Immobilità sociale e sovversivismo popolare in Italia.
Sulla base degli studi sulla mobilità sociale che attestano come l'Italia sia, tra i paesi imperialisti, quello a più basso tasso di mobilità sociale, verifichiamo se e in che misura questo fattore può aver inciso in un secolo di intense mobilitazioni operaie e giovanili. REDS. Ottobre 2000.


In un'altra parte della rivista abbiamo recensito e riassunto il libro divulgativo di Maurizio Pisati sulla mobilità sociale in Italia. In quel testo Pisati rilevava come tutte le indagini compiute in questo campo attestano che in Italia la disuguaglianza delle opportunità "è superiore a quella osservata in media nelle società avanzate. Negli Stati Uniti per esempio, l'effetto sperequativo esercitato dall'origine sociale sulle opportunità di istruzione è all'incirca la metà di quello osservato nel nostro paese." (p.139). Intendiamoci: non è che negli altri Paesi i figli degli operai abbiano sul serio la possibilità di competere alla pari coi figli della borghesia, semplicemente la probabilità che hanno di ascendere socialmente è di gran lunga superiore a quella che avrebbero in Italia. Come riferisce lo stesso Pisati, nel dibattito sociologico ci si è domandati spesso se le società fortemente mobili siano anche quelle più stabili. Sentiamolo.

"Da un lato la mobilità funge da valvola di sicurezza dell'ordine sociale perché, offrendo una 'via d'uscita' a molti dei membri più capaci delle classi inferiori, attenua alcune delle tensioni generate dalle disuguaglianze di classe, riducendo così il rischio di un'azione collettiva radicale. Detto altrimenti, per coloro che occupano gli strati più bassi della gerarchia sociale avere la possibilità di accedere alle classi medie o superiori significa disporre di una soluzione individuale alla propria condizione di svantaggio iniziale. In questa prospettiva, il successo o il fallimento sociale non vengono più visti come effetti del 'sistema' ma come prodotto della buona o della cattiva sorte, della capacità o della incapacità personale. Di conseguenza, i membri delle classi svantaggiate tenderanno a riporre le proprie speranze di emancipazione sociale più sull'opportunità di riuscita individuale - per sé o per i propri figli - che sull'azione collettiva di classe. [...] La circolazione degli individui nello spazio sociale contribuisce alla stabilità della società anche in un altro modo [...] Una classe può diventare un vero soggetto collettivo solo quando i suoi membri acquisiscono la piena consapevolezza di condividere la stessa condizione e gli stessi interessi. Perché ciò avvenga è necessario che le classi siano caratterizzate da un elevato livello di omogeneità e solidarietà interna. In una società tendenzialmente immobile, dove la maggior parte dei figli segue passo per passo le orme dei propri padri e i matrimoni avvengono fra individui socialmente simili, ogni classe recluterà i propri membri prevalentemente al suo interno, e, pertanto, potrà godere di un grado molto elevato di omogeneità. In una situazione così 'chiusa' i membri di ciascuna classe avranno contatti soprattutto con i propri simili e tenderanno a sviluppare uno spiccato senso di solidarietà reciproca." (pp.127-128)

In Italia la chiusura sociale, cioé la difficoltà ad ascendere socialmente ha influito sulla radicalità dello scontro di classe e generazionale?

Più volte abbiamo ragionato su questa rivista sullo spirito sovversivo delle masse italiane. Il nostro movimento operaio è stato l'unico a prendere, anche se non nella sua interezza, per tre volte le armi in questo secolo. Dal 1919 al 1922, cioé dall'occupazione delle fabbriche sino alla costituzione e disfatta degli Arditi del Popolo, consistenti gruppi di operai italiani avevano preso le armi autonomamente e spesso in conflitto con le direzioni dei partiti di sinistra e dei sindacati. Durante la guerra civile spagnola quello italiano fu tra i contingenti più numerosi di internazionalisti che aiutarono i repubblicani spagnoli. Dal 1943 al 1945 in Italia ci sviluppò la Resistenza armata più vasta dell'Europa occidentale. E si trattò non solo di una rivolta di classe, ma anche generazionale: non furono poche le bande costituite da giovani universitari, che spesso integravano le formazioni di Giustizia e Libertà. Il '68 scoppiò ovunque, ma solo in Italia durò dieci anni, fino al 1977: per tutto quel periodo un'intera generazione permase in rivolta. Parallelamente dal '69 si sviluppò nelle fabbriche un movimento basato sui Consigli che per radicalità non ebbe uguali in nessuna parte del mondo e che rimase in piedi sino alla sconfitta alla FIAT nel 1980. Fenomeni di gruppi armati, chiamati dai mass media "terroristi", sorsero in quel periodo un po' ovunque, ma solo in Italia coinvolsero migliaia di persone e furono radicati in alcune grosse fabbriche, pur rappresentando sempre tra gli operai un fenomeno minoritario, ma non estraneo. E' legittimo dunque domandarsi il perchè della disponibilità italica alla sommossa.

La risposta a questa domanda non la possono fornire i sociologi, dato che solo il marxismo, sino ad ora , ha gli strumenti per mettere insieme indagine sociologica, storica, politica, ecc.

Facciamo alcune osservazioni. Noi caratterizziamo il '68 nel mondo come un'esplosione della contraddizione generazionale. In questo ci troviamo purtroppo d'accordo con molti storici "borghesi" e non con compagni che insistono nel definire quella radicalizzazione come frutto dell'oppressione di classe. Questi ultimi infatti non ammettono che esistano altre oppressioni oltre a quella di classe. Esistono invece, pensiamo, parallelamente altri tipi di oppressioni e altri tipi di lotta, che non annullano il piano della lotta di classe, ma lo intersecano, a volte sovrapponendosi. Una di queste è la lotta generazionale tra giovani ed adulti. L'immobilità sociale agisce su questa contraddizione come una pentola a pressione dimenticata sul fuoco: a un certo punto smette anche di fischiare, ma significa solo che prima o poi, scoppia. Il '68 nel mondo è stato preceduto da un periodo di esplosione delle iscrizioni universitarie, in università che, prima, erano il regno dei figli dei borghesi, e, in rari casi, della classe media. Il sistema era assolutamente impreparato ad assorbire questi milioni di studenti, non riusciva ad offrire loro la possibilità di sognare di poter un giorno lavorare nel campo per cui si stava studiando. Sia ben chiaro: NON stiamo affermando che questa è stata la causa dell'esplosione del '68, ma che certo, è stato un fattore non secondario. L'impossibilità di ascesa individuale ha contribuito a far scattare un meccanismo di ribellismo generazionale.

L'Italia é particolarmente impermeabile al successo individuale dei giovani. Negli altri Paesi imperialisti non è raro incontrare scienziati, letterati, esperti, dirigenti d'azienda sorprendentemente giovani, quando da noi è ben difficile che si possa sperare di ascendere prima dei cinquant'anni. Il governo si sta recentemente preoccupando della "fuga dei cervelli". Come mai i giovani laureati fuggono dall'Italia, settima potenza mondiale? Non vi è altra spiegazione se non quella dell'immobilità sociale. Una recente inchiesta del Corriere della Sera Lavoro riportava brevi interviste a ricercatori italiani emigrati all'estero. In tutte le interviste un unico leit motiv: la sorpresa di aver vinto un concorso all'estero, quando si è abituati in Italia che NON si vince un concorso senza conoscenze, la rabbia per essere stati costretti ad andare fuori per fare ciò che si poteva benissimo fare in Italia, la denuncia delle condizioni dei ricercatori in Italia. In effetti un chimico, un fisico, un matematico che si laurei brillantemente e che voglia far ricerca da noi non ha altra strada che quella di vivere lunghi anni precariamente, con scarsissime risorse, e cercando di arruffianarsi capi e professori. All'estero un giovane brillante ha subito tappeti d'oro: laute borse di studio per dottorati, possibilità di pubblicare subito col proprio nome, prospettive di carriera, responsabilità. In campo universitario chiunque abbia frequentato le facoltà in Italia conosce molto bene, rassegnato, la realtà: vecchi baroni arroganti e incapaci, circondati da una corte di ricercatori destinati ad attendere la morte del barone per sperare in una qualche prospettiva. Non è diverso negli ospedali con i primari, o in campo letterario, artistico, ecc. dove occorre sempre essere figlio di qualcuno: ne sanno qualcosa i giovani pittori alle prese con le mafie delle gallerie d'arte. Interi settori dell'economia vivono ancora rapporti precapitalisti, dove regnano il familismo e la corporazione. E' inutile che un laureato a pieni voti in economia e commercio speri di entrare nella Banca d'Italia: prima di lui viene il figlio del dipendente, lo stabilisce un contratto interno. Vi sono mestieri lucrosi e parassitari trasmessi di padre in figlio: ad esempio quello del notaio. Un giovane che all'estero diverrebbe subito un avvocato di grido in Italia è costretto ad anni di umiliante lavoro sottopagato in uno studio di qualche trombone. E così via, quando in altri Paesi gli avvocati stanno sparendo sostituiti da capitaslitiche aziende di consulenza legale con centinaia di avvocati come dipendenti.

Forse appare bizzarro legare la non soddisfazione di ambizioni personali di ascesa sociale, alle quali siamo abituati come comunisti a dare una connotazione negativa, all'acuirsi della lotta di classe e generazionale che come valori dovrebbero richiamarne altri, per certi versi opposti. Ma non è così.

Nella mente di tutti i giovani vi è sempre una forte ambizione di ascesa sociale. Essa deriva da vari elementi: l'insoddifazione per la propria famiglia di origine, l'attrazione dei modelli proposti, ecc. Ma questa ambizione a volte prende semplicemente la forma del "lavoro che mi piacerebbe fare", anche se questo lavoro nei fatti rappresenta un'ascesa rispetto alle proprie origini sociali. La frustrazione nel vedere non riconosciute le proprie aspirazioni genera una rabbia che può trovare strade politiche. Questa "politicizzazione'" della frustrazione individuale porta a mettersi "l'anima in pace" su quel piano e a comprendere la natura complessiva del problema e dunque a cercarvi rimedi collettivi. L'ambizione individuale diviene ambizione di un intero gruppo, o di una generazione a cambiare nel profondo lo stato di cose presenti.

Anche i giovani operai posseggono aspettative individuali che al frustrarsi possono politicizzarsi. Pensiamo ad esempio alla gran quantità di giovani operai che suonano e sognano di diventare musicisti e famose rockstar. E' un sogno di fuoriuscita dal lavoro manuale, e che spesso al non realizzarsi si politicizza. Chi sta nelle fabbriche sa quanto è difficile coinvolgere in discorsi sindacali i giovani operai, che sono animati da una forte ambizione di ascesa: divenire tecnici, caposquadra, manutentori, impiegati, uomini di fiducia della direzione. Nelle banche i giovani laureati sgomitano a più non posso per superare i vecchi diplomati, e ognuno di loro immagina di riuscire a sedere un giorno in qualche consiglio di amministrazione. Questi giovani si calmano solo ai primi ostacoli, quando la realtà si incarica di selezionare solo una parte di loro. E, in Italia, quasi sempre, non certo i migliori. A quel punto i giovani cominciano a divenire sensibili ad argomenti sindacali, e c'é la possibilità che abbandonino l'individuale per il collettivo.

Non sempre comunque nei periodi di radicalizzazione l'ambizione personale attraversa il per noi positivo passaggio dall'individuale al collettivo. Spesso essa muta semplicemente di forma. Un giovane che trova bloccata la prospettiva di ascesa sociale nel sistema, può divenire ad esempiom leader studentesco, senza che in lui si sia attuata alcuna reale trasformazione, e per questo, con la stessa facilità e senza grandi crisi, possiamo ritrovarlo di nuovo, dieci anni dopo, a dirigere uno stomachevole giornale di destra. Altre volte questa ambizione può continuare a esercitarsi nell'ambito dello stesso campo politico. Per questo troviamo così tanti burocrati e leaders inamovibili nei partiti di sinistra e nei sindacati confederali e non, indipendentemente dalla radicalità delle posizioni che essi esprimono e che possono anche essere le più avanzate di questo mondo. In Italia la burocrazia del movimento operaio ha sempre rappresentato un notevole canale di promozione sociale per le classi oppresse, e soprattutto per i loro figli: funzionari sindacali, politici, consiglieri nelle istituzioni, leaders carismatici... Questi ambiti hanno raccolto un'intera generazione di giovani brillanti delle classi oppresse che hanno trovato chiuse altre porte. Del resto questa è una delle ragioni della straordinaria abilità di questo ceto e della sua pervicace volontà di non abbandonare le poltrone.

Ma non sempre l'immobilità ha sortito effetti così negativi. Di fatto il tessuto dei nostri delegati sindacali è composto di gente assai colta e raffinata, tenendo conto della media dei Paesi imperialisti, in mezzo vi troviamo politici brillanti, economisti, abilissimi negoziatori. L'immobilità ha fatto sì che, spesso, i migliori elementi siano rimasti all'interno della nostra classe, impegnati in qualche attività di militanza, militanza che, nonostante tutto, è numericamente molto più estesa che negli altri Paesi. Ma non è solo nella militanza che raccogliamo i frutti perversi ma per noi positivi dell'immobilità sociale. Nelle nostre scuole vi sono insegnanti che in altri Paesi sarebbero all'università o nei giornali ma che qui insegnano ai nostri figli dalle elementari alle superiori.

Raramente il sistema in Italia è riuscito nell'intento di cooptare i nostri elementi più brillanti. E' accaduto solo quando sorgono settori produttivi nuovi, in precedenza non occupati da mentalità feudali: così la Fininvest, la pubblicità, gli studi di grafica, pullulano di gente che viene dall'estrema sinistra, e le riviste femminili sorte nell'ultimo quindicennio di ex leader femministe.

L'impermeabilità sociale tipicamente italiana contribuirà a favorire radicalizzazioni future. Sì, perché la ragione dell'impermeabilità italiana non ha una natura indagabile con gli strumenti classici della sociologia ma ha a che vedere direttamente con la lotta di classe. In questo Paese la borghesia è stata ed è troppo debole per potersi permettere di fare a meno di alleanze sociali, con la Chiesa ad esempio, ma anche con settori arretrati politicamente, culturalmente ed economicamente. La borghesia ha coperto le spalle per decenni ad una DC che ha protetto i commercianti dall'invasione dei supermercati. E così oggi l'Italia si trova in coda nella modernizzazione del suo sistema di distribuzione ed è invasa da ipermercati stranieri, e i capitalisti italiani del settore devono basarsi sullo sfruttamento intensivo della manodopera (vedi Esselunga) per sopravvivere al mercato internazionale. Ma così facendo contribuiscono al sovversivismo popolare. E' un circolo vizioso dal quale non si esce facilmente. La borghesia oggi sostiene il centrodestra, ma questo per vincere deve appoggiarsi sugli avvocati, sui medici, sui notai, sui farmacisti, su tutto il popolo degli "ordini professionali" che stanno lottando con le unghie e coi denti per difendere i propri privilegi feudali dall'entrata del capitalismo anche in questi settori, entrata che certamente favorirebbe i giovani e i più capaci. E ciò alimentarà la rabbia e la frustrazione dei giovani delle classi medie. Non è detto che questa rabbia prenda forme politiche, ma può accadere.

Con questo articolo NON affermiamo che LA causa del sovversivismo popolare italiano sia da attribuire esclusivamente all'immobilismo sociale. L'Austria ad esempio presenta un immobilismo assai simile ma con un grado di gran lunga inferiore di radicalità sociale. Un'altra causa ad esempio, che però non afronteremo qui, è quella che ha a che vedere con la debole legittimazione dello stato, che a sua volta è un portato della particolare lotta di classe che si è sviluppata nel nostro Paese e che a sua volta affonda le proprie radici nella materialità dello sviluppo della formazione economica italiana. Schiviamo anche un altro equivoco: non siamo certo felici che una così grande quantità di giovani nel nostro Paese sia socialmente frustrata, ne siamo dispiaciuti. Rileviamo solo che questa sofferenza non rimarrà senza conseguenze per chi l'ha causata. Non mancano gli esempi storici al riguardo. Pensiamo solo alla straordinaria immobilità sociale della Francia di Luigi XVI: in una società dove bollivano le trasformazioni economiche e un'intera generazione di avvocati, medici, professori, artigiani, commercianti era tenuta in scacco da nobili e magistrati inamovibili. Alla fine i primi risolsero il problema con una brillante invenzione: la ghigliottina.

Terminiamo con Marx:

"Questa circostanza, che costituisce oggetto di tanta ammirazione da parte degli economisti apologeti, ossia che un uomo senza ricchezza, ma dotato di energia, di solidità, capacità e competenza commerciale, si possa cosi trasformare in un capitalista [...] sebbene porti continuamente in campo e in concorrenza con i capitalisti individuali già esistenti una schiera non gradita di nuovi cavalieri di fortuna, rafforza la supremazia del capitale stesso, ne amplia le basi e gli permette di reclutare al suo servizio sempre nuove forze dagli strati più bassi della società. Precisamente come la circostanza che la Chiesa cattolica nel Medioevo costituiva la sua gerarchia con i migliori cervelli del popolo senza preoccuparsi del ceto, della nascita, del censo, costituiva uno dei mezzi principali per consolidare la supremazia dei preti ed opprimere i laici. Quanto più una classe dominante è capace di assimilare gli uomini più eminenti delle classi dominate, tanto più solida e pericolosa è la sua dominazione." (p. 699 Il capitale vol.3 Editori Riuniti ed.1989)

I nostri dominatori hanno impedito a tanti giovani di divenire artisti, avvocati, medici, dirigenti, professori, musicisti, per mantenere al loro posto vecchi bacucchi o i loro figli un po' coglioni, colmando la ricerca, l'università, i giornali di ruffiani, imbroglioni, furboni e incompetenti. Forse prima o poi questa scarsa previdenza costerà loro, come a Belgrado un paio di settimane fa, la sedia, o magari, come a Parigi un paio di secoli fa, la testa.