La
minoranza araba palestinese in Israele: la negazione di un'identità.
Per
gentile concessione dell'autore, pubblichiamo una sintesi e l'indroduzione
di uno studio sulla percezione identitaria e la situazione dei palestinesi
di Israele. Tesi di laurea di Majid Kanaana, Padova 1998-99, pubblicata nel
sito del "Centro Studi per la Pace". Maggio 2002.
è possibile scaricare lavoro completo cliccando kanana.pdf
pubblicato nel sito del "Centro
Studi per la Pace" Dall'inizio del secolo, i leader del movimento sionista hanno
negato che gli arabi della Palestina costituiscano un gruppo nazionale che
abbia diritti in essa. Introduzione
Come afferma Edward Said (1992), il movimento sionista va collocato nel contesto
culturale del XIX dell'Europa liberal, come del resto tutti i movimenti nazionalisti
europei. In quel clima culturale, era naturale per gli europei negare la presenza
dell'Altro, l'indigeno.
Nel caso particolare del movimento sionista, la negazione della presenza di
un popolo indigeno in Palestina, oltre all'atteggiamento di supremazia europea,
aveva anche altri motivi. In particolare, il fatto di riconoscere la presenza
di un altro gruppo nazionale in Palestina avrebbe messo in crisi il progetto
ideologico-nazionale sionista, cioè la creazione di uno stato focolare
ebraico in Palestina, e la sua giustificazione: "terra senza popolo per
un popolo senza terra".
I palestinesi, come nota E. Said, dopo il '48, scomparvero sia dal punto di
vista politico e nazionale che come soggetti giuridici: alcuni riapparvero
come "non ebrei", altri divennero "profughi", poi alcuni
hanno preso cittadinanza araba, europea o americana.
Con la creazione dello Stato d'Israele, definito stato degli ebrei, la politica
di rifiuto di vedere gli arabi come gruppo nazionale divenne istituzionalizzata.
Essi vennero considerati come delle minoranze religiose, e definiti con termini
come "non ebrei", Mussulmani, Cristiani, Drusi e beduini, e "l'ambito
arabo".
Inoltre, la Dichiarazione d'Indipendenza dello Stato d'Israele il 15 Maggio
1948, la Nakba (catastrofe) per i palestinesi, è stato l'evento più
drammatico di tutta la storia di questo popolo. Nel caso della minoranza arabo
palestinese in Israele, questo evento, che l'ha tagliata fuori dalla storia
e l'ha messa in un non-luogo, ha fatto si che questa comunità si sviluppasse
in modo anomalo o, come hanno sostenuto Rouhana e Ghanem (1998), seguisse
uno "sviluppo critico".
Un fattore importante nel definire il volto di questo gruppo, cioè
i palestinesi che sono rimasti in Israele dopo il 1948 e che sono diventati
cittadini israeliani, lo ha avuto il ruolo dell'"Altro" (lo Stato
d'Israele, l'O.L.P, i paesi arabi, ecc.). Infatti, questo gruppo è
stato chiamato con tanti nomi, cariche di significati politici, che cambiano
a seconda della parte che lo prende in considerazione: arabi israeliani, arabi
d'Israele, gli arabi in Israele, arabi dell'Interno, arabi del '48, palestinesi
del '48, palestinesi d'Israel, palestinesi in Israele, ecc.
Se prendiamo in considerazione la composizione nazionale dei suoi cittadini,
Israele oggi si presenta come uno stato binazionale. Alla fine del 1996, Israele
era abitato da circa 992 mila cittadini non ebrei (più del 90% di loro
sono arabi, e costituiscono il 16,6% dell'intera popolazione, esclusi i cittadini
arabi di Gerusalemme Est e del Golan). Nonostante questo, Israele continua
ad essere uno Stato etnico ed è definito come lo Stato degli ebrei,
perciò i palestinesi, istituzionalmente, non potrebbero avere gli stessi
diritti e la stessa cittadinanza, in quanto sono, appunto, "non ebrei".
Uno stato etnico può essere anche democratico?
In sintesi, il problema principale della relazione tra il gruppo dei palestinesi
in Israele e lo Stato, deriva dal fatto che quest'ultimo è definito
come "Stato degli Ebrei", e in quanto tale, la minoranza non fa
parte di esso. Di conseguenza, la politica adottata dallo Stato d'Israele,
nei confronti dei suoi cittadini arabi, è caratterizzata essenzialmente
dalla negazione della loro Identità Collettiva; nella ricerca sarà
esaminato l'effetto di questo sull'appartenenza di gruppo dei palestinesi
in Israele. Quindi, sarà indagato il modo in cui l'appartenenza di
gruppo influenza i giudizi dei soggetti sulle persone appartenenti ad altri
gruppi.
Dall'inizio del secolo, i leader del movimento sionista hanno negato che gli
arabi della Palestina costituiscano un gruppo nazionale che abbia diritti
in essa (Rouhana & Bar-Tal, 1998; Kimmerling & Migdal, 1993; E. W.
Said, 1992).
Edward W. Said (1992), nel The Question of Palestine, conduce una riflessione
storico-filosofica del sionismo collocandolo nel più ampio contesto
culturale del XIX secolo, dell'Europa liberal, in cui si è sviluppato
e da cui ha tratto le sue caratteristiche. In quel clima culturale, secondo
l'autore, "l'imperialismo era la teoria e il colonialismo era la pratica
che trasformava i territori del mondo inutili e disabitati in nuove utili
versioni della società metropolitana europea" (tr. it. 1995, p.
86).
Secondo E. W. Said (1992), "il sionismo si unì in pratica con
quegli aspetti della cultura occidentale (nel quale il sionismo si sviluppò)
che rendevano normale per gli europei considerare inferiori, marginali o irrilevanti
tutti gli uomini nati al di fuori del vecchio continente" (tr. i. 1995,
p.81). Così, "il sionismo perciò si sviluppò con
una straordinaria coscienza di sé, ma senza lasciare alcuno spazio
agli sfortunati nativi" (tr. it. 1995, p. 89). Secondo M. Rodinson (1973)
l'indifferenza sionista per i palestinesi era, "[...] un'indifferenza
legata a quella supremazia europea, di cui beneficiarono perfino i proletari
e le minoranze oppresse dell'Europa" (in E. W. Said, op. cit., p. 89).
In breve, secondo E. W. Said, "tutte le energie di fondo del sionismo
si basavano sulla negazione di una presenza, sull'assenza funzionale di un
"popolo indigeno" in Palestina; le nuove istituzioni vennero create
escludendone deliberatamente i nativi e, dopo la nascita dello Stato d'Israele,
le sue leggi furono progettate in modo che i palestinesi restassero sempre
nel loro "non-luogo", gli ebrei al loro posto e così via"
(ibidem, pp. 89-90).
Dunque, con la creazione dello stato di Israele, definito stato degli ebrei,
la politica di rifiuto di vedere gli arabi come gruppo nazionale divenne istituzionalizzata,
considerandoli come delle minoranze religiose. Questa negazione dell'Altro
(i nativi) e la sua divisione in differenti gruppi non nasce soltanto da una
politica di "divide et impera" (d'altronde, Israele non aveva bisogno
di dividere questa comunità per dominarla), ma va ben oltre questo
motivo. Possiamo ricercare le ragione di questo atteggiamento sia negli aspetti
ideologici che in quelli psicologici. Per quanto riguarda gli aspetti ideologici,
il riconoscimento della presenza di un altro gruppo nazionale in Palestina
metterebbe in crisi l'ideologia sionista, cioè la creazione di uno
stato focolare ebraico in Palestina, e la sua giustificazione: "terra
senza popolo per un popolo senza terra".
Il secondo ci viene dato dalle teorie sociopsicologiche delle relazioni intergruppi.
Secondo la Teoria dell'Identità Sociale (Tajfel, 1978; Tajfel &
Turner, 1986) la presenza di un altro gruppo minaccia, in certi casi, l'identità
sociale dell'ingroup e questo comporterebbe, in accordo con la Teoria del
Conflitto Realistico (Campbell, 1965; LeVine & Campbell, 1972), un aumento
dell'etnocentrismo.
Dopo aver preso in considerazione gli aspetti, ideologici e psicosociali,
del perché lo Stato di Israele ha negato, e continua a negare ancora,
l'identità palestinese ai suoi cittadini arabi, in questo lavoro, cercheremo
di vedere le conseguenze di questo fatto sulla minoranza araba palestinese
in Israele.
Lo Stato ha concesso le libertà di pratiche religiose e alla lingua
araba lo status di lingua ufficiale, sebbene l'ebraico sia la lingua dello
Stato, però ha negato loro ogni rapporto con la storia, la tradizione,
la cultura e l'identità palestinese.
Si può ipotizzare che in Israele due fatti abbiano in qualche modo
influenzato il senso di appartenenza al proprio gruppo nazionale da parte
dei palestinesi, che sono rimasti nello Stato di Israele: da una parte, la
divisione dei palestinesi in gruppi diversi (Musulmani, Drusi, Cristiani e
Beduini) che ha comportato, poi, la creazione di sistemi educativi diversi
per ognuno dei gruppi, la creazione di sportelli diversi all'interno del Ministero
dell'Interno, e, anche, l'obbligatorietà del servizio di leva per i
drusi (v. par. 2.3); dall'altra parte, l'attribuzione della cittadinanza israeliana
ai palestinesi in Israele.
Sembra che il fatto di appartenere ad un gruppo sociale (o a gruppi sociali)
non sia sufficiente di per sé per il processo di autocategorizzazione
come membro di tale gruppo: nei casi delle minoranze, affinché questo
processo abbia un andamento normale e senza problematiche di identità,
c'è bisogno che la maggioranza (lo Stato) attui un riconoscimento istituzionale
dell'identità culturale dell'Altro (indigeni, minoranze, immigrati
e così via), che gli consenta, nella quotidianità, di praticare
la propria identità/cultura. La richiesta, o la lotta, per un riconoscimento,
avanzate dai gruppi minoritari o svantaggiati, potrebbe essere vista nell'ottica
della strategia di cambiamento sociale, descritta da Tajfel (1981), (v. par.
1.2.2).
A questo punto, è interessante notare come, "diversi filoni della
politica contemporanea hanno al proprio centro il bisogno, e qualche volta
la domanda, di riconoscimento" (C. Taylor, 1992, tr. it. 1998, p. 9).
L'importanza del riconoscimento dell'identità è, sempre secondo
C. Taylor, che "la nostra identità sia plasmata, in parte, dal
riconoscimento o dal mancato riconoscimento o, spesso, da un misconoscimento
da parte di altre persone, per cui un individuo o un gruppo può subire
un danno reale, una reale distorsione, se le persone o la società che
lo circondano gli rimandano, come uno specchio, un'immagine di sé che
lo limita o sminuisce o umilia. Il non riconoscimento o misconoscimento può
danneggiare, può essere una forma di oppressione che imprigiona una
persona in un modo di vivere falso, distorto e impoverito" (ibidem).