Israele:
t errorismo di stato.
Corrispondenza da Gerusalemme di Michel Warshawski sugli sviluppi della crisi
palestinese e dell'ANP. Da Rouge. Gennaio 2002.
La
storia ci dirà se l'anno 2001 ha segnato la fine inappellabile di una
possibile normalizzazione dello stato israeliano nel cuore del mondo arabo.
La formazione di un governo con a capo Ariel Sharon, appoggiato da più
di due terzi dell'elettorato ebraico, simbolizza, agli occhi dei dirigenti
dello stato israeliano, l'obsolescenza del "processo di pace" che
avrebbe dovuto portare alla fine dell'occupazione della Cisgiordania e della
striscia di Gaza. Arafat
non è più un interlocutore e ciò significa che il processo
negoziale cominciato ad Oslo non è più all'ordine del giorno.
La violenza scatenata dall'esercito israeliano cerca di destabilizzare l'Autorità
Palestinese, lasciandole solo la scelta della propria fine: accettare di trasformarsi
in una forza di supporto all'esercito israeliano promuovendo una vasta repressione
non solo rivolta contro i comandi islamisti, ma anche contro qualsiasi espressione
di resistenza alla occupazione israeliana; oppure respingere questo ruolo
miserabile, e passare nelle liste di Bush dallo status di rappresentanza inefficace
ma legittima del popolo palestinese a quello di organizzazione terrorista
incurabile. Sino ad ora il presidente degli USA esita a dare luce verde a
Sharon, che d'altro canto fa il possibile per convincere Washington che non
c'è nulla da sperare dalla Autorità Palestinese e dal suo capo. Ancora
una volta Arafat ha risposto con le manovre: ha arrestato qualche militante
delle liste inviate dalla CIA, e allo stesso tempo si rifiuta di attaccare
i partiti e le istituzioni islamiste o di opposizione, con le quali negozia
una sospensione degli attentati contro Israele. Se il governo di Israele cercasse
la sicurezza dei suoi cittadini, dovrebbe essere soddisfatto delle misure
prese da Arafat. Ma Sharon non è affatto preoccupato di provocare nuovi
attentati basta che questi spingano l'amministrazione americana a porre l'Autorità
Palestinese fuori gioco mettendo così la parola fine sul "processo
di pace". I palestinesi vorrebbero riprendere le negoziazioni sulla base
di quanto era stato ottenuto a Taba un anno fa. Vari dirigenti palestinesi
hanno appena pubblicato con deputati del Meretz e della sinistra laburista,
un documento comune che indica le grandi linee del possibile accordo. Arafat
ha dato il suo assenso. Ma Sharon e Peres si sono detti ferocemente contrari.
Al più il primo ministro israeliano ha autorizzato negoziazioni solo
con un cessate il fuoco totale. Se davvero accadesse tale miracolo, un dirigente
palestinese verrebbe assassinato in modo da provocare una risposta e provare
così che Arafat non è sincero nei suoi impegni di por fine alla
resitenza armata contro l'occupazione. Il proseguimento degli atti di violenza
israeliani è inevitabile, e di conseguenza anche la ripresa della resistenza
armata palestinese, che si è attenuata sensibilmente. Solo un intervento
internazionale può far cessare la violenza e imporre una ripresa dei
negoziati. Ma anche gli stati più critici di fronte alla politica israeliana,
come la Francia, continauno a comparare Israele con i Palestinesi, rifiutando
di assumere le iniziative di contrasto indispensabili, sanzioni ad esempio,
che aiuterebbero a far emergere un movimento di opposizione alla politica
di Sharon nel seno della società israeliana. La gravità della
crisi economica che attraversa Israele garantirebbe l'efficacia di tali sanzioni:
è disoccupato circa il 10% della popolazione attiva e secondo una nota
della Banca di Israele, circa il 10% delle imprese corrono il rischio di chiudere
nel 2002. L'insicurezza economica va oggi ad aggiungersi all'insicurezza provocata
dagli attentati e questa combinazione può a medio termine aprire gli
occhi a una parte dell'opinione pubblica che sino ad ora continua ad appoggiare
Sharon e la sua politica.