I MEDIA ITALIANI E LA PREPARAZIONE
DELLA CROCIATA D'OCCIDENTE
I MASS
MEDIA COME SPECCHIO RIVELATORE DEI CARATTERI CROCIATI DELLA GUERRA
CHE SI PREPARA
ottobre 2001,
REDS
I mass media occidentali hanno dimostrato in maniera chiara, con le loro reazioni agli attentati, il sottofondo etnico, oltre che economico, che accompagna la crisi in atto. E' risorta una nazione che in realtà è sempre esistita da circa cinque secoli e che è la comunità dei Paesi imperialisti (vedi Paesi imperialisti e Paesi dipendenti) con forse la sola esclusione del Giappone: l'Occidente. Ci soffermeremo soprattutto sull'analisi di due quotidiani: Il Corriere della Sera e La Repubblica. Si tratta dei due quotidiani più venduti ed esprimono due diverse correnti che si propongono di difendere gli interessi delle classi dominanti: una oggi più favorevole al centrodestra, e l'altra pasdaran del centro sinistra organico. Teniamo conto comunque che, ovviamente, l'"opinione pubblica" è influenzata da un numero ben superiore e più vario di testate non solo di carta stampata. Ne accenneremo comunque nel corso dell'articolo. Qui analizzeremo le diverse fasi dell'approccio alla crisi di questi quotidiani, come significative in generale dell'atteggiamento dell'Occidente nei confronti della guerra che si prepara. Pensiamo che ciò possa contribuire a dimostrare che questa guerra oltre ad un contenuto economico, legato agli interessi materiali delle multinazionali, obbedisce anche ad una razionalità etnica, per questo oltre ad essere una guerra classicamente imperialista porta con sé anche un inconfondibile carattere crociato.
L'Occidente ritrovato
Gli attentati hanno creato un clima di panico di cui i mass media sono stati specchio. Veniamo da un periodo che, come abbiamo già analizzato in "Cosa è la globalizzazione", è di accresciuta concorrenza tra le grandi potenze. Non sono mai mancati nei media italiani accenni più o meno apertamente critici verso gli USA (ad esempio riguardo alla politica di Washingon su Palestina, Balcani, Kyoto, ecc.). Questa competizione ha spesso portato molti a sinistra alla conclusione che fosse giusto stare "con l'Europa contro gli USA", perché la prima sarebbe più "progressista" dei secondi. Di conseguenza le critiche da parte di costoro all'Europa non erano rivolte alla sua politica verso il Terzo Mondo (del tutto simile a quella USA), ma alla sua presunta sudditanza verso gli USA. La crisi in atto dimostra in maniera assai chiara invece la natura dei rapporti tra i due poli. L'Europa ha delegato agli USA la difesa dell'ordine internazionale. Non si tratta di subalternità, ma di un patto di reciproca convenienza. Gli USA ne guadagnano in fatto di industria degli armamenti (e dunque con tutto ciò che ne consegue come traino per l'economia) e di dividendi nell'influenza che, grazie al suo predominio militare, esercita su molti stati. L'Europa d'altro canto può permettersi il lusso di fare a meno di una organizzazione sociale complessa (dalla produzione dell'industria culturale, alla repressione del dissenso interno, alle spese per gli apparati, ecc.), necessaria a far accettare alla popolazione uno stato di guerra permanente, e allo stesso tempo di lucrare su una immagine più pacifica (ad esempio come hanno fatto per decenni i democristiani nei confronti dei Paesi arabi). Questa sorta di divisione dei compiti stava per essere messa in discussione dall'accrescersi della concorrenza seguita alla caduta del Muro di Berlino, ma, ora, nell'emergenza, diviene fondamentale per l'Europa fare fronte unico con gli USA contro una fetta di Sud del mondo. Gli imperialismi infatti possono arrivare persino alla guerra nei periodi di silenzio del resto dell'umanità che essi sfruttano selvaggiamente, ma quando da lì viene un attacco, riformano di nuovo un blocco compatto, che prende una forma etnica, perché deve ad ogni costo contare sul consenso di tutta la popolazione. Ecco allora sorgere dalle ceneri: l'Occidente.
Franco Venturini in un editoriale del Corriere della Sera del 14 settembre titolato "Il dolore e il castigo" scrive:
"dopo il crollo del muro di Berlino la comunità atlantica aveva conosciuto un logoramento crescente" dovuto alle rivalità USA-Europa. Ma il terrorismo "è riuscito nell'impresa di rovesciare questo processo. Al prezzo di uno spaventoso bagno di sangue e di una vulnerabilità davvero globale, è scattato in Occidente un sentimento di appartenenza che supera di molto la retorica solidale" [...] "Il mondo è diventato più piccolo, intorno all'Occidente ritrovato".
Il 13 settembre l'editoriale di Lucio Caracciolo sul Corriere:
"Nella disperata ferocia dei kamikaze si materializza infatti il disprezzo dei valori che, un sintetico geografismo, definiamo 'occidente'." "Perché alla fine, anche se in tempi ordinari indulgono a marcare le reciproche differenze, agli occhi di chi vorrebbe annientarli europei e americani appaiono come un mondo a sé. L'Occidente, appunto. Una sola famiglia."
Innumerevoli gli editoriali (per non parlare delle televisioni impegnate a rievocare tutti i precedenti storici in cui si è saldata l'alleanza atlantica) che sottolineano il legame USA-Europa. Il giorno dopo l'attentato (12 settembre) sui due quotidiani che analizziamo scendono in campo le non brillanti penne dei rispettivi direttori. "Siamo tutti americani" è il titolo di quello di Ferruccio de Bortoli, che ne approfitta per assestare un colpo sotto la cintola ai palestinesi (dei cui morti il suo giornale non parla mai, dedicando lo spazio solo a quelli di parte israeliana):
"siamo tutti americani anche nel guardare con animo affranto e collera crescente le ingiustificabili manifestazioni di giubilo palestinese"
Sullo stesso numero (il significativo titolo di apertura è "Attacco a tutto l'Occidente") un editoriale di Franco Venturini dove denuncia la "troppa tolleranza verso l'antiamericanismo ideologico".
L'editoriale del 12 settembre di Ezio Mauro su Repubblica si intitola: "L'Occidente colpito al cuore":
"Tutto l'Occidente è bersaglio, insieme con i simboli della sua più avanzata modernità americana"
L'editoriale di Repubblica del 19 settembre di Ilvo Diamanti spiega in maniera concisa perché occorra rinsaldare questa unità, proprio in un mondo globalizzato, abbandonando l'italica abitudine a defilarsi:
"dobbiamo fare i conti con un problema: come difenderci dal mondo, come tutelare la nostra casa, la nostra vita quotidiana, se la nostra casa, se la nostra vita quotidiana sono aperte al mondo?"
Questa spontanea e unanime riscoperta dell'Occidente, non può essere casuale, né certamente essere frutto di una sorta di complotto propagandistico. Semplicemente viene detto ciò che è vero: l'Occidente esiste sul serio, è il cuore dell'impero che domina il mondo. Esso è diviso da accese rivalità interne, ma quando è minacciato da chi ne sta fuori, allora deve reagire come una sola entità, perché deve salvare la propria "casa".
Il nemico invisibile
Possiamo chiaramente distinguere due fasi. Nella prima, dall'attentato sino a quattro-cinque giorni dopo, l'emotività e il panico hanno scoperto la vera natura del dominio occidentale sul mondo, che è allo stesso tempo economico e nazionale (cioé etnico, sulla nostra rivista come è noto usiamo i due termini indifferentemente). Sono abbondanti dunque i richiami ad una vera e propria guerra etnica a difesa del mondo occidentale. Nella seconda invece, inaugurata da un paio di articoli che fanno da spartiacque e che poi vedremo, si cambia tono accompagnando in questo l'evidente strategia USA: quella di distinguere l'Islam buono da quello cattivo. Come sarà evidente però si tratta di un tatticismo. Ma quei primi giorni sono terribilmente rivelatori di cosa si nasconda sotto la patina sottile di "tolleranza" della "civiltà" occidentale. Il nemico è chiaramente individuato: l'Islam, tutto intero.
Ezio Mauro nel suo editoriale del 12 settembre afferma che dietro alla questione mediorientale "s'innalza , inquietante, la questione islamica, che troppo spesso prende l'aspetto di una sfida totale all'Occidente." Il 15 sul Corriere Francesco Merlo ("Il massacro di Dio") dopo un qualche iniziale distinguo che serve per metterlo al riparo da qualche possibile accusa di razzismo arriva al succo:
"oggi sono soprattutto gli islamici, tutti gli islamici, ad avere la presunzione di rappresentare Dio in terra. Finito il comunismo, sono loro i nemici più ostinati della tolleranza e della civiltà occidentali"
Il 14 settembre Repubblica pubblicava un editoriale di Mario Pirani dal titolo "La nuova alleanza dei valori":
"Queste bombe umane non sono il prodotto della disperazione o della miseria, ma della esaltazione di una fede islamica intollerante ed estremista"
e ricorda poi che la parola assassino deriva dalla parola araba hashashin. Vari editoriali ed articoli poi in varie testate ricorderanno l'origine "orientale" di questa parola che indicava una setta di difensori dell'Islam. Nel delirio crociato naturalmente il gioco ha dato spazio a varie furberie e gaffes. Elie Wiesel dichiara al Corriere del 15 settembre che "esiste un parallelo tra la guerra santa dell'Islam nel X e XII secolo e l'Occidente. I sicari e gli assassini sono stati creati allora." Si noti il paradosso di un ebreo che rivendica le crociate che storicamente non furono dolci nemmeno con gli ebrei: la rimozione è estremamente significativa della sussunzione degli ebrei per via sionista nel "mondo occidentale" dopo la creazione di Israele (che ha più o meno oggi la funzione che svolgevano i principiati crociati 800 anni fa, vedi Le crociate di ieri e di oggi), una rimozione clamorosa se si pensa che gli ebrei sono stati vittime dell'"Occidente" per secoli e secoli. Ma Wiesel nomina i sicari, come se fossero islamici: in realtà erano una setta ebraica che lottava contro l'invasore romano con metodi terroristici (era un gruppo concorrente degli zeloti). Anche il furbo Ronchey sul Corriere del 17 fa un'operazione simile:
"nella Palestina dei tempi antichi uccidevano ma non aspiravano al suicidio i seguaci della setta dei sicari, da sica, la corta spada, nascosta sotto la tunica".
Si noti la furbizia: nominando "Palestina" associa sicari agli attuali palestinesi, associazione che diventa certezza quando omette di informare che i sicari per l'appunto erano ebrei.
La Repubblica del 14 settembre riporta un editoriale di Thomas Friedman dal New York Times dove afferma che contro l'America c'e' gente "superarrabbiata" che la incolpa "per l'incapacità delle loro civiltà a padroneggiare la modernità".
Come si vede un razzismo che si dispiega a piene mani, l'inizio di una crociata. Ma...
La strategia occidentale.
Ma intorno al 17 si cambia registro. Assai in ritardo rispetto alla direzione politica degli USA che già due giorni dopo l'attentato (con la visita di Bush alla moschea di Washington) sa già la strada da imboccare: quella della coalizione con gli stati arabi "moderati" (in realtà i più reazionari della regione), una strada che impedisce di utilizzare apertamente la carta etnica, quella che ormai viene chiamata "scontro di civilità".
Il 17 su Repubblica Bernardo Valli critica apertamente proprio il saggio Samuel Huntington, nell'editoriale titolato "Se la guerra diventa una crociata" afferma:
"è con la collaborazione delle preponderanti forze moderate musulmane, recuperate attraverso una paziente azione diplomatica, con aiuti economici ed altresì con fermi richiami all'ordine rivolti a governo troppo indulgenti, che va condotta l'operazione" per scongiurare uno scontro di civilità.
Sergio Romano sul Corriere del 16:
"L'Occidente democratico ha il diritto di difendersi contro il fanatismo islamico, ma non deve attribuire all'Islam i vizi e gli errori delle sue sette più radicali."
Ma in quei giorni sono soprattutto due gli editoriali che segnano il cambiamento di linea e che verranno varie volte citati. Un lungo articolo di Tiziano Terzani sul Corriere della Sera e un editoriale di Eugenio Scalfari su La Repubblica del 16. In quello di Terzani ("Quel giorno tra i seguaci di Bin Laden") si afferma tra l'altro:
"Dal 1983 gli Stati Uniti hanno bombardato a più riprese nel Medio Oriente Paesi come il Libano, la Libia, l'Iran, e l'Iraq. Dal 1991 l'embargo imposto dagli Stati Uniti all'Iraq di Saddam Hussein dopo la guerra del Golfo ha fatto, secondo stime americane, circa mezzo milione di morti, molti bambini dei quali a causa della malnutrizione. Cinquantamila morti all'anno sono uno stillicidio che certo genera in Iraq una rabbia simile a quella che l'ecatombe di New York ha generato nell'America e di conseguenza anche in Europa. Importante è capire che tra queste due rabbie esiste un legame." Si sta formando una coalizione comprendente Cina, India, Russia e Occidente: "il problema è che sarà estremamente difficile fare apparire questa guerra solo come una campagna contro il terrorismo e non come una guerra contro l'Islam."
L'articolo non denuncia certo le responsabilità strutturali dell'Occidente (e definisce l'Islam "una grande e inquietante religione"), ma argomenta sulla necessità di non proclamare una nuova crociata. Da parte sua Scalfari ("L'Islam e l'ira dell'impero"):
"in un mondo che sta celebrando da 12 anni la fine delle ideologie, o meglio il trionfo di un'unica ideologia, nasce improvvisamente un'ideologia alternativa dotata di una forza contundente tremenda: la rivolta dei poveri del mondo, la ribellione degli esclusi, la volontà di potenza dei deboli"
e immagina tre cerchi concentrici dove al centro c'é Bin Laden, intorno gli arabi e nel cerchio più largo i musulmani. L'Occidente si può salvare solo se disinnescherà il conflitto palestinese altrimenti
"la guerra sarà lunga e senza confini netti, il sistema dei cerchi concentrici si salderà, le campagne del mondo assedieranno le città".
Al cambiamento di linea si adeguano subito anche coloro che incautamente si erano espressi a favore dello scontro di civiltà. Il 26 settembre su Repubblica Lucio Caracciolo afferma:
"la reazione occidentale deve battere il terrorismo di sterminio, non moltiplicarlo né eccitare guerre sante"
Anche Thomas Friedman cambia registro e il 18 Repubblica pubblica il suo editoriale dal significativo titolo "Niente rappresaglie feroci, non è una guerra di civiltà".
Sergio Romano come al solito spiega bene ("Il dilemma americano") la situazione (Corriere del 21):
"Il Presidente sa che l'America vuole essere vendicata e che una grande potenza non può permettersi di tollerare una tale brutale violazione della sua sicurezza. La vendetta, in questo caso, non è soltanto giustizia: è una necessaria manifestazione di potere" ma la necessità di allearsi con una parte del mondo islamico "lo obbliga a evitare, per quanto possibile, ciò che può ferire la sensibilità musulmana."
La "superiorità" della civiltà occidentale
La nuova impostazione dunque vieta di dichiarare apertamente che si tratta di uno scontro con l'Islam per ragioni puramente tattiche (la necessità di tenersi buoni gli arabi "moderati", cioé orribilmente reazionari). Ma, in una guerra di lunga durata, l'Occidente, come qualsiasi esercito di combattimento, non può rinunciare ad un sistema di idee e di "pregiudizi di superiorità" senza i quali è impossibile vincere le guerre. Quindi non si dice che si tratta di uno scontro di civiltà, ma lo si lascia sottilmente intendere. Come tutte le identità che si costituiscono per dominare il mondo, anche quella occidentale deve giustificarlo asserendo una propria superiorità. E' diverso il caso delle nazionalità oppresse: esse devono solo difendersi, dunque per il costituirsi della propria identità non é affatto necessario il razzismo verso gli altri, oppressori compresi.
E' molto significativo che in innumerevoli dichiarazioni i politici e i commentari utilizzino la parola "barbari". Questo termine è estremamente significativo: si crea nell'ascoltare un parallelo rassicurante e del resto veritiero: l'Occidente è infatti il nuovo Impero Romano, chi ne sta fuori e lo minaccia sono "i barbari". Il 18 settembre Panebianco sul Corriere:
se restringe troppo le sue libertà l'Occidente diventa come loro "perdendo quella superiorità morale che, con i suoi mille difetti, possiede in quanto terra delle libertà, rispetto a ogni altro sistema socio-politico esistente, per non parlare delle spaventose utopie totalitarie che i nuovi barbari propongono".
Da questo punto di vista le dichiarazioni di Berlusconi del 26 costituiscono una gaffe, non per il suo contenuto, condiviso dall'Occidente intero, ma perché lo dice, quando invece in questa fase lo si dovrebbe solo fare intendere. Ascoltiamolo, perché le sue parole sono un raro esempio di semplice dispiegamento del pensiero imperiale:
"non si possono mettere sullo stesso piano tutte le civiltà, si deve essere consapevoli della nostra supremazia", il terrorismo vuole "fermare la contaminazione del mondo islamico da parte della civiltà occidentale" ma "noi dobbiamo essere consapevoli della superiorità della nostra civiltà che costituisce un sistema di valori e di principi che ha dato luogo al benessere che garantisce il rispetto dei diritti umani e religiosi. Cosa che non c'è nei paesi islamici." e il clou: "sono certo che l'Occidente continuerà a conquistare popoli. L'ha già fatto con il mondo comunista e l'ha fatto con i paesi arabi moderati".
Questo sì che è parlar chiaro! Dove troviamo un altro leader occidentale che spiega con tanta limpidezza il succo della politica di conquista del nuovo Impero Romano? Le critiche infatti sono centrate non sul contenuto ma sull'opportunità di tale uscita. Paolo Franchi sul Corriere del 28:
"l'inopportunità delle affermazioni di Berlusconi è evidente: si tratta di allargare il fronte di chi si oppone al terrore fondamentalista anche nel mondo islamico" però "assai più controversa, invece, è la fondatezza storica, politica e culturale" delle sue affermazioni: "noi consideriamo alla stregua di valori universali la democrazia, le libertà, i diritti civili tra cui quelle delle donne, il principio di tolleranza."
Il Wall Street Journal gli viene in soccorso:
"non è il momento di chiedere scusa per essere occidentali: sulla consapevolezza della superiorità dei loro valori gli Alleati costruirono la loro guerra contro i nazisti, e la vinsero proprio grazie alla forza ed alla giustezza delle loro convinzioni."
I "valori" dell'Occidente
Degli islamici non si può parlare apertamente male, dunque ci si concentra sulla definizione della propria identità, fondata, si dice, su "valori". I "valori" dell'Occidente, quelli che i popoli africani, i vietnamiti, i cileni conoscono benissimo. Come tutte le nazioni infatti, anche quella Occidentale per costituirsi, per essere credibile ha bisogno di una sua identità che in qualche modo la definisca e la distingua dalle altre (vedi l'articolo La crociata infinita), questa identità prende la forma dei "valori". A volte una nazione può definirsi anche in altri termini. Prima ancora delle società divise in classi le tribù trovavano elementi identitari che li accomunassero in un antenato comune, nell'adorazione delle stesse divinità, ecc. In realtà questi elementi identitari non hanno una grande importanza. In astratto essi sarebbero variamente sostituibili, ma devono obbedire al criterio di apparire credibili alla gente ai quali si rivolgono, in poche parole devono essere chiaramente individuabli in maniera tale che chi ne fa parte lo sappia con certezza e che con certezza sappia distinguere il diverso, cioé il nemico.
Il compito è arduo. Che valori mettere nel cestino? Il cristianesimo non si può: c'è il Papa che non può prendere una posizione troppo netta per ragioni di geopolitica vaticana, e inoltre l'alleanza con i regimi arabi "moderati" impedisce l'uso del terreno religioso. Ciampi a Gorizia il 16 predicando a favore della lotta contro il Male affermava che "il Bene (cioé noi) ha radici profonde e forti nel cuore degli uomini, nella nostra antica cultura, umanistica e cristiana". Il 13 settembre l'editoriale di Lucio Caracciolo sul Corriere (eravamo ancora nella prima fase) e dal significativo titolo "L'Occidente e l'identità ritrovata" esordiva con un attacco dal tenore vagamente hitleriano:
"E' nelle tragedie che gli individui e i popoli riscoprono le radici profonde della propria identità. L'attacco terroristico all'America è uno di quei momenti storici che ci costringono a questo raro esercizio"... "Oggi l'Europa è chiamata a riscoprire la profondità del vincolo atlantico, la sua dimensione storica ed identitaria. L'Occidente come lega delle democrazie e delle società liberali. "... "Non tutti vogliono diventare occidentali. Esistono identità irriducibili, valori non negoziabili. L'interdipendenza non significa affatto che siamo tutti uguali, ma che siamo costretti a misurararci gli uni con gli altri. Così stabilendo dei rapporti di forza inevitabilmente sorretti dalla fede in alcuni valori fondanti e nei corrispettivi stili di vita."
Dunque democrazia, tolleranza... ma in diversi altri editoriali ed articoli si difendeva la necessità, per resistere al terrorismo, di accettare restrizioni alla propria libertà, ecc. per salvare che cosa? Il 15 settembre La Repubblica pubblica un editoriale di Antonio Polito ("La forza del silenzio"):
"chi teme la globalizzazione dovrebbe riconoscere oggi una potenza etica finora nascosta, capace di mobilitare all'unisono la gente dell'emisfero nord", "chi urlava ieri nelle piazze yankee go home era ieri nelle piazze a sperare che riaprisse Wall Street".
Non c'è nulla di più significativo riguardo all'identità occidentale dell'enfasi con cui i giornali di tutto il mondo hanno salutato la riapertura della Borsa di New York il 17: da tutti è stata vissuta come la rivincita, il Corriere ha pubblicato la foto di un eroico broker impolverato, ripreso dal basso verso l'alto per esaltarlo ancor più, che si avviava sorridente alla Borsa, lo accompagnava un articolo sfegatato dal titolo "il ritorno degli 'squali'". Alla fine il nocciolo è questo, possiamo ricoprirlo di tutti i "valori" che vogliamo, ma l'essenza dell'identità occidentale ha un solo nome: denaro.