MEDIA IN GUERRA
DAGLI ATTENTATI ALLA PRESA DI KABUL NEI MEDIA FRANCESI


13 dicembre 2001, da Rouge, traduzione di Stefano Valenti.

 

Dopo aver trattato nel numero 52 dell'approccio dei media italiani nei confronti della crociata occidentale contro il terrorismo islamico (vedi I media italiani e la preparazione della crociata d'Occidente), presentiamo in questo numero un'analisi comparsa su Rouge dello stesso fenomeno sui media francesi.

Benché la supposta neutralità giornalistica non esista, possiamo in ogni caso tentare di interrogarci sulla presunta "oggettività" dei media in tempo di guerra. Dopo gli attentati dell'11 settembre fino alla presa di Kabul, la legittimazione della strategia degli Stati Uniti in effetti ha funzionato in pieno. L'analisi di Henry Maler docente presso l'Università dell'VIII arrondissement, Parigi, e animatore dell'associazione Action Critique Media (Acrimed).

Tenteremo qui di estrarre le principali tendenze in atto all'interno dei media francesi, quantomeno fino alla "presa di Kabul". Senza entrare nei dettagli e senza moltiplicare gli esempi ma senza cedere al ricatto che vorrebbe non si criticassero troppo i media, per non indisporre i giornalisti nella speranza di accaparrarsi i loro favori, come se ci fosse bisogno di impedire la critica alla scuola o all'insegnamento per risparmiare gli insegnanti.
È vero: numerosi giornalisti svolgono il loro mestiere meglio che possono, spesso con coraggio pagando con la propria vita. Ma questi non svolgono lo stesso mestiere dei capo-redattori, degli editorialisti, dei presenatori: i piloti della macchina mediatica che hanno cercato di fare passare questa guerra per legittima e efficace.

Come la guerra diventa "legittima"

In un momento di smarrimento, dal quale si è ben presto rimesso, Serge July su "Liberation" del 13 settembre, proclama: "La migliore difesa contro il terrorismo non è la guerra, è la giustizia". Ciononostante tra giustizia e guerra i media dominanti hanno scelto la guerra. Ci resta da capire come.

L'avvenimento. Tutto ha inizio evidentemente con gli attentati dell'11 settembre:
- L'avvenimento è inedito e spettacolre. La televisione si incarica allora di trasformare l'avvenimento spettacolare in spettacolo dell'avvenimento. E la stampa si incarica di trasformare questo avvenimento inedito in avvenimento senza precedenti: una svolta assoluta nella storia dell'umanità.
- L'avvenimento è tragico. I massacri suscitano legittima solidarietà con le vittime. La televisione si incarica allora di trasformare la compassione in spettacolo della compassione. E la stampa si incarica, non da sola, di trasformare il dovere di solidarietà con le vittime, in dovere di comunione con il popolo americano e i suoi dirigenti. "Le Monde" svolge allora la sua funzione di quotidiano "di riferimento", dopodiché tutti i media non smetteranno di ripetere il loro vibrante "siamo tutti americani"...
- L'avvenimento è dunque spettacolare e tragico. Ma così come qualunque fatto diverso può essere presentato come un avvenimento, qualunque avvenimento può trasformarsi in fatto diverso. Si tratta dunque di un fatto diverso, ma gigantesco, che la televisione mette in scena con racconti, immagini e testimonianze sull'avvenimento e le sue conseguenze.
Ora con il distacco dato dal passare del tempo, è necessario tentare di comprendere.

Le cause. L'avvenimento può apparire senza precedenti, ma non è senza motivo. Bisogna dunque spiegarlo.
- La causa del terrorismo non può che essere ricercata nell'esistenza dei terroristi, l'argomento è chiuso. Ancora si deve spiegare il terrorismo: editorialisti dei media e esperti al servizio dei media ci propinano allora che il fondamentalismo si spiega con il fondamentalismo. La causa è stata identificata, la caccia può cominciare. L'inchiesta prepara l'intervento.
- Questa inchiesta viene deliberatamente troncata. È infatti espressamente vietato passare dalle cause immediate degli atti di terrore e dell'estensione del fondamentalismo, alle condizioni che li hanno favoriti. I grilli parlanti, editorialisti di professione o occasionali, si coalizzano per pontificare che comprendere significa giustificare e che bisogna dimenticare le condizioni scatenanti, ricordando solo le cause ultime, per scongiurare i perversi tentativi di colpevolizzare le vittime occidentali.
- Un prodigioso etnocentrismo si impossessa dei media a questo punto: ciò che fa proclamare che "siamo tutti americani", poiché come afferma senza fronzoli Jean-Marie Colombani, "noi" dobbiamo agli Stati Uniti la nostra libertà. Ma coloro che devono agli Stati Uniti aggressioni militari, sostegno a regimi oppressivi e molta della loro povertà, sono fuori gioco, irrazionali. Ci si può, come ci invita a fare Laurent Joffrin, esercitare a dare prova di un po' "d'empatia provvisoria" ("Nouvel Observateur", 20 settembre), ma con tutta la condiscendenza dovuta ai depositari della libertà e della ragione.
L'obbligatoria comunione con "gli americani" è sufficiente per identificare l'avversario: "l'antiamericanismo". Un concetto che amalgama tutto e permette in seguito di scoprire che l'avversario è composito, essendo la somma di tutto e di niente, "antiglobalizzatori" in testa. La guerra mediatica è dichiarata. Una guerra nella quale i giornalisti svolgono il ruolo di generali: editorialisti ufficiali, attirati come Jacques Juillard e Claude Imbert, o meno titolati come Bernard Guetta o Delfeil de Ton; editorialisti ufficiali associati come BHL o Alain Minc, o ausiliari, come Pascal Bruckner o Alain Finkielkraut. Dalle loro generose penne non esce che un unico grido d'inchiostro: dagli "all'antiamericano".
Una volta spurgata la spiegazione e separati i campi, l'impresa di legittimare la guerra è compiuta. E "Le Point" pubblica a partire dal 28 settembre un inserto in carta patinata che ci propone la "Mappa delle operazioni", perché noi le si possa seguire piacevolmente...
Il 7 ottobre, la guerra scoppia. Come renderla efficace? I media dominanti tentano di portare il loro modesto contributo.

Come la guerra diventa "efficace"

"Una guerra senza immagini e senza testimoni", proclamano i media, che così contribuiscono allo sforzo di guerra mobilitando un lessico, una deontologia, una postura.

Un lessico. Due esempi di lessico di guerra li riassumono tutti:
- "Terrorismo": si può dire di qualunque atto di violenza cieca, di preferenza quando riguarda vittime occidentali. Il suo uso può essere prudentemente distintivo: si parlerà dunque in quell'editoriale di "Le Monde", di "terrorismo di Stato", ma per applicarlo all'interno "dell'Alleanza" solo nel caso della Russia e della Cina. Il suo uso può essere generosamente esteso; cosi in "Le Figaro", si estende al "terrorismo quotidiano" (dei giovani delinquenti) e al "terrorismo sindacale" (degli operai della Moulinex), che entrambi nutrono quello degli "islamici" ("Le Figaro" del 2 del 16 novembre 2001).
- "Vittime civili": sono indubbiamente "innocenti" quando sono americane, e perdono questo aggettivo per diventare "accidentali" quando sono afgane, non essendo che delle uova che si possono strapazzare per fare delle buone omelette militari, come ci spiega su "Le Point" Bernard-Henry Levy, cronista associato a "Le Monde" e ai suoi dignitari.

Una deontologia. Consiste in alcune regole che permettono di dimostrare l'indipendenza giornalistica. Eccone tre:
- Regola n° 1: non considerare vere che le informazioni che arrivano da fonti indipendenti. Per le altre usare il condizionale. Ma il condizionale condiziona. C'è il condizionale che aumenta, durante la guerra del Kosovo, come ci dimostra Jean Pierre Pernaut: "Ci sarebbero 100.000 o 200.000 vittime, tutte al condizionale, ovviamente". C'è il condizionale che diminuisce, durante questa guerra: ci sarebbero numerose vittime civili, secondo i talibani. Da mettere al condizionale, "naturalmente".
- Regola n° 2: praticare autocritica permanente e di preferenza autocompiaciuta. Nel caso della guerra del Kosovo, i media, per bocca di Laurent Joffrin, furono dichiarati "esemplari". C'è il dubbio che questa volta si giudichino "eccezionali" e che nella prossima guerra saranno, come pronostica Serge Halimi, "strabilianti".
- Regola n° 3: moltiplicare le "tribune" e i "dibattiti" che permettono di fondere l'espressione democratica e il suo simulacro e di confortare una linea editoriale favorevole alla guerra lasciando uno spazio per la sua contestazione.

Una postura. Convinti dell'evidenza della guerra legittima, i media sono presi alla sprovvista, tanto da farla sembrare militarmente inefficace: quantomeno fino alla "presa di Kabul".
La stampa deve affrontare alcune domande:
- L'umanitario è confuso con il militare? Si dà sufficiente parola a coloro che contestano questa fusione, fino ad affermare come fa Claire Tréan su "Le Monde", che gli umanitari hanno - cito - degli "stati d'animo" e che i loro argomenti rivelano - cito ancora - "delle sottigliezze teologiche".
Il diritto internazionale è gabbato, Si farà un dossier completo - ma il più tardi possibile - per spiegarci che ormai tutto è legale e che ciò che è legale è legittimo.
- La guerra delude essa stessa le aspettative dei media in guerra? La stampa dominante deve allora fare una constatazione dei propri malesseri. L'editorialista anonimo di "Le Monde", moltiplica consigli e ammonimenti virtuosi all'indirizzo dei "decisori". "Liberation" arriverà fino a raccomandare a Bush di cambiare strategia, senza rinunciare alla guerra. In breve la stampa non si allontana dal ruolo di consigliere politico o militare. Per quanto riguarda le televisioni come TF1 o France 2, devono confrontarsi con l'Auditel; allora fanno di tutto per rendere il più possible gradite le notizie rare che ottengono da qualche cronaca alla frontiera o dalle forze dell'Alleanza del Nord. Ma poiché la guerra dura e il filone si esaurisce, l'audience si abbassa. Fortunatamente altri fatti vengono alla ribalta: la morte accidentale di una campionessa di sci, una catastrofe in un tunnel...
Questa è la legge del piccolo schermo: Ma il colmo della disinformazione - menzogne e trucchi a parte - sono le informazioni lacunose arricchite di spiegazioni frammentarie, che sposano la tesi dell'evidenza della "guerra giusta" e il "ritmo dell'attualità". In breve la televisione non si allontana dal ruolo di narratore e illustratore complice.
Sarebbe quindi falso affermare che i media dominanti hanno sposato la propaganda di guerra della "Santa Alleanza": si sono accontentati di portare a questa guerra il rinforzo della loro propaganda. Una propaganda che si richiama a una critica intransigente e vigile. Intransigente nella misura in cui le macchine mediatiche svolgono il ruolo di ausiliari della guerra, anche se molti giornalisti tentano di sottrarsi a questa funzione. Vigile nella misura in cui i dibattiti nei quali i tenutari dei media ci permettono a volte di intervenire sono mediaticamente orchestrati per legittimare - democraticamente - le loro opzioni di guerra.