevano (e contengono tutt'ora) al proprio interno differenti comunità etniche o popoli, non andavano a riconoscere il diritto all'autodeterminazione per questi popoli. Sebbene siano disposti a riconoscerlo per le proprie colonie, e nella maggioranza dei casi non in forma pacifica, sempre costretti dalla forza dei fatti.
Possiamo citare il caso francese, visto che una parte del popolo basco si trova nel nord dei Pirenei e territorialmente e politicamente è inclusa nello Stato francese. Dice la costituzione francese del 1958 che sono " il popolo francese" e "i popoli dei territori d'oltremare" coloro che attraverso un atto di autodeterminazione adottano la costituzione. E contempla la possibilità che "i popoli d'oltremare", esercitando il diritto all'autodeterminazione dei popoli, manifestino o no la volontà di aderire alla repubblica. Di conseguenza questo diritto non è contemplato invece per il popolo basco, incluso in quello che eufemisticamente si denomina "popolo francese".
All'interno dell'ONU al momento di trattare questo tema, si creano due correnti in base alle discussioni o accordi sviluppati dagli organi politici o nella Commissione Diritti Umani. Le formulazioni che provengono dai primi, fondamentalmente l'Assemblea Generale, identificano il diritto all'autodeterminazione in qualcosa che possono esercitare solo gli stati già costituiti. Si tratta della logica applicazione dell'interesse degli stati a non modificare le proprie frontiere. Senza dubbio i patti che hanno origine dalla Commissione Diritti Umani hanno un carattere molto più aperto, consentendo un'interpretazione dell'autodeterminazione più vicina al contenuto reale di questo diritto.
Queste due interpretazioni non fanno altro che riflettere la differenza fra il contenuto giuridico e quello politico del diritto all'autodeterminazione.
1.2. L'autodeterminazione come principio giuridico.
Il diritto all'autodeterminazione è un principio eminentemente giuridico che ha le proprie basi nei concetti di democrazia e libertà delle persone. Sono gli esseri umani liberi, uniti da determinate caratteristiche, coloro che hanno il diritto di trasformare questa comunità naturale in comunità politica. Un popolo non si inventa. Nasce nel tempo nella misura in cui un gruppo umano si dota di caratteristiche comuni, che lo identificano e differenziano dagli altri e lo dotano di una propria visione del mondo. Ma riconoscere ciò significherebbe riconoscere che quei gruppi etnici inclusi negli stati che ora conosciamo hanno diritto a decidere il proprio destino politico esercitando il diritto all'autodeterminazione.
Proprio per questo motivo gli stati hanno avuto interesse a centrare il suo contenuto su una visione principalmente politica, "dimenticando" l'aspetto giuridico del diritto.
2. Il diritto all'autodeterminazione come diritto umano fondamentale e collettivo. Il suo riconoscimento legale a livello internazionale.
Per principio tutti i popoli sono uguali tra loro, tanto sociologicamente quanto eticamente. Questa affermazione ha la propria base nel fatto che (escluse le visioni razziste) tutti i popoli hanno uguale capacità di sviluppare la propria identità in tutti i suoi aspetti (culturali, sociali, linguistici), se li si rispetta nelle proprie peculiarità, condizioni di vita, e gli si permette di svilupparsi secondo i propri ritmi. Qualsiasi teoria che ha difeso la supremazia o migliore perfezione di alcuni popoli su altri (fascismo, razzismo, apartheid) ha finito per difendere anche l'unità di destini fuori dal tempo, e giustificare politicamente l'imposizione e la rispettiva sottomissione di alcuni popoli ad opera di altri. Gli imperialismi e i genocidi, ingiustizie storiche, hanno preso le mosse da queste concezioni.
Al contrario l'uguaglianza e la libertà di diritti che spetta agli esseri umani dalla loro nascita, si trasferisce inevitabilmente sul piano collettivo nei gruppi umani basandoli sulla convivenza e l'organizzazione. Se questo aspetto sociale viene considerato e rispettato, superando l'individualismo e l'egoismo, difficilmente potranno verificarsi le discriminazioni.
Partendo da questa base, nessun popolo o gruppo di popoli ha diritto ad imporsi sugli altri con il pretesto della forza, del numero, della convenienza o dell'opportunità.
Se il diritto all'autodeterminazione è la garanzia minima dell'esistenza e sopravvivenza di un popolo, nessuno ha diritto a negarlo e a privarlo così della libertà.
Fin qui abbiamo constatato l'importanza che riveste questo diritto per i gruppi umani. Se la vita e la libertà sono basilari per l'essere umano e per questo si considerano diritti fondamentali, questo diritto che riguarda la stessa vita e libertà del gruppo umano nel quale vive l'individuo, diviene esso stesso ugualmente fondamentale. Senza questo molti altri diritti definiti fondamentali scomparirebbero o non avrebbero le condizioni per esercitarsi. Così, i diritti economici, il diritto al lavoro e a condizioni di vita degne, l'accesso ad una adeguata alimentazione, la possibilità di preservare la natura, sono sempre più condizionati dalla possibilità dei popoli di autodeterminarsi liberamente, senza ingerenze esterne.
Il suo carattere collettivo proviene dall'essere un diritto che non può essere esercitato dall'essere umano come individuo, in contrasto con altri diritti che, essendo ugualmente patrimonio dell'essere umano, possono essere esercitati da ogni persona di fronte alle altre.
Il popolo, la collettività, conferisce all'essere umano tanti segni di identità. Non si può concepire una persona al di fuori del gruppo in cui vive e al quale appartiene. La sua lingua, la sua cultura, in condizioni normali, sono quelle del gruppo etnico al quale appartiene o del quale fa parte.
Così come l'individuo ha pieno diritto a presentarsi come tale difronte agli altri, con la propria identità differenziata, anche il popolo ha diritto a fare lo stesso di fronte alle altre comunità. Ed ha diritto a farlo in tutta la sua completezza. Senza tagli o limitazioni che non dipendano dalla sua stessa volontà.
Questo carattere di diritto umano, fondamentale e collettivo, è stato contemplato di fatto nei patti internazionali. Negli stessi, i diritti umani non si riconoscono o concedono ma si rispettano e constatano. Scaturiscono dall'essere umano in quanto tale. Questa idea è riflessa in modo chiaro, per esempio, negli articoli 1 e 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: "Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali per dignità e diritti", "...senza distinzione alcuna di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica o di qualsiasi altro tipo, origine nazionale o sociale, posizione economica, nascita o qualsiasi altra condizione".
I patti del 1966 riguardanti i diritti civili, politici, economici, sociali e culturali, collocano l'autodeterminazione nel loro primo articolo, definendo la sua importanza ed il suo carattere fondamentale e basilare per il verificarsi degli altri diritti, riferendolo alla collettività formata dalle singole persone, il popolo.
Questa visione del diritto all'autodeterminazione come diritto umano, fondamentale e collettivo, sancisce l'impossibilità che una qualsiasi ragione o causa possa giustificare la sua soppressione, eliminazione o limitazione.
Gli avvenimenti storici che si sono prodotti in tutto il mondo negli ultimi anni proprio in Europa, oltre che dimostrare la validità ed attuale costante utilizzazione di questo diritto, hanno significato l'eliminazione di quelle interpretazioni interessate che volevano ridurre il suo esercizio solo a quei paesi colonizzati d'oltremare.
La Spagna non è una nazione. Lo stato spagnolo è uno stato plurinazionale, all'interno del quale sono inclusi altri tre popoli: catalani, galiziani e baschi.
Sostenere che in Spagna non esistono altri cittadini che gli spagnoli è una opzione polemica la cui negazione che noi sosteniamo ci porta ad affermare che la Spagna non è una nazione in senso stretto, per tanto la sua formazione come stato merita d essere analizzata dal punto di vista storico ed in relazione ai criteri con i quali abbiamo definito caratteristiche e limiti del diritto all'autodeterminazione.
L'opinione secondo la quale in Spagna non vi sarebbero altri cittadini che gli spagnoli mette in questione il fatto che lo stato spagnolo sia uno stato democratico, poiché all'interno del proprio sistema non viene rispettato un diritto fondamentale collettivo che riguarda una parte considerevole di quelli che sono oggi formalmente i suoi cittadini.
3.1. 500 anni di Impero.
Quello che oggi è lo stato spagnolo deriva da quella unità politico-sociale che esiste da 500 anni, ed in base alla cui esistenza si pretende di condizionare la diversità e personalità dei popoli che oggi sono inclusi in quell'unità politica che è la Spagna attuale.
Quando alla fine del XV secolo cominciano a realizzarsi con una certa costanza i viaggi degli europei verso il continente americano, il panorama politico che presenta il territorio chiamato penisola iberica (o Hispania) è tutto tranne che una unità.
L'unione delle dinastie dei due regni feudali di Castiglia ed Aragona, tramite il matrimonio di Fernando ed Isabella, coincidente con il periodo che sta per concludersi con la Riconquista, ha come finalità immediata quella di cercare l'egemonia militare in un periodo di forte espansione territoriale, e partendo dal presupposto che ognuno dei due regni aveva avuto vocazioni ed obiettivi differenti: gli aragonesi verso il Mediterraneo e i castigliani verso l'Atlantico.
Si volle poi cementare questo atto politico con un elemento religioso (da cui poi la denominazione di Re Cattolici) che gli diede quella forza che da sola l'unione matrimoniale non poteva dare.
Al momento dell'unione coesistono nella penisola il Regno di Portogallo ed il Regno di Navarra (Nafarroa in basco), dei quali quest'ultimo era formato da baschi ed occupava gran parte dei territori in cui si trovava il popolo basco.
Nel momento in cui questo nuovo Regno di Spagna si va espandendo oltremare fondamentalmente in America, si sviluppa anche una tendenza all'espansione e controllo politico all'interno della penisola iberica. Questo processo ha un risultato positivo per la Spagna poiché, sebbene dopo aver conquistato nel 1581 il Portogallo, nel 1668 dovrà riconoscerne l'indipendenza alla sconfitta militare, nel 1512 ottiene il risultato di inglobare definitivamente attraverso conquista militare la Navarra.
Durante i tre secoli successivi e per quanto riguarda la situazione che vivono i distinti territori inclusi in ciò che si comincia a definire come le Spagne, in riferimento al funzionamento economico, politico e sociale, di tutto si può parlare tranne che di unità. E questa realtà è comune a quanto si vive nello stesso periodo in tutta Europa.
Per citare il caso del Regno di Navarra, possiamo dire che godesse di una propria sovranità visto che conservava istituzioni politiche e tribunali propri. La stessa situazione vivevano i territori del resto di Euskal Herria non facenti parte del Regno di Navarra, che conservavano propri segni di identità (istituzioni, lingua, cultura, ecc). Si può citare come esempio proprio il fatto che i vari re dovevano giurare di rispettare i "Fueros" (1) per essere ammessi come "signori" con potere politico sui cittadini baschi che occupavano questi territori.
Nella misura in cui il regno rispettava i segni di identità del popolo basco esso non veniva disturbato nella sua convivenza interna. Ma questa situazione non era molto differente da quella che si viveva dal momento della romanizzazione della penisola, dell'arrivo dei popoli del nord Europa o dalla conquista da parte degli arabi.
Questo spiega come un popolo numericamente piccolo, stanziato in un territorio ridotto e di passaggio, sia riuscito a mantenere la propria identità così differenziata fino ad oggi.
Al momento dello smembramento dell'Impero spagnolo e della fine dell'antico regime con l'apparizione delle monarchie centraliste in Europa, vanno aumentando le tendenze verso una sempre più forte uniformità interna. Questo processo provoca il conflitto con i baschi, che quando vedono in pericolo il proprio autogoverno, la propria lingua, la propria cultura, in definitiva la propria identità, reagiscono come non avevano fatto in precedenza quando un modello di convivenza permetteva di sviluppare il proprio stile di vita. E' quando si mette in pericolo la differenza, quando si nega, che essa si rivendica.
Non si può dimenticare nemmeno che nella nuova situazione che si va generando influiscono in modo determinante gli aspetti economici, che condizionano tanto la localizzazione delle frontiere quanto le scelte politiche. L'apparizione della borghesia mercantile e la rivoluzione industriale vanno ad avere, così come in altri luoghi, una grande importanza in Euskal Herria, e vanno a determinare comportamenti politici che incideranno nelle relazioni con lo Stato spagnolo.
Dalla prima metà del XIX secolo, il popolo basco sostiene un conflitto armato in difesa della propria identità, che durante le Guerre Carliste (2) si caratterizzava nella difesa dei "Fueros", ma che nell'ultimo secolo va sempre più identificandosi con la difesa della propria identità nazionale.
3.2. La dittatura franchista.
Lasciando da parte altri periodi storici pur interessanti dal nostro punto di vista, ci soffermeremo su quello che ha origine dalla Guerra Civile spagnola del 1936-39, per il fatto che essa rappresenta il precedente più immediato rispetto alla situazione attuale.
L'esistenza di un nazionalismo basco nell'ultimo secolo ha la sua concretizzazione più evidente nel periodo della Repubblica, prima e durante la guerra del '36. La breve esistenza di un governo basco non indipendente da quello di Madrid, e che non include tutto il territorio di Hego Euskal Herria (3), ma che ha competenze importanti e rappresenta la differenza di una comunità, finisce con l'arrivo della guerra e con la disfatta della Repubblica.
Quando il Generale Franco impone un sistema fascista di organizzazione e di governo dello stato, una delle sue principali preoccupazioni è quella dei popoli che "attentano contro l'unità della patria". Dell'Impero rimangono solo la terminologia, come nella frase "unità di destino universale", ed uno smisurato accanimento nell'eliminazione dei segni d'identità propria dei popoli che sono inclusi nella Spagna.
Rispetto al caso basco, la repressione dell'euskara (4),già minacciata dal castigliano nei secoli precedenti, si converte in un vero esempio di genocidio culturale che viene accompagnato dalla repressione generale delle libertà e da un tentativo di assimilare i segni di identità del popolo basco.
La fine della Seconda Guerra mondiale con la sconfitta dei regimi fascisti, non impedisce la sopravvivenza del franchismo che non partecipò alla guerra in forma diretta.
Durante il franchismo il nazionalismo basco classico rimane in uno stato di letargo nell'attesa di una migliore congiuntura per difendere i propri progetti. Il governo basco in esilio riveste un carattere formale e gode di uno scarso riconoscimento politico a livello internazionale.
Frutto di questa situazione, da una parte di repressione e dall'altra di incapacità di portare avanti un processo di difesa dell'identità di un popolo, negli anni sessanta appare all'interno del popolo basco una nuova organizzazione di difesa dell'identità nazionale, ETA (5), che integrandosi nelle correnti sociali del momento nel mondo, utilizza la violenza politica, la lotta armata, in difesa della libertà del proprio popolo.
Gli anni settanta vedono da una parte lo scontro violento dei baschi con lo stato spagnolo, dall'altra l'apparizione di un movimento politico di opposizione al franchismo anche nel resto dello Stato spagnolo ed in fine la morte del dittatore, proprio nel momento in cui il sistema era in crisi. In questo periodo coloro che formano l'opposizione al franchismo difendono, soprattutto per Euskal Herria e quasi senza eccezioni, il diritto all'autodeterminazione del popolo basco. Ma ciò non si andrà a riflettere nel periodo successivo.
3.3. La cosiddetta transizione politica.
Il periodo di transizione che si apre con la morte del dittatore (e anche prima), offre una dicotomia chiara tra le formule da applicare alla realtà dello stato: rottura o riforma. Coloro che difendono l'opzione della rottura, ritengono sia l'unico cammino per porre fine alla situazione di assoluta negazione dei diritti e della libertà, sia individuali che collettivi e l'unica soluzione per poter articolare una nuova composizione di quello che fino ad allora era stato uno stato unitario che non ammetteva l'esercizio del diritto all'autodeterminazione, da parte dei diversi popoli che si trovavano al suo interno.
Ma l'opzione che alla fine prevalse fu quella della riforma che, anche se ha significato un cambiamento sostanziale per gli spagnoli, non ha affatto risolto il problema del non riconoscimento del diritto all'autodeterminazione per il popolo basco. Questo si riflette in numerose forme come vedremo, ma specialmente nella persistenza della manifestazione limite dello scontro fra Euskal Herria e lo stato spagnolo, la lotta armata.
3.4. La Costituzione spagnola del 1978 e la negazione dell'autodeterminazione.
Non è gratuito affermare che, viste le circostanze che concorsero nel momento in cui viene approvata la Costituzione (6), il suo contenuto riguardo il diritto all'autodeterminazione, fu una grande occasione persa per dare una soluzione al secolare problema basco.
Nella sua redazione, rispetto al diritto all'autodeterminazione, ebbero più peso le pressioni dei poteri reali dell'apparato statale franchista, come l'esercito, i poteri finanziari, l'influenza degli altri stati dell'orbita degli USA che non volevano creare cambiamenti nell'ordine mondiale stabilito, mentre rimasero inascoltate le voci che facevano appello al reale riconoscimento dei diritti e della libertà in tutta la loro estensione.
Il carattere unitario dello stato rimase un principio fondamentale e con esso si eliminò completamente il diritto all'autodeterminazione dalla Costituzione.
Si verificava così una violenza obiettiva, come quella di negare ad un popolo un diritto essenziale per la sua sopravvivenza in quanto tale, e si perpetrava e consolidava l'esistenza di una violenza di risposta ed il conseguente scontro armato al quale si continuò a negare qualsiasi via di soluzione.
L'inizio di questa Costituzione, che è quella vigente, proclama la volontà di "Proteggere tutti gli spagnoli ed i popoli di Spagna nell'esercizio dei diritti umani, delle loro culture, lingue ed istituzioni", ma a proclamare ciò è "la Nazione spagnola". Questa idea, che c'è una sola nazione in Spagna si riflette su di un altro articolo.
L'articolo 1.2 stabilisce che "La sovranità nazionale risiede nel popolo spagnolo", eliminando così gli altri popoli dall'esercizio di un gran numero di diritti, come nel caso basco, tra cui l'autodeterminarsi e l'essere sovrano. Nell'elaborazione del testo costituzionale vennero rifiutati tutti gli emendamenti che intendevano introdurre una organizzazione confederale dello stato, partendo dalla sovranità dei differenti popoli in esso inseriti.
Il tema diventa confuso nell'articolo 2 che stabilisce che "La Costituzione si fonda sull'indissolubile unità della Nazione spagnola Patria comune ed indivisibile di tutti gli spagnoli, e riconosce e garantisce il diritto all'autonomia delle nazionalità e regioni che la compongono e la solidarietà tra esse". Ma il termine nazionalità non significa affatto popoli nel caso presente, vista l'articolazione attuale dello stato basata sulla decentralizzazione amministrativa chiamata "modello autonomico" che concede autonomia tanto alle nazionalità storiche e "classiche" (Euskal Herria, Catalogna e Galizia) quanto alle altre regioni spagnole. Con l'autonomia per tutti, una volta ancora si cerca di sottomettere le diversità e potenziare l'uniformità.
Troviamo fedele riflesso della tensione che si vive nel momento della redazione del testo costituzionale nell'articolo 8 che recita: "Le Forze Armate hanno come missione garantire la sovranità e indipendenza della Spagna, difendere la sua integrità territoriale e l'ordinamento costituzionale". E' chiaramente un articolo rivolto non verso l'esterno bensì verso l'interno. E' diretto ai popoli che potrebbero voler esercitare il proprio diritto all'autodeterminazione mettendo in discussione la "unità ed indissolubilità della Patria spagnola". Rispetto al diritto all'autodeterminazione con la nuova Costituzione nulla era dunque cambiato dall'epoca della dittatura franchista.
C'è un fatto da evidenziare rispetto all'approvazione refendaria della Costituzione del 1978: essa fu approvata in tutto il territorio spagnolo ma non in Euskal Herria dove venne ampiamente rifiutata. I baschi non diedero la loro approvazione alla Costituzione.
4.1. Euskal Herria: un popolo.
Situato da ambo i lati dei Pirenei, il popolo basco è uno dei più antichi d'Europa. Disponendo per l'antichità solo di tradizione orale, non disponiamo di una data concreta sul periodo in cui si stanziarono in questa zona, ma tutti i documenti delle altre civiltà e culture dell'Europa occidentale che lasciarono testimonianze scritte (come i Romani), quando passarono attraverso il territorio basco riferiscono che lì appunto vi erano i vascones, i baschi.
Parlare di popolo vuol dire parlare, anche se in modo sommario, di ciò che prima abbiamo definito elementi obiettivi per definire una comunità umana come tale.
Il primo elemento da considerare è la lingua. L'euskara è una delle lingue più originali e differenti d'Europa. Disse nel 1975 il professor Vogt dell'Università di Oslo: "Molto prima che gli indoeuropei arrivassero in Europa, vi erano sul suo territorio molteplici lingue. Tutte sono scomparse o si sono perse ad eccezione dell'euskara. Lo stesso euskara, strana meraviglia, è pieno di vitalità ai giorni nostri."
Non ha radici latine, non assomiglia ad alcuna lingua usata in altre parti del mondo e non si è ancora potuta dimostrare quale sia la sua origine. Questo popolo è così legato alla propria lingua che la denominazione stessa Euskal Herria (che per noi significa Paesi Baschi, ndr.) in euskara significa proprio Popolo dell'Euskara; i baschi sono coloro che posseggono l'euskara.
Il termine Euskadi ha invece più una connotazione politica, sebbene sia stato assunto dai baschi per denominare politicamente il proprio popolo, è un termine coniato nel secolo passato. Questa lingua si è conservata nonostante la presenza, attorno e dentro il territorio dei baschi, di culture come quella romana o araba o il passaggio dei popoli del nord come i vandali, gli alani, ecc. Durante tutta la propria storia, e soprattutto negli ultimi due secoli, a causa della pressione del castigliano, ha subito una forte riduzione del suo uso, accentuato da una autentica repressione diretta negli ultimi tempi e soprattutto durante la dittatura franchista. Oggigiorno è una delle questioni più controverse del contenzioso esistente tra i baschi e lo Stato spagnolo, di fatto è una lingua minorizzata che non trova nelle disposizioni istituzionali dello Stato spagnolo alcuna soluzione alla sua situazione. Nonostante questo il movimento popolare per il suo recupero come lingua viva non ha mai avuto tanta forza come in questi ultimi anni, le pbblicazioni in questa lingua sono aumentate ed il suo accesso, sebbene in forma limitata, all'insegnamento e all'utilizzo ufficiale, rappresenta l'asse di posizioni politiche e movimenti popolari.
C'è testimonianza che le tribù che costituivano il popolo basco si estendevano per un territorio molto più esteso di quello che occupato oggi, ma oggi i baschi si trovano, da un punto di vista geografico, tra i fiumi Atturri (Adour in francese) a nord in territorio francese ed Ebro a sud in territorio spagnolo, confinando ad ovest con i monti cantabrici e ad est con le terre aragonesi dalle quali è separato in parte dalle vallate pirenaiche ed in parte da alcune zone desertiche. Questo territorio ha una estensione di 20.571 kmq. in cui vivono circa 3.000.000 di persone, la maggioranza delle quali si trovano nello stato spagnolo, mentre solo 300.000 circa sono in quello francese.
Le tradizioni culturali, sportive (la pelota), culinarie e festive (San Fermin) di questo popolo, molto differente da quelli circostanti, hanno contribuito a diffondere l'esistenza di questo popolo in tutto il mondo. Popolo rurale fino al momento della sua recente industrializzazione, le sue tradizioni ruotano attorno a questo mezzo e anche oggi, con il suo preoccupante degrado, l'ambiente è elemento referenziale per i baschi.
4.2. La divisione territoriale del popolo basco.
Il popolo basco è attualmente diviso tra due stati: la Francia che amministra la parte nord (o Iparralde) e la Spagna che amministra la parte sud (o Hegoalde). All'interno di quest'ultimo è a sua volta diviso politicamente in due comunità autonome differenti: la Comunidad Autonoma Vasca (CAV) costituita dalle province di Araba, Bizkaia e Gipuzkoa, mentre la Nafarroa è stata separata e costituisce la Comunidad Foral de Navarra (CFN). Ma ancora altre divisioni subiscono i baschi del sud. L'organizzazione religiosa, quella universitaria, giuridica, e la distribuzione militare dell'esercito spagnolo.
Nello stato francese il metodo di divisione è un altro ed il territorio basco non ha una entità propria e fa parte di un'altra unità amministrativa maggiore: il dipartimento dei Pirenei Atlantici.
Non è una casualità che i baschi subiscano politicamente ed amministrativamente tante divisioni e che, con capacità politiche ed amministrative delegate o limitate, non abbiano alcuna unità.
4.3. Una nazione.
Fin dall'epoca romana si fa costantemente riferimento al fatto che ogni imperatore, in ogni campagna, pacificò o dominò i vascones.
La prima azione d'armi formalmente conosciuta è la Battaglia di Orreaga (7) del 778, quando le tribù basche attaccarono l'esercito dell'imperatore Carlomagno mentre si ritirava in Francia dopo una campagna militare durante la quale distrusse Irunea (Pamplona) e, secondo alcuni storici, proprio per questo motivo.
Quello basco non è stato mai un popolo desideroso di conquistare territori stranieri. Al contrario, le sue aspirazioni sono sempre state orientate a conservare le proprie forme di autogoverno, istituzioni e stili di vita. Proprio qui ha origine la violenza politica che ha accompagnato questo popolo negli ultimi due secoli. Il centralismo spagnolo nel XVIII secolo va limitando queste libertà rappresentate dai "Fueros" e provoca l'esplosione delle Guerre Carliste (1833-1839 e 1872-1876). L'antecedente più vicino di questa politica spagnola è la Costituzione del 1812. La sconfitta nelle due guerre e le sue conseguenze concrete portarono alla perdita dei "Fueros" e delle peculiarità economiche, politiche ed amministrative che essi portavano, e conseguentemente all'emergere in maniera organizzata di una coscienza nazionale nel campo sociale, linguistico e politico.
Nel 1895 nasce il Partido Nacionalista Vasco-Euzko Alderdi Jeltzalea, prima organizzazione politica a rivendicare l'esistenza del popolo basco con un carattere politico proprio.
Alla fine della dittatura del generale Primo de Ravera nel 1931, nasce una nuova organizzazione politica da una scissione del PNV-EAJ, Accion Nacionalista Vasca, che censura il destrismo, confessionalismo cattolico e allontanamento dall'impegno sociale. E' la prima manifestazione di un nazionalismo basco di sinistra.
Il 15 giugno 1931 i sindaci baschi approvano a larga maggioranza (427 voti su 528) un progetto denominato Statuto di Lizarra, che ingloberebbe i quattro territori di Hego Euskal Herria (Araba, Bizkaia, Gipuzkoa e Nafarroa).
Al potere a Madrid, il PSOE (partito socialista) approva il 9 dicembre la nuova Costituzione spagnola che riconosce l'esistenza di una sola nazione e di un solo stato, quello spagnolo.
Un nuovo statuto viene riconosciuto solo ad una parte dei baschi che non include la Nafarroa. Una volta iniziata la Guerra Civile, il Governo basco viene ufficialmente costituito il 7.10.1936. Questo governo arriva ad emettere moneta, avere un esercito, emettere passaporti, ecc.
Lo scontro con lo stato spagnolo viene soppresso dalla feroce repressione della dittatura franchista e le rivendicazioni tornano ad emergere durante gli anni 50 e nel 1959 nasce Euskadi Ta Askatasuna.
Il corpo sociale che origina questa organizzazione e la dinamica che porta questa organizzazione, vanno a caratterizzare in questo ultimo periodo la rivendicazione di sovranità dei baschi ed un movimento di liberazione nazionale cresce e si radica senza sosta, toccando anche gli aspetti culturali, di apprendimento ed unificazione dell'euskara.
La pratica della violenza rende manifesta di fronte al mondo l'esistenza di un conflitto tra baschi e Stato spagnolo. L'attentato che costa la vita a Madrid all'Ammiraglio Carrero Blanco (successore del dittatore) significa un grave colpo per il franchismo.
I cambiamenti politici intervenuti in Spagna negli anni settanta e che abbiamo già analizzato, non portano alcuna modificazione della situazione basca.
Il PNV-EAJ autonomista accetta di fatto l'unità spagnola e la divisione dei baschi in due comunità autonome, mentre il movimento di liberazione, nato negli anni cinquanta, intende che i diritti e le libertà dei baschi non vengono riconosciuti dalla nuova Costituzione post-franchista del 1978 e dal successivo sviluppo giuridico e politico.
ETA continua a praticare la lotta armata e lo scontro e le sue forme rimango tali, non incontrandosi una soluzione che vada alla base del problema.
4.4. Identità e sopravvivenza del popolo basco.
E' chiaro che se non recupera e conserva la propria lingua, se non si dota di strumenti politici per reggere la propria organizzazione politica, economica e sociale, per preservare i propri segni d'identità, il popolo basco diviso in due stati come quelli francese e spagnolo, corre il serio rischio di scomparire come tale.
Solamente il riconoscimento di un diritto che gli spetta, il diritto all'autodeterminazione, gli permetterà di definire il proprio futuro come popolo, la propria organizzazione interna e le proprie relazioni con gli altri popoli e con il resto del mondo. Il non riconoscimento di questo diritto è un chiaro attentato alla sua stessa esistenza come popolo e come nazione.
5. L'esercizio del diritto all'autodeterminazione per i baschi.
I baschi di Hego Euskal Herria, sudditi spagnoli, non hanno attualmente alcuno strumento minimo di tipo giuridico o politico che gli permetta di esercitare il diritto all'autodeterminazione. Come abbiamo già detto, la Costituzione condiziona assolutamente la possibilità che qualsiasi popolo incluso oggi in ciò che si chiama Spagna, eserciti questo diritto. Partendo da questo testo fondamentale, lo sviluppo legislativo ed istituzionale non fa altro che confermare questa impossibilità.
5.1. Aspetti giuridici.
Ovviamente, nessuna disposizione di rango inferiore alla Costituzione prevede qualsiasi forma di esercizio del diritto all'autodeterminazione. Ma se in senso positivo non esiste tale legislazione, in negativo possiamo notare l'esistenza di un'ampia normativa legale che direttamente o indirettamente costituisce l'impossibilità di avvicinarsi all'esercizio di tale diritto.
Sebbene non esistesse tale riconoscimento legale, ciò non ha potuto impedire che il movimento abertzale basco si estendesse in maniera considerevole. La sua attività non è rappresentata solamente dalle azioni armate di ETA, sebbene queste siano le più conosciute vista la pubblicità che ricevono. Organizzazioni politiche, sindacali, culturali, giovanili, movimenti popolari in difesa della lingua, dell'ecosistema, ecc, dotano di contenuto e vita un popolo che reclama i propri diritti e la plasmazione di un processo che possa portare alla decisione politica in base alla propria sovranità.
La presenza costante di queste organizzazioni e movimenti in tutti i settori possibili, per le strade, nei mezzi di comunicazione, si scontra con gli interessi dello stato spagnolo, provoca inevitabili scontri e tensioni che hanno un diretto riflesso nell'esistenza di norme giuridiche orientate a reprimere quest'attività e nell'applicazione di queste da parte dei poteri dello Stato, specialmente quelli polizieschi, che annulla l'esercizio dei diritti e delle libertà da parte dei cittadini.
Il sistema democratico vigente in Europa occidentale ed in altre zone del mondo, si basa formalmente sul riconoscimento e sulla difesa dei diritti e delle libertà dei cittadini. Non vi sono problemi quando bisogna sottoscrivere questo riconoscimento nelle rispettive costituzioni o nei trattati e convezioni internazionali. Ma un'altra questione molto differente si presenta quando al momento di esercitare questi diritti. E specialmente quando si tratta di soggetti dissenzienti con lo stato in questione, incluso quando questa dissidenza intende separasi dallo stato attraverso l'esercizio del diritto all'autodeterminazione.
5.2. Democrazia borghese e libertà collettive.
I governi occidentali si proclamano rappresentativi della società, ma limitando la democrazia alle elezioni, trattano il cittadino sempre più come suddito o servitore dello stato e dei suoi apparati, e sempre meno come soggetto di diritti. La sovranità che deve risiedere nel popolo, nei cittadini, i governi la percepiscono come a loro delegata, e qualsiasi rivendicazione del cittadino di esercitare un diritto assunta così in una aggressione al sistema ed a coloro che lo rappresentano.
In questo contesto, quando si tratta di andare verso l'esercizio di un diritto collettivo come il diritto all'autodeterminazione e per questo si ricorre agli strumenti che la legge pone nelle mani del cittadino (libertà di espressione, diritto di riunione e manifestazione, libertà di azione politica, diritto alla difesa ed alla integrità fisica,...), lo Stato reagisce limitando tale esercizio.
Oggi giorno nello Stato spagnolo non viene rispettato il principio di uguaglianza che riguarda ogni cittadino in quasi tutti gli ambiti della vita sociale e politica.
La libertà d'espressione che si concretizza con il diritto di emettere e ricevere liberamente una informazione verace viene meno. I mezzi di comunicazione scritta e televisiva che si liberano dalle direttrici ufficiali, soffrono problemi economici e si vedono ostacolato l'accesso alla pubblicità istituzionale, elemento normale e fondamentale del finanziamento di radio e stampa. I professionisti dell'informazione, i rappresentanti politici, gli stessi cittadini, sono oggetto di persecuzione amministrativa e giudiziaria, ed anche di arresti causati dalle idee riportate durante la loro attività.
In Euskal Herria sono ormai consuetudine i passaggi davanti ai giudici o alle dipendenze poliziali di consiglieri comunali, rappresentanti politici e militanti abertzale baschi, per la loro attività di propaganda politica, per interventi in atti pubblici, per aver approvato mozioni nel proprio comune, ecc.
Vi è il continuo tentativo da parte di Madrid di impedire la celebrazione di manifestazioni di segno patriottico o indipendentista, quale che sia il motivo concreto della convocazione.
Non si ammette il rifiuto totale per motivi politici di prestare servizio di leva nell'esercito spagnolo, condannando gli obiettori a pesanti pene detentive.
L'uso di riprese filmate da parte della polizia di tutte le attività sociali dei militanti abertzale, il controllo informatico delle relazioni, dei beni, le intercettazioni telefoniche illegali, sono all'ordine del giorno di un'attività di controllo sociale sempre più estesa e soffocante.
I blocchi stradali durante i quali la polizia insulta, picchia, minaccia, perquisisce e si appropria di qualsiasi cosa reputi interessante, sono ormai abituali.
Sono sempre più gli avvocati difensori dei prigionieri politici baschi che vengono perseguitati e minacciati nella propria vita ed attività professionale.
Una nuova Legge di Sicurezza Cittadina amplia le già enormi possibilità di azione e controllo poliziesco (ed un'altra è già in discussione, ndr.).
E l'esposizione potrebbe continuare.
Ma forse dove più si vede la riduzione delle libertà è in relazione ai detenuti politici. Dal momento dell'approvazione della Costituzione del 1978 fino ad ora, quasi 20.000 uomini e donne di Euskal Herria sono stati arrestati a causa della loro attività politica e grazie alla Legge Antiterrorista. Durante gli arresti di queste persone i loro diritti sono stati sistematicamente violati. Le torture sono strumento di abituale utilizzo da parte della polizia; come nel caso di Xabier Galasporo e Gurutze Yanci, morti rispettivamente in un commissariato di Bilbao ed in una caserma della Guardia Civil di Madrid. Nei pochissimi casi in cui si è arrivati ad una condanna della polizia per tortura, il governo di Madrid ha concesso l'indulto ai torturatori. Gli arrestati si vedono spesso privati del diritto di nominare un avvocato di propria fiducia che li difenda, e l'Habeas Corpus non si è mai applicato a questi arrestati.
Durante il periodo di arresto le forze di polizia agiscono in maniera clandestina e senza alcun controllo, in quello che viene definito "spazio autonomo di polizia", e l'arrestato non può scegliere un avvocato o comunicare ai familiari in quale prigione o commissariato si trovi (tanto il primo quanto il secondo periodo sono a completa discrezione della polizia, ndr).
La gran maggioranza delle persone arrestate non usufruiscono di un processo legale e rimangono per sempre bollate come terroristi.
Attualmente nelle carceri spagnole e francesi vi sono circa 600 prigionieri politici baschi, molti dei quali sottoposti e condizioni di isolamento. Essi si trovano divisi in più di ottanta carceri, molte delle quali a centinaia di chilometri (spesso oltremare) da Euskal Herria. La comunicazione con i loro familiari, amici, avvocati, è precaria. Il loro accesso agli studi, alla sanità, ad una alimentazione adeguata, è praticamente annullato e discrezionale. Sono frequenti i pestaggi, soprattutto durante i trasferimenti da una prigione all'altra. E così una relazione interminabile di violazioni dei propri diritti elementari, dei quali solo teoricamente non sono privati.
Il rapporto fra i poteri classici dello stato, in buona parte motivato con il problema politico in relazione ai baschi, si fonda sulla dipendenza dei poteri legislativo e giudiziario dal potere politico dell'esecutivo. Lo stato spagnolo ha bisogno di controllare tutti i poteri, per evitare che le rivendicazioni politiche possano avere esito alcuno.
Citiamo in questo caso due esempi. L'esercito in Spagna non ha solo condizionato la "transizione" dal franchismo essendo una sede reale di potere, ma si è fatto consacrare come garante dell'unità territoriale della "patria". In più non vi è decisione politica di una certa importanza che non venga presa con l'approvazione dell'esercito. Il potere giudiziario, teoricamente indipendente, ha il suo vertice in un Consiglio Generale che viene eletto mediante negoziati fra i partiti spagnolisti, PP e PSOE. Perfettamente controllato dal governo, riflette nelle sue attuazioni quelle del potere politico e un'assoluta mancanza di volontà di esercitare un potere autonomo rispetto a quello politico. Al vertice dell'organizzazione giudiziaria vi è il Tribunale Costituzionale, la cui composizione obbedisce alle stesse regole del Consiglio Generale. Nessuna sua decisione ha mai riguardato interessi fondamentali in rapporto alle rivendicazioni politiche delle varie nazionalità. Il loro ruolo di difesa della legalità e controllo giudiziario del potere esecutivo, non esiste quando emerge la ragion di stato in tema di autodeterminazione.
5.3. Aspetti politici. Partiti e istituzioni regionali.
Se giuridicamente le possibilità di rivendicazione del diritto all'autodeterminazione sono praticamente nulle, politicamente accade lo stesso. Il sistema parlamentare vigente in Spagna assimila i baschi in un contesto generale di 40 milioni di persone e senza alcuna possibilità che una rivendicazione di questo tipo possa essere ammessa dalla maggioranza degli spagnoli.
I partiti politici nazionali spagnoli hanno una posizione chiaramente contraria al riconoscimento del diritto all'autodeterminazione. Questo impedisce qualsiasi possibilità di canalizzare attraverso il parlamento spagnolo una iniziativa che permetta di modificare la costituzione vigente e rispettare tale diritto. Se qualcuno di questi partiti durante il franchismo e durante la cosiddetta transizione, appoggiava l'autodeterminazione, nell'attualità ha rinunciato assolutamente a questa opzione. In questo senso il PSOE è stato quello che ha rappresentato meglio questo cambiamento, con l'arrivo al potere di Felipe Gonzalez. I governi che ha diretto (come quelli del PP oggi) hanno rappresentato pienamente i dettami del nazionalismo spagnolo.
I partiti espressione delle altre nazionalità presenti, che si inquadrano in maggioranza nel settore della destra classica, accettando la distribuzione delle regioni autonome dello stato spagnolo hanno rinunciato a qualsiasi rivendicazione anche formale dell'autodeterminazione in queste istituzioni. Legati al potere economico del quale dispongono attraverso i governi autonomici e le amministrazioni provinciali, legittimano il patto statutario e considerano il diritto all'autodeterminazione come una opzione teorica utilizzabile per raccogliere voti e consensi, ma non come un diritto da esercitare di fronte allo stato.
Le istituzioni autonomiche, dotate solo di mero potere delegato da Madrid, non hanno alcuna possibilità di instradarsi verso l'esercizio del diritto all'autodeterminazione. Ma il limite massimo della loro inutilità si è verificato nel cosiddetto Parlamento basco (che però ingloba solo 3 delle 6 province, Araba, Bizkaia e Gipuzkoa).
Nel febbraio del 1990, di fronte alla pressione popolare e sull'onda di quanto stava accadendo in tutta Europa, si produssero una serie di proposte in questo Parlamento regionale con riferimento all'autodeterminazione. La risoluzione approvata alla fine affermava il diritto all'autodeterminazione del popolo basco, ma eleggeva come soggetto di questo diritto lo stesso parlamento regionale che non ha al suo interno neanche tutti i territori baschi di Hegoalde e che è sottomesso alla Costituzione spagnola che riconosce solo il popolo spagnolo. Praticamente si affermò di avere questo diritto ma si dovette rinunciare ad esercitarlo.
Questa impossibilità politica si unisce alla mancanza di spazio giuridico prima evidenziata, mantiene di fatto latente il problema di fronte allo stato e anche di fronte a coloro che difendono questo diritto, oltre i limiti giuridico-politici con i quali lo stato spagnolo opprime le legittime rivendicazioni dei baschi.
6. La partecipazione politica dei cittadini nello stato spagnolo.
Un ultimo aspetto da analizzare brevemente è quello che impedisce ai partiti in favore all'autodeterminazione di poter difendere liberamente e alla pari con gli altri le proprie idee.
6.1. I partiti politici, il controllo economico e la libertà di azione.
La Costituzione spagnola nell'articolo 6 dichiara i partiti come elemento fondamentale della partecipazione politica. Ma per i partiti in favore dell'autodeterminazione questo riconoscimento, anche se suppone la possibilità di legalizzazione (salvo minaccia continua di messa fuori legge), non significa che essi dispongono di uguali condizioni rispetto agli altri partiti.
La costante persecuzione poliziesca dei propri rappresentanti e militanti, l'impossibilità di accedere alle sovvenzioni e finanziamenti pubblici che spettano in base ai risultati elettorali, l'opposizione a finanziare le proprie attività parlamentari perché esse non si condividono, significano far concorrere all'attività politica ed elettorale in condizioni assolutamente diseguali.
In questo ambito economico il Governo arriva a rifiutare la stessa decisione dei tribunali in materia di sovvenzioni e finanziamento.
Per i partiti un'altra fonte di accesso a sovvenzioni statali è costituita dall'accesso ai crediti bancari. Qui il problema è maggiore: i grandi partiti nazionali spagnoli hanno grandi debiti contratti con le banche e questo si riflette in grandi benefici politici ed economici concessi a queste come garanzia dal potere reale. In questo modo l'apparato bancario e finanziario si è fortemente posizionato contro qualsiasi progetto che contempli l'autodeterminazione, il che impedisce che chi difende queste idee possa accedere a forme di finanziamento privato.
6.2. Il potere esecutivo.
Il governo di Mardid e, a sua immagine, i governi regionali della CAV e della CFN, conservano una posizione di assoluta belligeranza nei confronti delle formazioni favorevoli all'autodeterminazione e di conseguenza con i cittadini che li appoggiano, che vedono limitate le proprie libertà individuali a causa delle proprie posizioni politiche e pur contribuendo al bene comune dello stato attraverso le tasse non vedono alcun ritorno di queste, come accade per i cittadini che difendono le scelte politiche spagnoliste.
6.3. Il potere legislativo.
L'unico potere legislativo legale è quello del parlamento spagnolo. In tale foro le opzioni dell'autodeterminazione sono minimamente rappresentate poiché rispondenti e riguardanti minoranze anche numeriche all'interno dello stato spagnolo; nel caso basco parliamo di 2 milioni e mezzo circa di persone di fronte ai 40 milioni di tutta la Spagna. Difficilmente si potrà ascoltare la voce dei baschi (e così accade) attraverso il parlamento spagnolo ed altrettanto difficilmente si potrà verificare un cambiamento giuridico.
6.4. Elezioni, mezzi di comunicazione e controllo economico dello stato.
Bandiera del sistema democratico, le elezioni si presentano come la democrazia in sé, così dall'osservazione di come si svolgono ci si può fare un'idea del carattere di una democrazia o del suo compiersi.
Orientata in modo da riprodurre le maggioranze su tutto il territorio, la legge elettorale stessa premia i partiti spagnolisti ed eliminando o riducendo al minimo di fatto le rappresentanze delle minoranze. Nel mondo occidentale in cui i mezzi di comunicazione sono i principali diffusori di idee, il loro controllo e lo spazio dato alle diverse opinioni è determinante e se, come accade per il tema basco, in essi non vi è un uguale ed imparziale riflesso di tutte le idee ed opzioni, i risultati saranno inevitabilmente viziati e condizionati.
Laddove il controllo diventa ancor più condizionante, per la forza stessa del mezzo, è la televisione. In Euskal Herria si captano almeno 5 canali televisivi spagnoli e solo due baschi, ETB1 e 2 che però vengono vietati in Nafarroa poiché sono i canali regionali della CAV sotto suo diretto controllo, e solo il primo è in euskara. La manipolazione dell'informazione soprattutto per quanto riguarda il tema dell'autodeterminazione è tale che spesso va a spostare completamente il gioco politico, giacché le idee e le posizioni si difendono meglio da questo strumento che in altri modi.
Se a questo aggiungiamo quanto già detto in materia di controllo economico, il quadro si completa e presenta la tragica realtà in quanto alla possibilità reale di partecipazione dei cittadini alla politica.
6.5. Le minoranze nelle istituzioni dello stato.
Oggi nello stato spagnolo chi difende il diritto all'autodeterminazione per il proprio popolo, minoranza numerica all'interno dello stato, non gode di mezzi né giuridici né politici che gli permettano attraverso alcun modo di fare significativi passi in avanti verso l'esercizio di questo diritto.
L'attuale situazione non permette alcuno sviluppo in questo senso e bisognerà cambiare le regole per rendere effettivo l'esercizio dell'autodeterminazione.
Il diritto all'autodeterminazione come diritto umano, fondamentale e collettivo, è un diritto elementare che riguarda tutte le comunità etniche, tutti i popoli, che siano dotati di organizzazione politica propria, di uno stato o che siano inglobati in altri stati.
La giustizia, la pace e la collaborazione internazionale si basano sul rispetto dei diritti individuali e collettivi che spettano all'essere umano.
Gli stati, aldilà delle considerazioni politiche, devono ammettere che il diritto all'autodeterminazione è un diritto fondamentale dei popoli che come principio giuridico basato sugli ideali di libertà e democrazia genera obblighi per gli altri popoli e stati.
Non c'è stato che possa essere definito democratico se non ammette per i popoli in esso inclusi, il diritto all'autodeterminazione.
Il diritto all'autodeterminazione si configura come un tutt'uno che riguarda la possibilità di autoaffermarsi come popolo, definire i propri componenti, delimitare il proprio territorio, determinare la propria organizzazione interna ed adottare la struttura politica che ritenga opportuna (stato sovrano, associato, federato, confederato). Non esiste diritto di autodeterminazione se non se ne permette l'esercizio in tutta la sua estensione.
Non si può parlare pienamente di diritto all'autodeterminazione se poi non se ne garantisce il riconoscimento ed il rispetto.
L'attuale regolazione giuridico-politica dello stato spagnolo, partendo dalla Costituzione vigente, nega l'esercizio del diritto all'autodeterminazione ai popoli in esso presenti che non siano quello spagnolo;
Il popolo basco, Euskal Herria, riunisce gli elementi propri di una nazione ed ha la volontà di esercitare l'autodeterminazione e di definire il proprio futuro politico come popolo.
Il non rispetto da parte dello stato spagnolo del diritto all'autodeterminazione che gli corrisponde, la situazione di divisione amministrativa che gli si impone, l'oppressione dei suoi segni di identità e soprattutto della sua lingua, collocano il popolo basco in pericolo di scomparsa come tale.
Solo il riconoscimento di questo diritto può essere il punto di partenza in grado di permettere il superamento dell'attuale conflitto politico che vede di fronte i baschi e la Spagna.
Il riconoscimento del diritto all'autodeterminazione per il popolo basco suppone la modificazione della Costituzione del 1978 e la creazione di un nuovo status giuridico e politico che contempli il reale esercizio di tale diritto, senza limitazioni o modificazioni del suo contenuto.
E' il popolo basco, e solamente esso, a dover decidere in libertà il proprio futuro politico, senza ingerenze illegittime di altri stati.
Il diritto all'autodeterminazione è la base per una vera democrazia e lo strumento per raggiungere la pace in Euskal Herria.
IL
CONFLITTO BASCO ATTRAVERSO LA STORIA POLITICA
torna in alto
di Josemari Lorenzo Espinosa
Senza dubbio la storia gioca un ruolo fondamentale nel consolidamento del potere politico. A volte non è necessario discuterne, ma nell'epoca attuale la memoria storica è così assorbita dall'azione politica che spesso si perde la prospettiva storica. Certo è che il potere e l'opposizione, più o meno coscientemente, utilizzano nei loro discorsi e nei loro programmi politici contenuti e riferimenti storici. E il conflitto che mette di fronte Euskal Herria agli stati spagnolo e francese non fa eccezione.
Da un altro punto di vista possiamo dire che la storia è soprattutto conflitto, e conflitto storico è tutto ciò che non è stato risolto o è stato risolto male nel passato. Così, quello che oggi si chiama conflitto basco, questione basca, violenza politica in Euskal Herria... proviene in realtà da una serie di avvenimenti storici, la cui origine è nel XIX secolo (approssimativamente nel periodo fra il 1839 ed il 1876) con derivazioni successive come la creazione del movimento nazionalista e la fondazione del PNV-EAJ, o il sorgere di un indipendentismo radicale negli anni venti, l'intervento basco nella guerra spagnola del '36 o la nascita di ETA e di una sinistra abertzale negli anni sessanta, prima della transizione e del periodo autonomico attuale.
LEGITTIMAZIONE
Partiamo da una ipotesi: la Spagna, o lo stato spagnolo, non è legittimata dalla maggioranza dei cittadini nella vita politica basca e ciò è dovuto a quanto accaduto nella storia passata (e presente) che rende impossibile questo riconoscimento. Si tratta di qualcosa di non risolto o risolto male, da cui deriva l'attuale conflitto. La domanda che possiamo farci partendo da queste considerazioni è: la maggioranza dei cittadini baschi approva la situazione di dipendenza politica che la sottomette ad uno stato che non ha mai legittimato direttamente?
Di fronte a questo problema troviamo la tesi abertzale, secondo la quale i baschi avrebbero goduto, fino al secolo XIX, di una sovranità o forma di autogoverno soddisfacente. Questo modello politico, il cui simbolo saranno i "Fueros" o "vecchie leggi", includeva una relazione con gli altri popoli iberici basata sul riconoscimento esplicito che la Corona faceva attraverso il giuramento dei "Fueros" e nel controllo che avevano dello stesso le amministrazioni provinciali basche. Quando il governo spagnolo ruppe questo tipo di relazione, tra il 1839 ed il 1876, i baschi intesero che si stava verificando una ingerenza ed un abuso intollerabile. Si trattò di una imposizione perpetrata attraverso una occupazione militare che da allora non è stata ancora sospesa e che impedisce ai baschi la realizzazione di una vita politica propria e di normali relazioni con i propri vicini. Questa mancanza di legittimazione, o di identificazione della maggioranza dei baschi con la Spagna, si deve alla convinzione di far parte di uno Stato che non si è scelto liberamente e che storicamente ha impedito l'autodeterminazione e lo sviluppo della sovranità basca.
Dal punto di vista politico e sociale, in questa prospettiva, il fatto più rilevante degli ultimi cento anni della storia basca è la nascita e lo sviluppo del movimento abertzale. Questo movimento ha diverse anime, ma un obiettivo comune che consiste nell'ottenere l'indipendenza dei territori baschi, attualmente inclusi negli stati spagnolo e francese.
L'esistenza stessa di questo movimento e dei partiti e dei gruppi che vi fanno parte, è una prova che nel caso basco ci troviamo di fronte ad una nazione negata. Ma la cosa più curiosa e contraddittoria è il fatto che, finché questo movimento non agisce in maniera armata o radicalmente indipendentista, i governi spagnolo e francese lo accettano e lo tollerano. Come dire che, quando il nazionalismo basco è innocuo e non minaccia l'unità della Spagna, muovendosi sul piano del regionalismo, è accettato nel gioco costituzionale spagnolo.
Per una lettura della storia e del nazionalismo basco, bisogna considerare fondamentalmente la coscienza nazionale basca e la sua organizzazione in forma sociale e politica dalla fine del secolo XIX (1882), dopo la rottura che ebbe luogo in conseguenza dell'abolizione dei "fueros" baschi da parte del governo spagnolo nel 1876. Questa abolizione, secondo il nazionalismo basco, rappresenta un caso di ingerenza illegittima e senza precedenti nella storia. La gravità e l'importanza di questo fatto, che si può misurare chiaramente dalle sue ripercussioni, non è considerata o riconosciuta dalla storia ufficiale né in quella che si insegna oggi nelle università basche, ed, evidentemente, molto meno in quelle spagnole. Senza dubbio, se c'è qualcosa di chiaro, è che da allora la storia basca si divide in un prima ed in un dopo inassimilabili, le cui conseguenze giungono fino ai giorni nostri. Per questa ragione è fondamentale conoscere quei fatti, almeno negli aspetti principali, valutarli, giudicarli e sapere come influirono, e continuano ad influire, nello sviluppo politico, sociale e culturale del popolo basco e nelle relazioni con i popoli vicini.
IL "FUERO" E IL "CONTRAFUERO"
I dati circa gli scontri, le dispute belliche, le resistenze di diverso tipo... tra i territori baschi e lo spazio politico castigliano-spagnolo sono abbondanti fino al secolo XIX. Si tratta della lotta politica e militare per i beni materiali, per le discendenze nobiliari, per il prelievo fiscale, insomma anche questi dati danno la misura dell'esistenza di un movimento popolare di resistenza contro il centralismo che si esprimeva attraverso la leva militare ed i tributi. In generale, rappresentano una tenace opposizione all'integrazione politico-fiscale e ai piani di Austria e Borboni sui quali si andava costituendo dall'Età Moderna lo Stato spagnolo.
Esisteva allora certamente un sentimento di appartenenza ad un'unica comunità, assieme agli altri popoli della penisola iberica. Ma gli scontri e i documenti che ad essi si riferiscono indicano già la presenza di un embrione di differenza e, soprattutto, una pratica di sovranità ed autogoverno contro le pretese dello Stato, sebbene i baschi non conoscessero ancora il concetto di nazione. In generale, quegli scontri avevano come asse la difesa di un sistema di leggi e costumi chiamato "Fuero" o "Fueros", utilizzato dagli abitanti dei territori baschi come strumento legale della propria indipendenza politico-legislativa e come muro difensivo davanti alle pretese fiscali e alle ambizioni territoriali del centralismo statale. Il sistema "forale" era il sistema legale attraverso il quale i baschi si governavano da tempi antichissimi, la cui origine storica non si è potuta determinare e che viene definita appunto come "immemorabile".
Il "Fuero" consisteva in una serie di precetti generati a partire dalle necessità economiche, politiche e sociali degli interessati. Ogni territorio basco, cioè ognuna delle province odierne, aveva il proprio "Fuero" ed istituzioni indipendenti che erano contemporaneamente indipendenti fra loro. Cosa questa che non impedì lo sviluppo, soprattutto durante il XIX secolo, della coscienza di essere un popolo, di avere una lingua ed una cultura proprie ed un sistema di sovranità indipendente rispetto alla Castiglia-Spagna. Il sistema "forale" significava anche l'accettazione nominale di un capo militare o "protettore", un signore politico, un re...una figura eminente o politicamente potente alla quale rendere una forma di vassallaggio attraverso donazioni e tributi, ottenendo così protezione.
Nel caso basco la designazione di questo signore ricadeva tradizionalmente sul monarca che occupava il trono castigliano, solitamente il più potente dei dintorni. Questo re, in cambio di essere accettato come tale, giurava a sua volta di difendere, rispettare e far rispettare le leggi basche, i "Fueros". Da parte loro i rappresentanti dei territori baschi si impegnavano a tenere presenti le richieste di aiuto dei regnanti e, nel caso, a disporre entrate di denaro, pagamento di imposte e anche invio di truppe per collaborare alle necessità imperiali spagnole. Gli abertzale (8) chiamano questo rapporto "Patto con la Corona".
Si potrebbe dire che si trattava di un caso classico che in Europa si chiamava vassallaggio feudale, nel quale i deboli pagavano i potenti per non essere annientati ottenendo così di sopravvivere, ma con la particolarità (nel caso basco) di un rapporto fra "uguali" dovuto al mutuo riconoscimento politico in cui ogni parte manteneva la propria giurisdizione legale, sovranità politica e territorio. Contro le richieste reali le istituzioni basche a volte utilizzavano la formula "obbedire e non attuare". Vale a dire, ai territori "forali" rimaneva la possibilità di utilizzare la formula del "contrafuero", per non sottomettersi alle esigenze dello Stato quando queste venivano considerate lesive della sovranità "forale". Nel caso contrario le amministrazioni delle province, quando accettavano le pressioni centrali e stabilivano tasse o altre misure che i cittadini consideravano ingiuste, dovevano affrontare dure proteste popolari: i sanguinosi moti conosciuti nella storia basca come "matxinadas", ai quali partecipavano contadini e lavoratori urbani gelosi dei propri diritti "forali" attaccati.
CAPACITA' DI AUTOGOVERNO
L'origine storica di questo rapporto "forale" era differente a seconda del territorio. Ma la cosa più importante, in tutti i casi, era che i baschi nel loro insieme (anche se nominalmente sudditi dei re castigliani e sottomessi al pagamento della loro protezione) custodirono sempre la propria capacità di autogoverno e la vitalità delle proprie leggi, nelle quali il Re di Spagna non poteva intromettersi. In questo modo, le leggi e disposizioni spagnole non avevano validità nei territori "forali" e non riguardavano i baschi, se non espressamente accettate. Questo sistema "forale" rimase tale nonostante gli attacchi centralisti, anche dopo l'arrivo sul trono spagnolo della casata dei Borbone agli inizi del XVIII secolo, dopo la guerra di successione nella quale i baschi appoggiarono le pretese dei francesi. Le leggi basche furono rispettate, ma nel resto della penisola gli antichi regni medievali (eccetto il Portogallo) andavano perdendo le proprie capacità di autogoverno.
Ciò vuol dire che durante il secolo XVIII e parte del XIX, le leggi basche erano l'ultimo ostacolo al completamento della formazione dello Stato spagnolo. Fino allora i "Fueros" rappresentavano una pratica di sovranità politica e sociale, vista nel resto della penisola con sospetto e critica poiché si credeva fosse un privilegio rispetto agli altri territori spagnoli. I "Fueros" erano visti, dal punto di vista statale e della maggior parte degli altri sudditi, come un privilegio ed una differenza che bisognava sopprimere. Si verificava in questo un errore di valutazione, più tardi corretto dal nazionalismo. La coscienza autonoma della pratica e del diritto dei "Fueros" (le cui origini erano sconosciute) si era persa e si supponeva che fossero concessioni o privilegi concessi dai signori feudali o dai re castigliani, simili a quelli concessi per la fondazione di borghi nuovi in altre parti della penisola.
Fino all'apparizione del nazionalismo (o meglio del movimento abertzale), i baschi erano convinti di essere degli "spagnoli" particolarmente privilegiati per essere esenti dal pagamento dei tributi allo Stato, liberi dall'obbligo del servizio militare, dotati di una propria dogana, ...
IL NAZIONALISMO DI SABINO ARANA
Questa visione sarà contrastata e corretta dalla lettura abertzale dei "Fueros". Per il fondatore del PNV-EAJ, Sabino Arana, sebbene i "Fueros" avevano lo stesso nome di altri fueros o carte di fondazione concesse ad altre cittadine spagnole o ville, non erano assimilabili ad essi. Nel caso dei "Fueros" baschi, a differenza degli altri, non vi era testimonianza di una origine signorile, né monarchica spagnola, e quindi si vide in essi una vera e propria Costituzione autoctona, un sistema di leggi proprie e un regolamento antichissimo sul quale i baschi si reggevano, prima dell'esistenza di un qualsiasi regno spagnolo. Lo stesso Sabino Arana propose il cambio di denominazione da "Fueros" a "Lagi Zarrak" (cioè "Vecchie Leggi"), che sarebbero state, secondo questa versione, una legislazione sovrana elaborata durante i secoli dagli abitanti del territorio basco, senza ingerenze né concessioni da parte di altri poteri. Leggi autonome nel senso kantiano del termine e non privilegi che si possono sopprimere per il capriccio di altri stati o monarchi.
Ciò che accadde nel secolo XIX fu che, dopo una serie di guerre dinastiche tra i pretendenti al trono spagnolo (la cosiddette guerre carliste), i baschi che avevano patteggiato in maggioranza per una delle parti risultarono sconfitti. L'occasione venne sfruttata dal governo spagnolo di Canovas per procedere all'abolizione unilaterale dei "Fueros", procedendo ad una occupazione militare con 50.000 soldati. L'abolizione si produsse in forma scaglionata attraverso vari interventi legislativi nel 1839, 1841 e 1876. Questi interventi furono possibili soprattutto grazie al risultato delle guerre carliste, ma anche per l'aiuto che lo Stato ricevette dalla stessa borghesia basca, interessata all'ingresso nel mercato spagnolo.
La cosa certa fu che l'abolizione del 1876 produsse un notevole scontento popolare, reazioni politiche da diverse parti ed un favorevole brodo di coltura sociale per la nascita del nazionalismo basco. Vi furono manifestazioni, petizioni a Madrid e proteste generalizzate che il governo spagnolo cercò di ammorbidire con una serie di benefici fiscali (il cosiddetto concerto economico) che soddisfecero le aspirazioni delle oligarchie economiche, ma che non servirono ad evitare lo scontento popolare e la nascita del nazionalismo che, con alcune modificazioni, è quello che è giunto fino ai giorni nostri.
Il nazionalismo basco attuale è quello dei fratelli Arana Goiri, diviso e attualizzato secondo differenti interpretazioni. Questo nazionalismo ha origine nella riflessione politica attorno alla crisi "forale" da parte di un settore sensibile alla perdita della sovranità legislativa basca, e che possiamo inquadrare nelle reazioni popolari della fine del secolo XIX provocate dall'ascesa politica della borghesia. Il nazionalismo basco fu agli inizi, e a volte lo è ancora, un movimento popolare e populista, senza una definizione o un riferimento classico solido. Per dirlo meglio, con una definizione interclassista e nel quale si apriranno lotte per l'ortodossia ideologica e per il potere dopo la morte del suo fondatore. In queste lotte le differenti classi cercarono di definire la nazione ed il nazionalismo in base ai propri interessi socioeconomici, dando origine a diversi tipi di nazionalismo.
Al di là dell'orientamento classista della costruzione nazionale, l'ideologia nazionalista basca ha lo stesso punto di partenza di qualsiasi altro nazionalismo: la percezione che il proprio territorio, la propria vita politica, la propria cultura e lingua sono colonizzate da un altro popolo; che il proprio territorio è occupato da due Stati, la Francia (1789) e la Spagna (1839).
Con questa convinzione gli abertzale difendono il diritto di Euskal Herria ad ottenere quantomeno la sovranità politica e legislativa precedente all'abolizione dei "Fueros". Una sovranità che, da questo punto di vista, sarebbe uguale all'indipendenza formale rispetto alla Spagna, sebbene supponesse il riconoscimento del re. Gli abertzale credono in ogni caso di avere il diritto di vedersi liberi dalle imposizioni spagnole e francesi. Tenendo conto di ciò, il nazionalismo basco di oggi e di sempre, in qualsiasi corrente, aspira all'indipendenza dei territori baschi e al recupero della sovranità per le sue decisioni politiche.
LA BORGHESIA PER LA SPAGNA
Negli anni del XIX secolo nei quali sorge il nazionalismo, la situazione basca si può definire di assoluta gravità. Si verificava un'avanzata distruzione delle caratteristiche proprie dei baschi, attraverso la perdita della lingua, una pressione contro la cultura e soprattutto un processo di integrazione economica nel contesto spagnolo, che la rivoluzione industriale e gli interessi mercantili della stessa borghesia basca stavano intensificando. Si produce così una contraddizione decisiva per le sorti dell'indipendenza basca. Mentre il mondo contadino e le classi urbane soffrono gli effetti dell'abolizione dei "Fueros", che porta la distruzione dell'economia, l'istituzione di nuovi tributi, la rottura del mercato semi-autosufficiente, l'obbligo del servizio militare e la sparizione del commercio libero interno...la borghesia commerciale, industriale e finanziaria appoggia queste stesse misure per ampliare i propri mercati, importare mano d'opera a buon mercato dal resto dello Stato e far rientrare le frontiere basche in quelle spagnole.
La necessità di disporre di un mercato ampio e di un prezzo unico (in un contesto protezionista) fanno sì che le prospettive di questa borghesia si identifichino sempre più con lo spazio commerciale statale rifiutando il precedente "isolamento forale", che consideravano appartenente ad un mondo vecchio, feudale e quindi ostacolo allo sviluppo materiale.
L'unità statale sarà già un fatto acquisito alla fine del XIX secolo, con la chiusura commerciale della nuova frontiera spagnola, con uno stato unico, una moneta unica, una sola legge ed un solo esercito, con associazioni imprenditoriali e partiti politici unici su tutto il territorio. C'è anche una classe operaia più mobile, proveniente dalle campagne, che copre la domanda di mano d'opera delle industrie catalane e basche. Ed un sistema finanziario monopolista frutto dei capitali provenienti dallo sfruttamento delle colonie messicane, cubane, venezuelane, filippine, ecc. Questo contesto, sotto l'egemonia del capitalismo e secondo la sua ottica, necessitava di un corrispettivo statale unitario: una sola lingua ed istruzione e cultura uniche. La borghesia industriale e finanziaria imporrà anche le sue leggi unificatrici in tema di cultura, educazione e lingua. La dottrina liberale borghese e la storiografia che la rappresenta, in armonia con queste esigenze, considererà il nazionalismo basco come un elemento regressivo, sedimentato negli interessi rurali reazionari o con i settori cattolici integralisti contrari alla rivoluzione borghese.
Le aspirazioni abertzale dei baschi vengono presentate, da allora fino ai giorni nostri, come opposte al progresso storico che passerebbe obbligatoriamente attraverso la costruzione della Spagna e la sparizione dei popoli senza stato. Questo progresso realizzerebbe attraverso gli interessi dell'alleanza politica, sociale ed economica che dalla metà del secolo XIX in Spagna si consolida tra le vecchie classi
terriere nobiliari, la borghesia industriale, commerciale e mineraria e coloro che avevano fatto fortuna spogliando le colonie. Fu in questo modo che l'occasione storica per i baschi di costituirsi come nazione evaporò, soprattutto perché il gruppo egemonico borghese adottò nel XIX secolo la Spagna come patria economica, politica e culturale.
Euskal Herria venne allora abbandonata dalla sua borghesia e vide come i baschi arricchiti, la classe ascendente e dominante, optava per la Spagna. L'espressione storica di questa frustrazione fu la sparizione dei "Fueros". La conseguenza, e il contrappeso, fu lo sviluppo della teoria abertzale che cercherà nella separazione dalla Francia e dalla Spagna la condizione irrinunciabile per la propria sopravvivenza come popolo.
LA SITUAZIONE ATTUALE
Sebbene sia trascorso molto tempo da quegli anni del XIX secolo, la situazione attuale è conseguenza diretta delle questioni provocate dal trauma dell'abolizione dei "Fueros". L'integrazione di quella che possiamo chiamare la nazione basca incustodita nell'organizzazione statale spagnola e francese continua ad essere forzata, incompleta e contestata. Questa la questione pendente dell'ultimo secolo e non ha fatto altro che aggravarsi. Tutto quanto accaduto attorno a questa questione, comprese l'organizzazione di settori baschi non abertzale, la comune resistenza antifranchista, la lotta armata di ETA, l'apparizione di una sinistra abertzale, la scomparsa di Franco e le riforme del 1978 o il modello autonomista non hanno potuto (e saputo) dare una soluzione al problema.
La stessa presenza e forza di un partito nazionalista (e di altri partiti abertzale), di rivendicazioni basche in Ipar Euskal Herria e di altri gruppi indipendentisti che, a parte questioni particolari, hanno nel proprio programma l'obiettivo finale di una costruzione nazionale basca, indicano l'esistenza oggi di una questione nazionale pendente. Se consideriamo la realtà abertzale in Euskal Herria, avallata dal fatto che i partiti abertzale, che negli ultimi venti anni sono stati maggioranza elettorale in Hego Euskal Herria, e se consideriamo il fatto che le loro proposte politiche non si identificano con alcun progetto degli stati spagnolo e francese, dobbiamo accettare che c'è qualcosa di nazionale di irrisolto.
E' ovvio che lo Stato spagnolo, e tutti i suoi governi, negano questo fatto, i diritti a cui si fa riferimento, trattando la questione come un mero problema di de-centralizzazione amministrativa e fiscale. Ma, evidentemente, se non ci fosse un problema nazionale basco, non sarebbe possibile l'esistenza di un consolidato movimento abertzale, nato più di cento anni fa e che non ha mai cessato di crescere dal momento della sua fondazione. In più include al suo interno un gruppo che pratica la lotta armata dal 1958 con il quale si identificano molti indipendentisti. Questa situazione, per quanto la si voglia relativizzare, ha come causa fondamentale l'impossibilità storica da parte dei baschi di costruire una nazione liberamente separata o liberamente associata alle altre. La forma identitaria di qualsiasi nazionalismo è la nazione. Ma, nella legalità costituzionale spagnola vigente, sebbene siano riconosciuti gli abertzale non si riconosce la loro nazione. Così, gli abertzale baschi e i nazionalisti catalani e galiziani, se vogliono esistere legalmente si vedono obbligati ad essere al tempo stesso nazionalisti spagnoli, a vivere quindi una contraddizione politicamente inconciliabile.
I BASCHI NON ESISTONO
Dobbiamo aggiungere anche che costituzionalmente il nazionalismo basco è legale, perché "nell'indissolubile unità della Nazione spagnola" (art.2 della Costituzione) si riconosce l'esistenza di nazionalità. Ma queste nazionalità e i loro nazionalismi non hanno (e non possono avere) una nazione corrispondente, né diritto nazionale all'autodeterminazione.
Così, secondo la Costituzione del 1978, ci sono alcuni cittadini che formano la nazionalità basca e sono autorizzati a formare partiti nazionali baschi, ma i loro obiettivi non possono essere raggiunti poiché possono autodeterminarsi solo come spagnoli. Quindi i baschi non esistono legalmente come tali. Non sono soggetto di alcun diritto politico nazionale che non sia quello spagnolo, perché è chiaro che la Costituzione include solo il diritto di autodeterminazione per il popolo spagnolo, che è il solo soggetto di sovranità nazionale (art.1-2 della Costituzione) sebbene composto da tutte le nazionalità dello Stato, che al tempo stesso fanno parte di una sola nazione, quella spagnola. La Costituzione successivamente non spiega come mai una sola nazione può essere costituita da varie nazionalità.
Si è soliti passare al di sopra di queste questioni e rispondere dicendo che i baschi si sono già autodeterminati attraverso il referendum per l'autonomia, ma nel caso della CAV avevano rifiutato la Costituzione e la Nafarroa non poté votare la "Ley Foral". In più l'approvazione dello Statuto di autonomia della CAV contò su solo 831.000 voti, appena il 51%. Mentre vi furono 644.000 astensioni politiche (per la maggior parte di sinistra indipendentista), il 48%, e 47.500 voti nettamente contrari. Sotto questo aspetto bisogna tener conto che possiamo solo parlare di una legittimazione indiretta e leggermente maggioritaria (51 contro 48). No sembra che questo fatto serva a legittimare da solo l'unione dei territori baschi alla Spagna. La cosa certa è che fin quando non si realizzerà una consultazione per l'autodeterminazione, lo Stato spagnolo rimarrà senza passaporto democratico in Euskal Herria, per quanti Statuti, elezioni generali e altre votazioni si convochino. La presenza dello Stato spagnolo, come sostengono gli abertzale di oggi e di sempre, proviene da una occupazione militare (tutt'ora vigente!) e dalla illegittima abolizione dei "Fueros".
GIUSTIZIA
Per tutto questo, la storia può dare qualcosa alla situazione presente. La storia aiuta a rispondere alla domanda come e perché si produce il conflitto basco, chi sono i responsabili storici, quali sono le diverse posizioni, chi ha ragione e chi torto, da chi bisogna esigere responsabilità e riconoscimenti. Se i dati storici che conosciamo oggi sono veri, in un determinato momento dell'800 negli Stati baschi, o Euskal Herria, si verificò una grave perdita di capacità politica e di sovranità a causa dell'ingerenza degli stati spagnolo e francese. Anche se quell'ingerenza fu accettata da alcuni, essa mancava di qualsiasi giustificazione storica o politica. Quella crisi condusse alla sottomissione della maggioranza dei baschi, mentre altri ne trassero beneficio. In ogni caso dette origine alla reazione politica che chiamiamo nazionalismo, i cui obiettivi principali non sono stati ancora raggiunti.
La frustrazione e anche la coscienza storica di essere un popolo negato, che non ha potuto sviluppare liberamente la sua lingua e la sua cultura o trasformare in completa libertà la propria organizzazione politica e sociale, è ancora molto viva tra i baschi di oggi e proviene direttamente da quella perdita. Sebbene gli abertzale possono essere divisi e difendere soluzioni politiche differenti (dal collaborazionismo con lo Stato alla lotta armata) o possono lavorare per differenti modelli di società (il capitalismo neoliberale, il cooperativismo, il socialismo o la socialdemocrazia), è indubbio che vi sia un substrato nazionale negato che li unisce ed identifica ancora.
Fin quando non si correggerà questa negazione, finché non si farà giustizia riparando agli effetti dell'abolizione delle libertà basche, se i baschi continueranno a dipendere dalle leggi e dal diritto di altri stati, sarà difficile che vi siano relazioni politiche normali. Ciò significa che il cammino per la vera pace, la soluzione del conflitto che ha causato migliaia di morti dall'800, passa attraverso il riconoscimento totale dell'identità, della territorialità e dei diritti storici dei baschi da parte dei governi spagnolo e francese, e l'accettazione che i baschi possano esercitare il diritto ad autodeterminare il proprio status politico.
Senza dubbio questo sembra difficile, permanendo eguale a quella di sempre l'attitudine degli Stati e delle classi dominanti basca, spagnola e francese, o comunque molto simile a quella del XIX secolo. Si continua a tenere in piedi un colonialismo mimetizzato, con la scusa che alcuni baschi preferirebbero appartenere alla Spagna o alla Francia. Ma, affinché possa costruirsi un futuro di pace ed armonia stabile all'interno di quel progetto di comunità che si chiama Unione Europea, è fondamentale che gli stati riconoscano la storia e facciano i primi passi necessari per riparare al danno causato dal loro intervento dal 1789 (la Francia) e dal 1839 (la Spagna) fino ad oggi, vero ed unico responsabile della situazione attuale.
LA
SINISTRA ABERTZALE TRA NAZIONE E CLASSE
torna in alto
di Josemari Lorenzo Espinosa
Una preoccupazione molto attuale nella sinistra di qualsiasi latitudine è quella di dibattere attorno alla propria identità. Tenendo conto di quanto accaduto nei paesi dell'Est d'Europa, è una preoccupazione condivisibile. Questa inquietudine, logicamente, riguarda anche la sinistra basca, ma nel nostro caso coincide con un'altra meno attuale ma non per questo meno preoccupante: il superamento dell'apparente contrasto fra socialismo e nazionalismo. Il nazionalismo basco ha ritardato molto nel sistemare i suoi contenuti sociali, dei quali i suoi fondatori si occuparono molto poco. Sebbene lo stesso si potrebbe dire del marxismo e dei suoi fondatori, per la loro scarsa e a volte sbagliata attenzione alla questione nazionale. Sarebbero state pertanto le generazioni successive quelle che avrebbero aperto e sviluppato i dibattiti che mancavano per completare le rispettive fondazioni. Nel nostro caso, nonostante l'esistenza di alcuni importanti precedenti negli anni venti e trenta, questa riflessione non si produsse in modo sistematico fino agli anni sessanta e all'interno di quel gruppo di militanti di Euskadi Ta Askatasuna (Krutwig, Txillardegi, i fratelli Etxebarrieta), che da allora diedero forma ideologica alla sinistra abertzale.
Un articolo di Federico Krutwig, apparso nella rivista "Branka" nel 1966 con il titolo "Nazionalismo rivoluzionario", dava inizio alla serie di saggi riguardanti l'applicazione di questa forma di lotta antimperialista alla realtà basca. Tra quella data e il 1970 la rivista "Branka", animata da Krutwig e Txillardegi, dibatté ampiamente, sebbene ancora in ambiti ristretti a causa della clandestinità, questa questione che prese il nome di Fronte Nazionale Basco. Finalmente, sarà la V Assemblea di ETA (1966-67) che otterrà di incorporare al bagaglio ideologico basco, grazie ai fratelli Etxebarrieta, i fondamenti di questo tipo di nazionalismo.
Le radici del nazionalismo rivoluzionario provengono dallo stesso Lenin e da Bakunin. Krutwig inizia dall'esposizione degli errori di Engels nel subordinare la lotta nazionale dei popoli oppressi alla congiuntura della lotta operaia mondiale, nonostante che questa avesse luogo in nazioni occupate o colonizzate. Engels si opponeva, ad esempio, alle rivendicazioni nazionali dei cechi e di altri popoli slavi sotto il dominio austro-ungarico, perché i nazionalismi che esprimevano erano egemonizzati dalla borghesia e socialmente reazionari. In qualsiasi caso, vedeva nella lotta nazionale un mezzo per poter aiutare la lotta sociale solo molto indirettamente. Era convinto che i popoli piccoli, che non erano riusciti a conquistarsi uno stato, avrebbero dovuto rinunciare alle loro pretese e inglobarsi nei popoli più grandi indirizzando i propri sforzi verso la rivoluzione sociale.
Sarà Lenin ad introdurre importanti novità in queste considerazioni. Considerava la lotta nazionale come lotta di liberazione di tutto il popolo, non solo della classe borghese e dei suoi interessi mercantili, sistemando così le basi teoriche del nazionalismo rivoluzionario. Lenin nota aspetti progressisti nei nazionalismi dei popoli oppressi e li differenzia dai nazionalismi imperiali/imperialistici delle grandi potenze. Queste osservazioni aiuteranno a dare dalle fila del marxismo un senso alla questione nazionale. Il fondatore dello Stato Sovietico, che intrattenne un pubblico dibattito con Rosa Luxemburg circa questa questione e che richiese a Stalin nel 1913 un non meno famoso studio sulla questione nazionale ed il marxismo, pensava che i socialisti dovessero appoggiare la lotta di liberazione nazionale dei popoli oppressi e che i socialisti e i comunisti, appartenenti alla nazione che opprime, devono comprendere il giusto diritto nazionale degli oppressi. I partiti operai sarebbero obbligati, secondo questo criterio, a difendere e a predicare il diritto all'autodeterminazione. Questa posizione è il nucleo dell'internazionalismo proletario, secondo uno dei suoi principali teorici, Lenin.
La dottrina leninista definisce il diritto all'autodeterminazione come il diritto di un popolo oppresso a separarsi dallo stato oppressore e a creare il proprio stato. Se i partiti comunisti negano questo diritto negano l'essenza dell'internazionalismo proletario. Partendo dalle teorie leniniste, dopo il 1945, si svilupperà in tutto il mondo colonizzato l'influenza dei partiti comunisti in generale e del nazionalismo rivoluzionario in particolare. Il nazionalismo rivoluzionario sarà da allora una forma di lotta contro l'imperialismo alla quale parteciperanno i comunisti, i socialisti e altri settori della sinistra, nei popoli sottomessi all'imperialismo (come fase superiore dello sviluppo del capitalismo) alleati ad altre classi interessate alla liberazione nazionale. In modo che con questa lotta e data la composizione delle alleanze, si possa realizzare allo stesso tempo la libertà nazionale e sociale. Gli esempi degli anni sessanta furono quelli che segnarono il cammino, nel momento in cui sembravano aver ottenuto la liberazione nazionale e sociale: Cina o Cuba, e soprattutto la lotta del Vietnam contro gli Stati Uniti.
LA RIVOLUZIONE BASCA
Senza dubbio nel caso basco non emergono così chiaramente le caratteristiche terzomondiste e le fasi imperialiste che, come per Cuba, Cina e Vietnam, sostenevano la nascita del nazionalismo rivoluzionario. In primo luogo, lo sviluppo materiale della società basca non permetteva l'esatta applicazione di modelli sovversivi pensati per società contadine sottosviluppate e supersfruttate dalle multinazionali di un paese straniero. Nello sviluppo basco, sebbene sotto lo stato spagnolo, molti baschi di origine e nome apparivano come beneficiari dello sfruttamento sociale dei lavoratori. Una buona parte dei quali inoltre era di origine spagnola.
In questa situazione, che rompeva lo schema storico del nazionalismo rivoluzionario, risultava problematico che militanti della sinistra spagnola potessero comprendere la situazione basca come assimilabile a quella dei paesi colonizzati che, a partire dagli anni 50, erano in pieno processo di liberazione nazionale. In questi casi il nazionalismo rivoluzionario era perfettamente leggibile poiché la situazione coloniale era intimamente legata allo sfruttamento sociale. Nel caso basco, al contrario, la partecipazione di elementi della stessa nazione basca allo sfruttamento sociale come protagonisti e beneficiari, rendeva più complicata l'applicazione del nazionalismo rivoluzionario e l'apparizione di un Fronte di Liberazione Nazionale. Peggio ancora: il ruolo giocato dall'oligarchia di origine basca nella costruzione della Spagna come Stato-nazione, dalla fine del secolo passato, aggiungeva una dimensione irregolare e altra confusione teorica nei dibattiti attorno alla liberazione nazionale.
Secondo il nazionalismo rivoluzionario, la lotta nazionale contro l'occupazione straniera unisce forze sociali differenti, con diversi interessi, che difficilmente si uniscono senza l'esistenza di un nemico comune. Per questo il nazionalismo rivoluzionario cercherà di propiziare gli elementi di unione, gli interessi nazionali comuni con la classe borghese e durante la fase indipendentista, aggiungerà gli elementi linguistici, culturali ed anche emotivi che possano aiutare l'avvicinamento alla borghesia nazionale, lasciando in secondo piano le differenze e gli antagonismi di classe. Nel nazionalismo rivoluzionario si incontrano elementi della piccola e media borghesia o classi medie professionali di ideologia borghese, che con il proletariato difficilmente potrebbero andare più in là della fase iniziale.
Questo fatto è la principale differenza tra nazionalismo rivoluzionario e nazionalismo borghese o rivoluzione sociale intesi separatamente. La lotta del nazionalismo rivoluzionario, per raggiungere il doppio obiettivo della liberazione nazionale e della rivoluzione socialista, si struttura in forma differente rispetto alla sola lotta proletaria per la rivoluzione socialista. L'elemento che li defferenzia è che mentre il proletariato di un paese indipendente lotterà contro un nemico interno, che fa parte della stessa nazionalità, lingua, cultura, costumi, leggi o storia (e che pertanto ha un stessa visione generale esistenziale di base sebbene subalterna e distinta secondo le classi di appartenenza), per i popoli colonizzati intesi come insieme nazionale il nemico principale è lo sfruttatore straniero. In questi casi di imperialismo tradizionale, lo straniero occupante è anche e allo stesso tempo, sfruttatore sociale, a volte in alleanza con altre classi o capi indigeni, ma sempre perfettamente definiti come l'altro, lo straniero, l'invasore.
Nei casi storici di nazionalismo rivoluzionario c'è un nemico oggettivo, nell'insieme sociale e nazionale, lo Stato straniero occupante. Nel caso basco, dalla nascita del nazionalismo con Sabino Arana, si comincia a parlare dello spagnolo come dello straniero e uno dei massimi interessi di Sabino Arana era quello di evitare ad ogni costo l'integrazione sociale degli immigrati, impedire la confusione di razze e di concetti nazionali. Ma il nazionalismo basco ha solo potuto ostacolare occasionalmente questa identificazione e confusione. L'importante presenza di spagnoli nella società basca, accelerata dalla sparizione dei "fueros" e dalla industrializzazione, ha reso impossibile la separazione tra le due etnie e molto complicato il superamento del problema sociale da parte dei nazionalisti, e anche il contrario. Come conseguenza, si sono sviluppati dibattiti e differenze attorno alla lettura "coloniale" di Euskal Herria, o attorno al problema di chi sarebbe il soggetto dello sfruttamento sociale. E anche se questo soggetto coincide esattamente con quello dello sfruttamento nazionale, una delle premesse fondanti del nazionalismo rivoluzionario.
Il nazionalismo rivoluzionario presenterà come principale innovazione strategica la possibilità di accettare un'alleanza tra la classe oppressa e quella oppressora, dentro le proprie frontiere nazionali. Per questo tiene presente che, oltre lo sfruttamento sociale ed economico, la classe operaia sopporta anche un'oppressione nazionale. Si tratterebbe di un marxismo antidogmatico, nel quale ogni contraddizione differente deve essere risolta con metodi differenti. Oppure, che è lo stesso, ogni situazione concreta necessita di un'analisi concreta. Senza rinunciare al principio secondo il quale in ogni società capitalista la contraddizione principale è quella che mette di fronte la borghesia ed il proletariato, nei casi di colonialismo, questa contraddizione è superata da quella che oppone il popolo occupato allo Stato occupante. Secondo Mao: "in una nazione in lotta contro un nemico straniero la lotta di classe prende la forma della lotta nazionale, e sotto questa forma si manifesta la sua unità". Vale a dire, il nazionalismo rivoluzionario ritiene che in caso di invasione, ,guerra o aggressione, le differenti classi si debbano unire per far fronte all'invasore. Lo scontro fra occupante e occupato si converte congiunturalmente nella contraddizione principale e tutte le contraddizioni di classe all'interno del paese, compresa quella principale, retrocedono momentaneamente in secondo piano e occupano una posizione subordinata.
Seguendo le posizioni teoriche di autori come Lenin e Mao o i teorico vietnamiti dell'epoca, i nazionalisti di sinistra degli anni sessanta cercarono una applicazione del nazionalismo rivoluzionario al caso basco. L'azione di questo tipo di nazionalismo si indirizzava in primo luogo ad assumere la lotta nazionale, con il fine di sviluppare la contraddizione fondamentale nei settori borghesi baschi ed attrarli in una alleanza nazionale. Pretendeva anche di sviluppare la stessa contraddizione nei gruppi della sinistra spagnola, che avrebbero dovuto scegliere tra mettersi dalla parte degli interessi della borghesia o accettare le posizioni leniniste appoggiando l'autodeterminazione dei colonizzati, tra i quali vi era anche una classe operaia sofferente, una doppia dominazione.
COSCIENZA DI CLASSE NAZIONALE
Le teorie attorno al fronte nazionale di classe furono il risultato degli sforzi e dei dibattiti del periodo della V Assemblea di ETA. In sostanza consistevano nell'applicazione del nazionalismo rivoluzionario alla realtà basca. In un "Informe" preparato per la V Assemblea, redatto dai fratelli Etxebarrieta, si condensava questo contributo. José A. Etxebarrieta e suo fratello Txabi, ottimi conoscitori dei testi di Lenin e delle posizioni terzomondiste-maoiste riguardo il fronte nazionale di classe, dettero forma definitiva all'"Informe" i cui principali elementi si discussero durante le due parti della V Assemblea.
Vi si diceva che "non basta una coscienza di classe, non basta una coscienza nazionale, è necessaria una coscienza di classe nazionale visto che soffriamo sia l'oppressione capitalista sia quella imperialista".
Le proposte dell'"Informe" erano dirette a superare le tendenze di una integrazione di ETA in un fronte di classe spagnolo di sinistra, che minacciava di liquidare il contenuto nazionalista dell'organizzazione. In questo documento e in un altro testo, denominato "Ideologia Ufficiale di Y", redatto da Txabi per la rivista "Zutik" nel 1967 si trova il primo tentativo teorico di dotare ETA di una linea teorica che potesse conciliare nazionalismo e socialismo, sebbene la paternità di questo tentativo ha il suo primo esempio molti anni prima. Dal 1923 Eli Gallastegi "Gudari" (prima su "Aberri" e poi su "Jagi-Jagi") sviluppò un ampio dibattito all'interno del nazionalismo in favore del riconoscimento della lotta di classe. Gallastegi mostrò pubblicamente la propria solidarietà con i comunisti vittime della Guardia Civil e fu vittima di censure da parte dei settori più reazionari del nazionalismo. In un dibattito che seguì a questa reazione, "Gudari" teorizzava attorno alla doppia liberazione e alla coscienza nazionale di classe.
Anni dopo, nel 1962, José Antonio Etxebarrieta esiliato a Donibane (nel Paese Basco francese) visse per un anno nella casa dei Gallastegi. Al ritorno nel sud di Euskal Herria, il pensiero del giovane avvocato abertzale che divenne membro della direzione di ETA contribuì a dotare questa organizzazione, e tutto il movimento della nascente sinistra abertzale, di uno strumento di analisi politica nel quale si raccolgono tutti gli elementi principali del nazionalismo di Gallastegi e le formule della liberazione nazionale del marxismo-leninismo. Fu il fratello Txabi, poi primo caduto dell'organizzazione, che coniò la definizione di ETA come movimento Socialista Basco di Liberazione Nazionale, nella quale appare per la prima volta il concetto socialista come denominazione di un settore del nazionalismo basco. Sempre a Txabi Etxebarrieta si deve il concetto di "popolo lavoratore basco", dove popolo è quella parte socialmente oppressa di una comunità nazionale. Ma nel caso basco, popolo è "l'insieme della nazione basca di fronte allo stato oppressore".
Questo stato oppressore è al servizio dell'oligarchia economica e all'interno di questa si trova anche la borghesia di origine basca che, per tanto, ripone i propri interessi nazionali fuori da Euskal Herria ed è così "obiettivamente straniera e oppressora". Il proletariato basco è oppresso sia nazionalmente che socialmente da una classe alla quale appartengono borghesi spagnoli e baschi di origine che per la loro attività politica ed economica si sono "snaturalizzati"; la prova è il loro spagnolismo. La borghesia di origine basca, che si integra come classe sociale nella borghesia spagnola, non ha alcun interesse nella lingua e cultura basca, nell'indipendenza e nel recupero della sovranità. Questa borghesia fa parte dell'alleanza di classe che storicamente rese possibile la perdita delle libertà basche e di conseguenza la nascita della questione basca.
Su questo piano, il concetto di popolo lavoratore basco, coniato da Txabi Etxebarrieta rappresenta nella storia il superamento del falso scontro fra due comunità di diversa origine etnica, che invece si incontrano nello stesso ideale rivoluzionario, sociale e nazionale. Gli immigrati spagnoli furono considerati a partire dagli anni sessanta non per la loro origine, bensì per la loro attitudine nei confronti della questione basca e per l'apporto dato ai processi di liberazione nazionale e sociale del popolo basco, nel quale si integrarono maggioritariamente. Il razzismo latente nei primi passi del nazionalismo basco verrà sostituito da una valutazione etnica e sociale differente. Basco sarà chiunque, immigrato o no, che "venda la sua forza lavoro in Euskal Herria" e che "voglia essere" basco. Cioè, apprendere la lingua, riconoscere la sua cultura e i suoi costumi, insomma favorire e non opporsi al processo di recupero dell'identità basca e dei suoi diritti storici. Da allora, migliaia di immigrati e dopo i loro figli nati in Euskal Herria si integreranno nella nuova società basca, in condizioni di uguaglianza, dando vita a quello che senza dubbio costituisce il fenomeno sociopolitico più importante della storia basca dai tempi della rivoluzione industriale.
Txabi Etxebarrieta, contemporaneo di questo processo e animatore del "fronte operaio" di ETA, è anche l'autore di un articolo alla vigilia dell'Aberri Eguna (9) del 1967, che mette in risalto l'unione tra la festa dei lavoratori del Primo Maggio e della Festa della Patria (di qualche giorno precedente) provando che la lotta operaia è anche lotta nazionale.
Secondo Txabi "tutti gli oppressori del mondo sono identici: il colonialismo e l'imperialismo, che creano i problemi nazionali dei popoli, sono conseguenza del sistema capitalistico". " Nostri padroni e signori sono gli stati francese e spagnolo. Tutti sappiamo che sono capitalisti e che per favorire i loro interessi incatenano Euskal Herria".
Quindi l'obiettivo finale del nazionalismo rivoluzionario in Euskal Herria sarà il socialismo basco, che si realizzarà dopo aver "liquidato la forza degli stati capitalistici francese e spagnolo, inclusi alcuni capitalisti di origine basca che con loro collaborano" perché "il capitalismo non è solo nemico dell'uomo ma anche del popolo".
La proposta del nazionalismo rivoluzionario dei fratelli Etxebarrieta rappresentava la piena identificazione dei problemi sociali con quelli nazionali, cui unico portatore e soggetto può essere solo la classe operaia, interessata alla doppia liberazione perché è l'unica che soffre una doppia oppressione (nazionale e sociale). Non si può parlare di facce della stessa moneta, ma di piena simbiosi tra le due lotte, fino ad allora separate per errore. Il nazionalismo rivoluzionario si converte così nella risposta alla fase imperialista del capitalismo.
Dopo i fratelli Etxebarrieta verrà dall'interno di ETA un altro dei teorici che più ha dato all'integrazione della questione nazionale con quella sociale. Si tratta di Jose Miguel Benaran "Argala", che portò nella pratica politica le acquisizioni teoriche della V Assemblea e tracciò il profilo del nazionalismo di sinistra (sinistra abertzale) negli anni settanta. Secondo "Argala" "ciò che unisce i lavoratori di ogni latitudine è l'appartenenza ad una stessa classe e non ad una nazione".
Da questo punto di vista, la lotta dei lavoratori baschi per la loro liberazione (nazionale e sociale) si inserisce in tutto il processo rivoluzionario globale. Qualunque rivendicazione o conquista che si possa ottenere in questa lotta appartiene ad una lotta mondiale contro l'imperialismo e contribuisce alla lotta di classe e di liberazione nazionale che portano avanti gruppi e fronti di liberazione nazionale di ogni parte del mondo, perché il nemico è lo stesso: il capitalismo imperialista e i suoi distinti rapresentanti.
La figura di "Argala" ed il suo pensiero politico e sociale appartengono ad un periodo di chiarimento di tutto il processo di dibattito attorno al nazionalismo rivoluzionario all'interno di ETA ed in tutta la sinistra abertzale. Per giungere a questo momento si sono prodotti una infinità di dibattiti, proposte teoriche, scissioni e riunificazioni che riflettono e caratterizzano il dinamismo politico della società basca degli anni sessanta e settanta, senza dubbio fra i più ricchi dal punto di vista politico della nostra storia recente.
L'ACCORDO NAZIONALE BASCO
La fase attuale si distingue per un avvicinamento congiunturale fra le distinte forze abertzale: PNV-EAJ (10), Eusko Alkartasuna (11) ed Herri Batasuna (12), con la partecipazione di gruppi che, come i comunisti baschi dei PCE-EPK (13) o IU (14), hanno oscillato storicamente tra il federalismo ed il centralismo. La proposta avanzata da Herri Batasuna nel maggio del 1998 per discutere una base di accordo che, superando l'attuale status costituzionale-statutario, dia inizio alla costruzione nazionale basca nel momento in cui si cerca il riconoscimento del diritto all'autodeterminazione e alla territorialità, è stata accettata nell'Accordo di Lizarra-Garazi (15), firmato da più di trenta organizzazioni fra partiti, sindacati e movimenti sociali, ecc.
Se prendiamo in considerazione quanto detto anteriormente si può ben capire che questo documento ed il possibile scenario di incontro che si potrebbe aprire tra le forze interessate alla soluzione democratica del problema nazionale basco, discende dalle teorie del nazionalismo rivoluzionario degli anni sessanta. Il progetto dell'Accordo Nazionale potrebbe essere applicazione coerente e attualizzata di quello che Eli Gallastegi chiamò allora "fronte nazionale di classe" e la V Assemblea denominò "Nazionalismo Rivoluzionario". Dobbiamo ricordare che venti anni fa fu iiproprio "Argala", insieme a Telesforo Monzon, colui che si sforzò di arrivare ad un accordo di questo tipo fra le diverse forze abertzale. Un'applicazione attualizzata di questo progetto è costituita dalla strategia definita oggi della sinistra abertzale, come appunto la nascita di Euskal Herritarrok (16).
Se osserviamo il programma presentato da questo raggruppamento per le elezioni della CAV del 25 ottobre, possiamo leggere la sostanza delle rivendicazioni storiche del nazionalismo basco di sinistra. In primo luogo, il diritto all'autodeterminazione insieme al riconoscimento della territorialità basca, ma anche le rivendicazioni sociali che oggi portano avanti sindacati e partiti di sinistra di tutta Europa. Ovvero, la riduzione della giornata lavorativa, il salario sociale, la ripartizione del lavoro e della ricchezza, ecc. Questo prova che la sinistra abertzale basca ritiene che non solo abbiamo un problema nazionale da risolvere ma che in più lottiamo contro la stesse disugualianze sociali che il sistema capitalista provoca nel resto dello stato spagnolo e d'Europa.
Non potrebbe essere altrimenti, visto che l'Accordo Nazionale non è un patto con la destra per nascondere le rivendicazioni sociali e del mondo del lavoro. L'Accordo non annulla le distanze sociali e non nega né rinnega la lotta di classe. Fa suo solamente il principio dei fronti nazionali di liberazione che abbiamo in precedenza citato, secondo il quale in un paese occupato la lotta di classe prende la forma della lotta nazionale. E così, deve esserci una prima fase di collaborazione di classe per la costruzione e liberazione nazionale. Ma in questa collaborazione, come il programma di Euskal Herritarrok anticipava e l'attività dei suoi eletti dimostrerà, non si annacqua né si dimentica affatto alcuna delle rivendiczioni sociali ed economiche che riguardano lavoratori, disoccupati, giovani, donne, ecc.
D'altra parte, uno dei pilastri del programma di Euskal Herritarrok e dell'Accordo Nazionale è rappresentato dal diritto all'Autodeterminazone. Si tratta in questo caso di uno strumento democratico valido non solo per le questioni coloniali o di imposizione nazionale, ma anche per il progetto di emancipazione della classe lavoratrice. Il diritto di autodeterminazione come diritto dei popoli a decidere del proprio status politico ha una estensione inevitabile nelle questioni sociali. Già la carta atlantica del 1941, pensando alla liberazione dei popoli d'Europa sottomessi al fascismo sanciva il diritto delle nazioni a scegliere anche la forma di governo. In questa forma politica di liberazione i lavoratori incontrano anche il modo per avanzare sul piano della conquista sociale dell'uguaglianza e della divisione della ricchezza, mettendo fine alle strutture del capitalismo selvaggio e potendo autodeterminarsi, al tempo stesso, dal punto di vista sociopolitico come persone e come popolo.
NOTE
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