Nessun lavoro, nessuna dimora, nessun futuro: i rifugiati palestinesi in Libano.
L'articolo illustra le drammatiche condizioni di vita quotidiana di coloro che abitano i campi profughi in Libano. Di Rosemary Sayigh da "Middle East International". Traduzione dal francese di Sandra Piraccini. Dicembre 2001.

Nonostante la mancanza di sicurezza sia una caratteristica di tutte le comunità palestinesi ovunque si trovino (dai Territori Occupati del Negev all'Australia fino a Glasgow), la loro situazione in Libano è unica per quanto riguarda l'esclusione politica, economica e sociale.
Poiché il trasferimento, cioè lo stanziamento definitivo, è formalmente proibito dalla costituzione libanese, tutti i Palestinesi in possesso di una carta d'identità di "rifugiato" corrono il rischio di essere trasferiti. Nel frattempo, i loro diritti civili sono schiacciati da leggi e provvedimenti il cui fine, anche se non dichiarato, è di rendere la vita dei Palestinesi così insopportabile da far loro preferire la partenza. L'Intifada ha sì generato dei cambiamenti in alcuni ambiti, in particolare la percezione da parte dei mezzi di comunicazione, ma non ha ottenuto alcun risultato in altri e più importanti settori, fra cui le inumane condizioni di vita che i rifugiati devono affrontare nei campi.

Ad Amman, nel marzo scorso, il presidente Lahoud glorificava l'Intifada assieme ad altri leader arabi, ma l'assedio dei campi da parte dell'esercito nel sud del paese continua come prima.
L'ex-presidente dell'OLP Shafiq al Hout ha riassunto nel migliore dei modi le contraddizioni libanesi nell'espressione "Con i Palestinesi, contro i Palestinesi".
La scorsa settimana, il poeta palestinese israeliano Samih al-Qassem è stato invitato ad un festival culturale di Beirut ed è stato premiato dal presidente, il cui intervento personale è stato necessario per autorizzare la partecipazione di Qassem. Ciò fa parte di un cambiamento radicale che si manifesta negli eventi culturali e nei media libanesi e che dà all'Intifada una copertura totale da parte dei mezzi di comunicazione, in particolar modo tramite Al-Safir per i giornali e Minar (un Hezbollah) per i canali della televisione (anche la NBN ha un corrispondente stabile a Gerusalemme). Inoltre, alcuni interlocutori palestinesi sono spesso invitati a prendere parte a dei talk show politici. Come conseguenza dell'Intifada, è stata anche soppressa la campagna contro i Palestinesi locali, che aveva raggiunto il suo apice l'anno scorso. L'espressione "isola di sicurezza" utilizzata per suggerire l'illegalità e il pericolo nei campi è passata di moda. Tuttavia, questa apertura dei media non ha avuto nessuna ripercussione sui regolamenti contro i rifugiati.

Le restrizioni attualmente più deplorevoli impediscono ai rifugiati di esercitare certe professioni specializzate o semi-specializzate e alcune attività in ambito pubblico. Queste leggi discriminatorie sono la causa dell'alta percentuale di lavoratori palestinesi sfruttati o disoccupati e dell'estrema povertà in cui vive un numero sempre più grande di famiglie. Un'intera classe della società palestinese professionale e commerciale, fortemente ridotta, sopravvive o collaborando con la controparte libanese e accettando salari minimi, o isolandosi all'interno dei campi. Nonostante oggi il sentimento anti-palestinese dei Libanesi sia meno violento rispetto agli anni Settanta e Ottanta, i rifugiati continuano ad essere socialmente più esclusi in Libano di quanto non lo siano in altri paesi arabi che li accolgono: un recente studio dello scienziato politico Simon Haddad ha rilevato che il 65% dei Libanesi non aveva nessun contatto con i Palestinesi, e che solamente il 18% risultava avere un conoscente palestinese. Le persone intervistate appartenevano alle sei principali correnti religiose, inclusa quella dei Sunniti che conta al suo interno il maggior numero di Palestinesi.
Con la crisi economica libanese, la disoccupazione dei Palestinesi continua ad aumentare. Un'indagine condotta dall'istituto di ricerca norvegese FAFO nel 1999 e non pubblicata, rilevava poca differenza fra il Libano e la Giordania riguardo il livello di disoccupazione palestinese (17% contro 16%). Anche se è lecito domandarsi se i criteri utilizzati dalla FAFO per la sua indagine siano in grado di fornire un'immagine corretta della situazione dei rifugiati in materia di "lavoro e salario", rimane comunque indiscusso il fatto che il mercato del lavoro, da allora, ha continuato a diminuire. Durante un recente viaggio nei campi del Nord, del Sud, nella Bekaa, a Beirut e a Sidone, ho chiesto ai capi dei campi una stima riguardo i tassi di disoccupazione: le cifre variavano sempre fra il 60% e il 70%. Alcune persone appartenenti a diverse generazioni mi hanno raccontato delle storie che dimostrano come la maggior parte degli uomini che sono diventati adulti dopo il 1982 non hanno mai esercitato una professione corrispondente alla loro formazione. I piccolo lavori integrativi che trovano non durano mai più di qualche settimana. Un giovane del campo di Wawell con un diploma in filosofia non è ancora riuscito a trovare lavoro, dopo aver finito gli studi dieci anni fa. È tristemente ironico constatare che, nonostante questa generazione abbia potuto approfittare di opportunità di istruzione e formazione migliori rispetto ai loro nonni - la generazione della Naqba - sono ancora i più anziani che riescono a trovare lavoro e a risparmiare per istruire i loro figli. Ziad, un ingegnere che vive a Bourj el-Barajneh descrive così la situazione: "Mio padre non era istruito e tuttavia è riuscito a far vivere la famiglia in maniera dignitosa e ad assicurare a me e a mio fratello un alto livello di istruzione. Io sono ingegnere ma non sono in grado di avere una casa mia e di sposarmi" (riportato da Bandik Sorvig nella sua tesi di DEA ("Exile Without Refuge", Università di Oslo, 2001, p.66).

Questa politica di Stato restrittiva è forse autorizzata, incoraggiata o semplicemente ignorata da Damasco? La Siria cerca di controllare il focolaio di conflitti costituito dalle sette libanesi per non crearsi i nemici che sarebbero inevitabilmente provocati da alleanze permanenti. La sua base politica è una coalizione di tre tendenze principali - i Maroniti, gli Sciiti e i Sanniti - e la componente maronita di questa combinazione è sempre sulle difensive nei confronti della sua "strada". Per questo i Maroniti, che sono partigiani del regime, hanno bisogno dei Palestinesi come vittime per dimostrare i loro riferimenti settari. Le armi nei campi generano un "pericolo palestinese" che è bene giustificare con la presenza dell'esercito siriano nella "strada Maronita". Ciò è stato chiaramente dimostrato da Michel Murr, ex-ministro degli Interni, quando menzionò in un discorso che giustificava l'intervento siriano e "la presenza di 300.000 Palestinesi in Libano" (L'Orient/Le Jour, 18 aprile 2001). Dopo una settimana, Murr sottolineava di nuovo questa connessione, affermando che la ritirata siriana doveva essere rinviata fino ad un regolamento palestinese, cioè il loro trasferimento (Cyber News Center, 27 aprile, 2001). La politica siriana nei confronti dei Palestinesi è oggetto di frequenti discussioni: se la Siria ha bisogno dei palestinesi come "pedine" in Libano, perché non utilizza la propria influenza per migliorare il loro statuto e le loro condizioni di vita? Salah Salah, ex-membro dell'Ufficio Centrale del FPLP, offre il suo punto di vista: "Ci sono due linee direttive siriane: le armi restano nei campi e l'esercito libanese ne resta fuori". Per il resto, il governo libanese è libero di fare ciò che vuole. Salah Salah pensa che Damasco non abbia nessun interesse particolare nelle condizioni dei Palestinesi in Libano o nel suo alto livello di emigrazione. Inoltre, la Siria ritiene il Libano responsabile di aver reso la vita dei Palestinesi impossibile, allo scopo di prepararli ad accettare qualsiasi soluzione, o la "towteen" (termine arabo che designa lo stanziamento permanente dei rifugiati palestinesi in Libano) o l'emigrazione. Questo atteggiamento minimizza i benefici economici e politici che la Siria ottiene dai suoi lavoratori in Libano, la cui libertà di lavoro, oltre al diritto alla sicurezza sociale, si applica anche a scapito dei Palestinesi.

Questa marginalità palestinese è dimostrata anche da una recente tendenza siriana a favore di Al Fatah, che era precedentemente esclusa dai campi palestinesi, eccetto quello di Rachidieh. Il desiderio di Damasco di costruire dei buoni rapporti con i Maroniti e di mantenere dei contatti pacifici con gli Sciiti, esclude in generale ogni manifestazione a sostegno dei Palestinesi. Comunque, l'ascesa di Sharon al potere ha chiuso le porte alle negoziazioni tra la Siria e Israele e ha inflitto un forte colpo allo scacchiere regionale, con la conseguente possibilità di un'alleanza strategica OLP-Libano-Siria. Nonostante si tratti di un asso nella manica per Arafat, piuttosto che di uno sviluppo imminente, si sono già verificati nei campi libanesi delle mobilitazioni in massa di partigiani di Arafat. Un simile passo compiuto dai Siriani può allontanarli dal nucleo maronita ma, dopo la visita del patriarca Sfeir nell'America del Nord la scorsa primavera, hanno forse deciso che corteggiare i Maroniti è un gioco perduto in partenza. Sotto la minaccia di Sharon, sembrano giocare - forse temporaneamente - la carta palestinese.

"Poco importa chi vince, i Palestinesi perdono". Questa è la sintesi appropriata della posizione strutturale libanese nell'arena politica che impone ai rifugiati il ruolo di pedine o di capro espiatorio. Tutto ciò è dimostrato dalla loro relazione con gli Hezbollah. Gli Hezbollah cooperano coi gruppi di resistenza che ritengono allineati sulle loro posizioni ideologiche e la loro componente civile distribuisce gli aiuti nei campi; inoltre, controbilanciano il movimento anti-palestinese Amal con la "strada" sciita. Tuttavia, contemporaneamente e per motivi elettorali e regionali, gli Hezbollah collaborano con Berri, il leader di Amal. I Palestinesi non hanno niente da offrire agli Hezbollah, mentre il Partito di Dio è disturbato dalle sue relazioni con la Siria, con l'Iran e con la componente sciita, indipendentemente dagli impulsi politici e umanitari.

Le regole riguardo l'assunzione dei Palestinesi risalgono all'inizio dell'esilio in Libano, nonostante non siano mai state così restrittive come adesso. In seguito alla recente approvazione in Parlamento della revisione della legge 1164 del 1969 sulla detenzione di beni immobili da parte di stranieri, si è raggiunta una nuova forma di esclusione con la clausola che impedisce di essere proprietario "a chiunque non abbia una nazionalità in uno stato riconosciuto" (Qanun tamuluk al-ajanab, testo pubblicato da al-Safir, 23 marzo 2001). Questa clausola di esclusione colpisce principalmente i Palestinesi, che sono costretti a vivere nei campi a causa dei loro bassi salari e per la loro dipendenza dai servizi dell'UNRWA. La maggior parte dei Palestinesi della classe medio-alta ha acquistato un passaporto straniero o libanese per proteggersi da questa clausola discriminatoria. Poiché i confini dei campi non possono essere ampliati e le autorizzazioni a costruire all'interno sono ridotte al minimo, le famiglie palestinesi dei campi hanno ridimensionato il loro desiderio di espansione cercando di comprare degli appartamenti e dei lotti di terra all'esterno. Queste operazioni sono ormai illegali e le famiglie palestinesi sono costrette ad affittare le loro abitazioni in un periodo di intensificazione della povertà e con un governo che sta preparando un progetto di legge che libererà completamente gli affitti nei prossimi dodici anni (The Daily Star, 28 marzo 2001).

Il commento del rappresentante del FDPL (Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina), Fethi Khleib, riguardo la recente legge sulla proprietà, non è esagerato: "Gli unici diritti che restano ai Palestinesi del Libano sono il diritto alla resistenza e il diritto alla morte". Il diritto di morire, sì, ma non il diritto di essere sepolti. L'Organizzazione Palestinese dei Diritti dell'Uomo ha lanciato un grido di allarme riguardo la mancanza di spazio per l'inumazione dei Palestinesi. La morte ha rivelato un altro aspetto deprecabile della legge che esclude i Palestinesi dal diritto alla proprietà. Mentre prima, in caso di decesso, i rifugiati palestinesi segnalavano il defunto presso i registri del governo e ottenevano semplicemente un certificato dal tribunale religioso che nominava gli eredi, questa transizione è ora illegale. Una delle prime Istituzioni a reagire è stata la Camera di Commercio di Sidone, che ha anticipato una reazione più diffusa, poiché quasi il 60% dei beni immobili di Sidone appartengono a Palestinesi. La maggior parte dei beni palestinesi non sono stati registrati poiché i diritti d'iscrizione per i non libanesi erano, fino ad oggi, proibitivi.
Nonostante dodici parlamentari abbiano rivolto al Majlis al- Dastouri una richiesta di revisione della clausola di esclusione in nome della sua incoerenza con certi decreti della legge libanese che bandiscono ogni forma di discriminazione, le Majlis ha ratificato la clausola. Questo fatto ha portato un Libanese ad affermare che niente in Libano è indipendente dallo Stato, almeno per quanto riguarda ciò che è giudiziario.
Quando si renderanno conto delle implicazioni di questa clausola di esclusione, i Palestinesi saranno più che pronti ad una serie di proteste, che già hanno avuto inizio nei campi di Ein el-Hilweh il 26 luglio.
Altre manifestazioni sono attese prima della sessione parlamentare speciale del 13 agosto, alla cui data è già stata rinviata la discussione sulla legge sulla proprietà. » stata abbozzata una nuova legge sulla proprietà che abrogherebbe la clausola di esclusione e che fin da ora beneficia della promessa di sostegno del blocco di Hariri, degli Hezbollah e dei partiti nazionali progressisti, che costituirebbero assieme la maggioranza. Ma nessuno può prevedere come questa questione si giocherà al momento dello scrutinio tra la Troika, i partiti, Damasco e altri elementi esteriori.

Ciononostante, prima della prossima sessione parlamentare, il sostegno libanese all'Intifada potrebbe cominciare a diffondere una posizione pro-palestinese: qualche importante gruppo politico, come gli Hezbollah e il Mimbar Dimukrati di Habib Sadek, gli Hezbollah - Sostegno ai diritti Civili dei Palestinesi e il Movimento del Rinnovo Democratico di Nassib Lahoud, potrebbero includere tale posizione nel loro programma. Le espressioni di disapprovazione dei leader politici contro le condizioni nei campi sono sempre più frequenti, e una parte del popolo libanese comincia ad ascoltare Sayyed Nasrallah che descriveva le condizioni nei campi come una "macchia sul volto libanese" (Al-A'hed, 9 aprile 2001). Nonostante Nasrallah, come nessun altro politico libanese, non possa permettersi di fare dei diritti civili dei Palestinesi una priorità in un paese schiacciato da una forte crisi economica, è possibile che la politica di stato basata sulla repressione e l'esclusione dei rifugiati diventi sempre più "costosa" in termini di opinione pubblica locale e straniera.

Un'azione legale internazionale sarebbe una possibilità di ricorso per i Palestinesi. In un suo recente articolo, pubblicato dall'Università di Lund (primavera 2000), Setter Aasheim ha collocato la legislazione libanese e i suoi regolamenti nei confronti dei rifugiati nel contesto delle leggi e delle convenzioni internazionali che riguardano il diritto al lavoro dei rifugiati e lo statuto delle persone senza patria riconosciuta. Per esempio, l'articolo 6 della Convenzione sui Diritti Economici, Sociali e Culturali (1966) riconosce il diritto dei rifugiati palestinesi a lavorare come stranieri che soggiornano in maniera stabile. Negando loro questo diritto, il Libano viola l'articolo 26 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici che ha lo scopo di evitare ogni forma di discriminazione. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, ironicamente ripresa dal filosofo libanese Charles Malik, conferma il diritto al lavoro, e questo diritto è applicabile ai non-cittadini di un paese. I non-cittadini, come i rifugiati, sono protetti da varie convenzioni internazionali come la Convenzione sullo Statuto dei Rifugiati (1951) e la Convenzione Internazionale sull'Eliminazione della Discriminazione Razziale. Il Libano non ha sottoscritto alcune di queste convenzioni e per questo, avviare azioni giudiziarie non sarà facile, soprattutto se a lamentarsi saranno alcuni Stati. Però, la procedura 1503 presenta una lacuna che autorizza dei privati o delle organizzazioni a fare ricorso alle Nazioni Unite in caso di abuso dei diritti dell'uomo, e se si forniscono prove di "evidenti violazioni dei diritti dell'uomo attestate da fonti sicure", l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati può avviare una missione d'inchiesta. Non dovrebbe essere difficile reperire simili prove per quanto riguarda la legislazione e i procedimenti libanesi nei confronti dei Palestinesi.

Tuttavia, la mancanza di sicurezza in Libano rende i Palestinesi diffidenti verso misure così radicali. Essi sono infatti profondamente consapevoli che la loro sopravvivenza è a mala pena tollerata e che l'"internazionalizzazione" della loro situazione farebbe solo aumentare l'ostilità nei loro confronti. D'altra parte, la combinazione attuale dell'Intifada, cioè l'acceso nazionalismo e la rabbia alimentata dalla legge sulla proprietà, può trasformare il clima dominante di sconforto passivo in sfida attiva. La forma di questa sfida consisterà probabilmente in una serie di azioni di protesta con la collaborazione di alcuni simpatizzanti libanesi: una simile sfida all'interno del sistema troverà un'eco positivo in un momento di crescente ostilità libanese nei confronti di Israele e degli Stati Uniti.

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