L’attacco militare di Israele e gli interessi degli Stati Uniti in Medio Oriente.
Intervista a Gilbert Achcar, a cura di "Between The Lines". Traduzione di Davide Marzulli. Maggio 2002.


Nel 1983 Gilbert Achcar si è trasferito dal Libano alla Francia, dove insegna scienze politiche e relazioni internazionali all’Università di Parigi VIII. Il suo ultimo libro, "The Clash of Barbarism: September 11 and the Making of the New World Desorder " (L’invasione dei barbari: l’11 settembre e la creazione del nuovo disordine mondiale) verrà pubblicato nella traduzione inglese dalla Monthly Review Press di New York nell’autunno prossimo.

BTL (Between The Lines) ha posto quattro domande al politologo Gilbert Achcar concernenti il legame tra la politica americana in Medio Oriente e il suo appoggio a Israele. Queste sono le domande, seguite dalle risposte unite tra loro:

Domande:

  1. In che modo il tradizionale appoggio degli Stati Uniti alla brutale invasione israeliana dei Territori Occupati (1967), nonché il recente via libera alla distruzione della PA (Palestinian Authority) si accordano con la strategia macro-regionale americana in Medio Oriente?
  2. In riferimento alle dimostrazioni di massa svoltesi nei paesi arabi contro la posizione assunta da quei governi nei confronti di Israele e contro il sostegno agli Stati Uniti: in che misura tali dimostrazioni costituiscono una minaccia per i regimi arabi? Come mai la ‘questione palestinese’ solleva una solidarietà così grande in larghi strati del mondo arabo?
  3. Se la destabilizzazione dei ‘regimi moderati’ minaccia gli interessi americani, come risolvere l’apparente contraddizione che nasce dall’appoggio degli Stati Uniti al brutale attacco militare di Sharon e dall’attribuire tutta la responsabilità a Arafat?
  4. Che significato dare al piano saudita adottato dal recente summit della lega araba a Beirut? Quanto c’è di trasparente? È stato coordinato insieme agli americani nel comune intento di calmare le masse arabe?

Risposte congiunte:

Israele è per tradizione un elemento chiave nella strategia americana in Medio Oriente. Come tutti sanno anche troppo bene, tale strategia si è sviluppata principalmente intorno alla questione del petrolio: l’eccezionale importanza che il petrolio in generale e quello del Medio Oriente in particolare hanno assunto nelle economie occidentali a partire dalla Seconda Guerra Mondiale spiega l’impegno crescente degli americani in quella regione. Un impegno basato sulla tutela del regno saudita, stabilita sin dal 1945, prima cioè della creazione dello stato d’Israele. Quest’ultimo sarebbe poi diventato il cane da guardia degli interessi locali degli Stati Uniti, essendo da sempre, per sua natura, uno stato militarizzato, vale a dire uno stato con un altissimo grado di allerta militare, forti spese militari in rapporto al PIL e un alto grado di mobilitazione popolare; e non poteva essere altrimenti, date le sue origini coloniali e i rapporti ostili con l’ambiente circostante: era predestinato a svolgere quel ruolo.

Pertanto sfidare gli interessi americani in quella zona sarebbe pericoloso per qualunque regime arabo vicino, specialmente per quanto riguarda il controllo che gli Stati Uniti esercitano sul petrolio saudita. In questo senso il regno saudita e Israele sono due elementi chiave complementari nella strategia americana nella regione.

Tuttavia fu solo verso la fine degli anni cinquanta che Israele assunse importanza vitale per gli interessi regionali americani: in precedenza non c’era nessuna seria sfida agli interessi degli Stati Uniti in Medio Oriente. Il nascente nazionalismo arabo era ancora molto debole e orientato più che altro contro il tradizionale colonialismo dell’Europa occidentale. Il suo radicalismo iniziò in seguito con Nasser, che sarebbe diventato il principale nemico della monarchia saudita. Il progetto di Nasser di unificare la nazione araba sotto la sua guida e l’alleanza che stabilì con l’Unione Sovietica in cambio dell’accesso di quest’ultima a quell’area del pianeta sono i fattori che elevarono Israele al rango di alleato locale determinante per gli Stati Uniti.

Questi sviluppi trovarono espressione nel diverso atteggiamento degli americani nei confronti della guerra del 1967 rispetto a quella del 1956. Nel 1956 Israele attaccò l’Egitto di Nasser avendo per alleati i due rappresentanti tradizionali del dominio europeo nella regione: Francia e Regno Unito. A ciò si opposero gli Stati Uniti: non solo perché disinteressati al colonialismo tradizionale, ma anche perché la triplice aggressione avrebbe acceso sentimenti anti-occidentali tra gli arabi in una fase in cui gli USA speravano ancora di mantenere relazioni amichevoli con l’Egitto. Nel 1967 il nazionalismo arabo era all’apice del suo radicalismo ‘socialista’, sviluppatosi in Egitto a partire dai primi anni sessanta e in Siria dal 1966, e l’ostilità di entrambi gli stati verso il regno saudita era forte. Gli Stati Uniti temevano che un’eventuale alleanza radicale Cairo-Damasco unita all’Iraq dove i nazionalisti erano già al potere avrebbe potuto stringere i sauditi in una morsa potente; pertanto il 5 giugno 1967 l’aggressione israeliana ebbe semaforo verde.

In questa questa guerra, che fa da spartiacque nella storia della regione dopo il 1948 -il Medio Oriente deve ancora fare i conti con le sue conseguenze dirette della guerra del 1967- due differenti ma convergenti blocchi di interessi sono in gioco. Da una parte quelli degli Stati Uniti, come abbiamo visto; dall’altra gli interessi dello stato d’Israele, che non è mai stato un semplice ‘burattino’ nelle mani degli americani poiché ha sempre avuto un suo programma distinto, come risultò evidente nel 1956 e risulta vero anche in questa circostanza. Per Israele il compimento della missione americana (colpire mortalmente i due regimi del Cairo e di Damasco) si accordava perfettamente con il suo programma di completamento del lavoro iniziato nel 1948 attraverso l’occupazione della West Bank sino al fiume Giordano e della Striscia di Gaza.

Come ricompensa per le sue imprese militari, gli Stati Uniti avrebbero appoggiato le due richieste avanzate dal governo sionista ai paesi arabi vicini: nuova definizione dei confini di Israele a vantaggio della sua ‘sicurezza’ e riconoscimento dello stato di Israele da parte dei regimi arabi, il che avrebbe posto fine a uno stato di belligeranza che durava dal 1948. Tali richieste erano al centro del Consiglio di Sicurezza 242 delle Nazioni Unite approvato dagli Stati Uniti nel novembre 1967, sia apertamente (riconoscimento e pace) che implicitamente (il famoso articolo che manca dal riferimento al ritiro di Israele da ‘territori occupati’). [la versione francese e inglese del 242 si esprimono in modo diverso: i primi chiedono il ritiro totale da "i territori occupati" nel 1967 mentre i secondi chiedono il ritiro da "territori" occupati — BTL]

Le pretese territoriali di Israele erano tanto più gradite agli Stati Uniti in quanto il popolo palestinese si radicalizzò fortemente dopo il giugno 1967 per cui fu chiaro che una restituzione diretta della West Bank alla Giordania avrebbe messo in pericolo la monarchia hashemita. Pertanto il governo israeliano poté applicarsi alla realizzazione del Piano Allon stabilendo basi strategiche nel West Bank al fine di controllare il territorio, con il proposito di abbandonare in seguito le aree abitate. Questo piano avrebbe conservato la funzione di struttura architettonica portante nell’ambito delle proposte di pace sioniste, dall’accordo di Oslo sino alle proposte di Barak durante i negoziati di Camp David (2002). Un piano spalleggiato dagli Stati Uniti oggi come allora.

Molti osservatori pensavano che l’importanza strategica di Israele per gli Stati Uniti sarebbe diminuita drasticamente dopo il 1991, anno della Guerra del Golfo: guerra che vide il massiccio intervento militare diretto degli Stati Uniti nella regione e l’avvio della presenza militare permanente degli americani negli stati del Golfo Arabo; nonché anno del disfacimento dell’Unione Sovietica.

In realtà si potrebbe pensare che la svolta decisiva sia stata costituita dal passaggio dell’Egitto dall’alleanza con l’Unione Sovietica a quella con gli Stati Uniti nel 1972, ai tempi di Sadat; passaggio che giustifica l’atteggiamento più ‘equilibrato’ di Washington nella mediazione di pace tra Egitto e Israele dopo la guerra del 1973.

In effetti sia il 1972 che il 1991 furono svolte importanti e spinsero gli Stati Uniti a esercitare maggiore pressione su Israele perché facesse concessioni, al fine di stabilire una pax americana. Per questo il trattato di pace tra l’Israele di Begin e l’Egitto di Sadat poté essere concluso, ed è per questo che nel 1991 gli Stati Uniti esercitarono una così forte pressione sul governo di Shamir perché si unisse al ‘processo di pace’. Tuttavia l’importanza di Israele come vantaggio strategico nelle mani degli Stati Uniti non è diminuita al punto di scomparire. Dato il carattere altamente precario ed esplosivo della situazione sociale e politica dei paesi arabi, gli Stati Uniti sanno fin troppo bene di non poter scommettere sulla stabilità di alcuna alleanza da quelle parti. In confronto la dipendenza strategica che Israele ha come entità politica nei confronti degli USA fa della loro la più stabile delle alleanze. Gli Stati Uniti sanno che esiste un limite molto basso quanto al numero di militari che possono stazionare nella regione, come è apparso evidente dall’alto costo già pagato per trattenere 5000 soldati americani nel regno saudita, compresi gli attacchi dell’11 settembre 2001. Sanno anche che occorre tempo per trasportare le truppe sul posto e non è affatto certo che sarebbe sempre così facile come nel caso del concentramento militare del 1990 contro l’Iraq. In questo senso il ruolo di Israele come base militare avanzata in questa parte del mondo è ancora molto preziosa, e i 5 miliardi di dollari che ciò costa annualmente ai contribuenti americani sono un investimento assai proficuo in rapporto a ciò che si potrebbe ottenere se la stessa cifra venisse invece aggiunta all’immenso budget militare americano.

Il che ci porta alla situazione attuale. L’attacco militare israeliano contro i territori controllati della Palestina nel West Bank è il prodotto della convergenza di diversi fattori. In primo luogo il Piano Allon, come quadro generale del ‘processo di pace’, è su un binario morto: è ormai chiaro che il popolo palestinese non potrebbe più accettare ciò che appare sempre più come un pessimo affare dopo le prime illusioni del 1993-94. Inoltre è evidente che Arafat non rischierebbe di confrontarsi con il suo popolo per qualcosa che si è rivelato progressivamente una truffa e una trappola mortale. Entrambi gli aspetti erano strettamente legati: solo se il popolo palestinese si fosse sottomesso a una rigida dittatura avrebbe potuto ingoiare le amarissime pillole della medicina sionista-americana.

Il secondo fattore è ovviamente l’accesso al potere di Sharon in Israele come espressione della volontà quasi unanime dell’establishment sionista di regolare i conti con i palestinesi. Con l’appoggio dei laburisti Sharon sta facendo ciò che essi non potrebbero fare da soli senza rischiare il loro specifico capitale politico in casa e nell'Occidente.

Il terzo fattore è naturalmente l’11 settembre con i suoi strascichi: gli attacchi su Washington e New York hanno fatto della ‘guerra al terrorismo’ la nuova bandiera dell’interventismo americano in tutto il mondo fornendo a Sharon la giustificazione politica necessaria ai suoi scopi.

Stiamo raggiungendo un punto in cui questa convergenza probabilmente finirà e gli alleati occasionali prenderanno strade diverse. Il programma personale di Sharon non consiste nel distruggere la ‘infrastruttura terroristica’ per aprire la strada a un rinnovato tentativo di creare un Bantustan palestinese. La sua reale intenzione è di distruggere l'Autorità palestinese in modo da esercitare un controllo diretto e forzato sul popolo palestinese tale da costringere questo a lasciare il West Bank; realizzando così il progetto di ‘trasferimento’ che ha sempre condiviso con il suo amico assassinato Zeevi.

Gli Stati Uniti e i loro fedeli alleati tra i laburisti sionisti mirano a una nuova Autorità Palestinese che controlli in modo più repressivo un popolo palestinese molto indebolito, nel quadro di una pace basata più o meno sulla proposta di Barak a Camp David nel 2000 congiunta alla proposta di ‘normalizzare’ i rapporti tra Israele e l’intero mondo arabo. Quest’ultima era in realtà intesa dal Dipartimento di Stato americano come strumento per rafforzare un processo di pace ‘agonizzante’: non contiene nulla di sostanzialmente nuovo, tranne il fatto di essere stata formulata dal regno saudita, il quale aveva preferito in precedenza restare fuori scena per paura delle conseguenze politiche di un così caotico ‘processo di pace’.

Tuttavia il vero grande problema è che l’attacco di Sharon ai palestinesi ha provocato un risentimento così acuto e amaro contro Israele e gli Stati Uniti nell’intero mondo arabo da diventare esso stesso un impedimento alla ripresa del ‘processo di pace’. Che questo fosse il fine di Sharon è fuori discussione.

Anche se lo stesso non si può dire di Bush e Peres, i due condividono la stessa miopia politica e mancanza di intelligenza. Ciò che hanno permesso di fare a Sharon, con un misto di connivenza e indulgenza, potrebbe con ogni probabilità costituire una svolta storica che distruggerà ogni prospettiva di pace arabo—israeliana patrocinata dagli Stati Uniti, causando una destabilizzazione dell’intera regione estremamente deleteria per gli interessi americani; come già dimostrato dalle enormi mobilitazioni di massa avvenute in tutti gli stati arabi quasi senza eccezione.

Non sarebbe la prima volta, né sicuramente l’ultima, in cui gli Stati Uniti avrebbero seminato ribellione contro i propri interessi. Bush e Sharon stanno preparando per gli Stati Uniti e Israele nuovi disastri che in retrospettiva potrebbero fare dell’11 settembre un semplice punto di partenza.