EDITORIALE: IL DILEMMA DEI FORTI
LA NATURA DEL CONFLITTO, I COMPITI DEL MOVIMENTO ANTIGLOBAL


ottobre, REDS

 

Molti attivisti del movimento antiglobalizzazione e della sinistra si sono domandati il perché profondo degli attentati e della reazione imperiale in corso. Molti sono arrivati alla conclusione che forse negli attentati vi è lo zampino degli stessi USA. Altri ancora sono totalmente confusi riguardo al giudizio da esprimere sul fondamentalismo islamico. Vi sono poi coloro che si ritrovano spiazzati dalla totale adesione europea alla politica USA e la interpretano come un episodio di sudditanza.

Ma il mondo non funziona secondo i disegni di una qualche riunione di supercapitalisti che decidono e prevedono ogni mossa. L'ipotesi che la crisi sia in realtà un "complotto imperialista" che ha per posta magari gli oleodotti dell'Afghanistan è bizzarra: oleodotti, corridoi "strategici", ecc. oggi passano in tutto il mondo, ben pochi Paesi ne sono esclusi, forse solo quelli eretti sugli atolli del Pacifico ne fanno a meno. Si tratta di una visione solo apparentemente marxista, di un marxismo che esclude la dialettica. Ogni azione del capitalismo internazionale produce una controreazione, anche se non sempre quella da noi auspicata. L'ondata neoliberista ha provocato una di queste controreazioni: il movimento antiglobalizzazione. E lo sfruttamento del Terzo Mondo ha creato controreazioni che nel Medio Oriente hanno anche preso la forma del fondamentalismo islamico. Non sempre le controreazioni della dialettica storica son quelle più favorevoli agli oppressi (è il caso per l'appunto del fondamentalismo islamico), ma il presupposto per sperare di influirvi è di non considerare il nostro avversario più forte e intelligente di quel che è. E' nei guai, e l'indecisione strategica nel quale si sono dibattute le grandi potenze nei primi giorni dopo l'attentato ne è la testimonianza.

I guai derivano ovviamente dalla ragione stessa della loro esistenza. Come già abbiamo scritto (Paesi imperialisti e Paesi dipendenti) i Paesi imperialisti sono ricchi perché i Paesi dipendenti sono poveri. Tra i due stati vi è un rapporto di proporzionalità inversa. Più uno è ricco e più l'altro è povero. Questa relazione ha indubbiamente un contenuto economico del tutto evidente, ma con delle implicazioni sul terreno nazionale che sono spesso trascurate anche dai marxisti (per questo abbiamo dedicato in archivio un'intera pagina con molti materiali per rivalutare questa problematica: Marxismo e questione nazionale).

Spieghiamo brevemente cosa intendiamo per terreno nazionale. Il dominio imperiale sul Terzo Mondo non coinvolge solo le classi dominanti dei Paesi imperialisti, ma l'intera loro popolazione, in maniera proporzionale al posto occupato nella gerarchia sociale. Detto in parole povere un operaio italiano è certamente sfruttato, ma il suo tenore di vita è ben superiore a quello di un operaio in Pakistan. Ciò è dovuto ad innumerevoli fattori, ma tra questi vi è anche il fatto che l'operaio italiano gode dei vantaggi dello sfruttamento di quello pakistano. Rispetto ad Agnelli e Tronchetti Provera, gli arrivano briciole, ma sono briciole che al pakistano in questione, ad esempio, farebbero assai comodo (vedi Che cos'è la globalizzazione?). Il privilegio imperiale è il segno di distinzione di tutti i popoli che nella storia hanno avuto la fortuna di nascere cittadini di stati dominatori. Il sottoproletario dell'Antica Roma non faceva certo una gran bella vita, ma, con il pane gratis assicurato dalla rapina dell'Impero ai danni di altri popoli, stava comunque meglio degli ebrei di Palestina.

La materialità della questione nazionale nella crisi in atto viene dettagliatamente spiegata nell'articolo La crociata infinita. Il dominio imperiale ha dunque delle implicazioni etniche (sulla nostra rivista utilizziamo indifferentemente il termine etnico e nazionale): scompagina i normali allineamenti della lotta di classe. Agli occhi del pakistano sono "gli occidentali" che sfruttano il suo Paese: è una visione semplicista, ma c'è un fondo di ragione, perché gocce del suo sangue alimentano tutta la popolazione europea, americana, australiana, ecc. Allo stesso tempo per gli occidentali sono le popolazioni del Terzo Mondo quelle che li minacciano, questo senso di minaccia (avvertibile ad esempio nell'atteggiamento verso gli immigrati) nella sostanza è legato alla paura di perdere i propri (piccoli) privilegi. Ciò vale per tutti, anche per le classi dominanti dei Paesi imperialisti, che non nutrono alcuna simpatia per le classi dominanti dei Paesi dipendenti: nella storia a volte hanno deciso di sterminarle (come fecero gli spagnoli quando conquistarono l'America o i nazisti verso gli ebrei), altre volte di mantenerle al potere per assicurarsi un più facile dominio sulla popolazione (come solitamente agivano gli Antichi Romani, ma in caso di ribellioni o prolungate resistenze non ci pensavano due volte a sterminare tutti, ricchi e poveri). Ma sempre comunque li hanno tenuti in una posizione di totale subalternità.

Per questo non è affatto raro che nei Paesi del Terzo Mondo vi siano rivolte militari di carattere antimperialista. Noi siamo abituati ai nostri fascistissimi militari, ma quando una nazione è totalmente asservita, allora anche elementi della classe dominante locale possono ribellarsi, perché immaginano, in caso di successo, di poter costituire una classe dominante vera, e non virtuale. E' ciò che spiega la ragione per cui a finanziare il fondamentalismo islamico sono spesso dei miliardari, e lo stesso Bin Laden è uno di questi, ed anche perché la rete di Bin Laden goda di consistenti simpatie in settori di apparati statali che formalmente sono alleati agli USA (Arabia Saudita, Pakistan, ecc.). Il fondamentalismo islamico infatti è una reazione nazionalista al potere imperiale, che usa come nucleo identitario la religione. Come accennavamo, non tutte le reazioni ad un dominio che certo riteniamo ingiusto, ci piacciono: il nostro orrore per i metodi di questa corrente politica misogina e totalitaria l'abbiamo già espresso in Gli attentati in USA. Su questa questione (e sulla natura reazionaria di questa corrente politica) ci dilunghiamo abbondantemente in La crociata infinita. Qui ci interessa sottolineare solo che siamo consapevoli che questa lettura, quella cioé che unisce l'interpretazione classista a quella nazionale, può risultare ostica alla militanza di sinistra, la ragione di questa difficoltà la analizzeremo sul prossimo numero. In tutti i casi definiamo crociata la guerra in atto appunto perché si sintetizza al suo interno l'interesse economico delle maggiori potenze capitaliste ed anche quello nazionale di dominio di alcuni popoli su altri popoli. Proprio come accadde con le crociate storiche.

A questo proposito segnaliamo l'articolo Crociate di ieri e di oggi, di fondamentale importanza per l'analisi dello storico confronto tra Islam e Cristianità. Il documento è estremamente utile (e fruibile) anche come materiale di formazione per studenti, attivisti, lavoratori: si demoliscono alcuni luoghi comuni sull'Islam e si opera una efficace sintesi dello svolgimento e delle ragioni delle crociate storiche, con diversi utili insegnamenti per l'oggi.

Di questo nuovo spirito crociato ne stanno facendo già le spese gli immigrati e svariati popoli. I palestinesi ad esempio. Sull'argomento pubblichiamo un'intervista a Leila Shahid, rappresentante della Palestina in Francia: "L'impatto degli attentati negli USA sulla questione palestinese", che non condividiamo in ogni sua parte ma che descrive benissimo il disegno genocida di Sharon. Proprio il popolo afghano è uno dei più martoriati della terra. E per responsabilità delle grandi potenze di ieri e di oggi. Pubblichiamo a questo proposito il bel comunicato del RAWA, l'organizzazione femminista afghana che si batte contro i talebani, ma anche contro la prospettiva di bombardamenti USA: "La gente dell'Afghanistan non ha niente a che vedere con Osama e i suoi crimini!". L'utilizzo di due pesi e due misure è tipico del razzismo occidentale che chiede ad Arafat di abbandonare il terrorismo quando le statistiche per lo meno dovrebbero parlar chiaro: dall'inizio della seconda intifada sino al 26 settembre sono morte 822 persone, di cui 630 palestinesi (di cui 127 con meno di 18 anni) e 169 ebrei israeliani. Un conto macabro, d'accordo, ma che dovrebbe invitare a dare lo stesso peso alla morte di un israeliano e di un arabo. Due pesi e due misure che l'Occidente ha sempre usato anche in tempi recentissimi nei confronti dell'Islam.

La nostra classe dominante invece, contrariamente alla sinistra, è perfettamente consapevole che il fondamentalismo islamico è una reazione nazionalista al suo dominio imperiale. Ma fa di tutto per nasconderlo: in guerra chi combatte deve credere d'essere un campione di virtù. Nell'articolo "I media italiani e la preparazione della crociata d'Occidente" analizziamo dettagliatamente l'evolversi della reazione occidentale e dimostriamo come nei primi giorni la guerra stava mostrando chiaramente il suo vero e mostruoso volto etnico-imperiale. Ma le classi dominanti hanno dovuto bloccare questa deriva e dopo qualche giorno abbiamo assistito ad un rapido dietrofront dove tutti i commentatori si opponevano allo scontro di civiltà, cioé alla guerra dichiarata all'Islam. Le ragioni, come tutti confessano (di nuovo enumerate e citate in "I media italiani e la preparazione della crociata d'Occidente"), sono tattiche, ma pongono l'Occidente in un dilemma strategico, che qui riassumiamo.

Se le classi dominanti giocassero la carta etnica, dichiarando cioé apertamente guerra all'Islam, il loro successo popolare purtroppo sarebbe certo. Come si è visto nei giorni immediatamente successivi all'attentato (La crociata infinita) vi è una disponibilità di massa alla crociata. Non vi è alcun movimento antiglobal o sinistra, oggi troppo deboli, che potrebbe fermare una tale marea. Se non ci trovassimo nel capitalismo avanzato di oggi, questa sarebbe stata senz'altro la strada imboccata dalla classe dominante. Le guerre di conquista del passato, le guerre dei più forti, hanno sempre goduto dell'entusiastico appoggio delle masse, che cominciava a venir meno solo alle prime sconfitte e ai primi morti. Ma, alla classe dominante occidentale non conviene una tale dichiarazione e di qui le ragioni della svolta.

Una crociata dichiarata infatti obbligherebbe anche le corrotte classi dominanti dei Paesi a religione islamica a difendersi e a mobilitare a propria volta le masse contro l'Occidente. Sarebbe una risposta obbligata, una questione di semplice sopravvivenza. Ma una simile mobilitazione finirebbe per travolgere le stesse classi dominanti locali o a spostarle su terreni imprevedibili e incontrollabili per le grandi potenze. Per esempio è probabile che salterebbero i confini artificialmente imposti dagli imperialismi per indebolire il mondo arabo e forse si avvierebbero processi di unificazione nazionale. Verrebbero tagliate le fonti petrolifre, e via dicendo. Sarebbe una guerra che l'Occidente potrebbe vincere forse con il ricorso alle atomiche, ma anche così al prezzo di una instabilità (e forse inagibilità) secolare di tutta l'area. Per questo non può giocare apertamente la carta etnica. Se però non la gioca, si espone automaticamente alla possibilità che pezzi crescenti della sua cittadinanza si sentano poco coinvolti in tale guerra e finiscano per opporvisi.

Per l'Impero dunque la strada è in salita. Se vedessimo la presente crisi in una prospettiva storica, ci renderemmo conto che la guerra tra Occidente e Islam è già cominciata da un pezzo, o meglio ricominciata da un pezzo. Tra un secolo, quando la storia si studierà per decenni e non giorno per giorno, si vedranno le "guerre" di questi anni (Guerra del Golfo, attacchi alla Libia, invasione della Somalia, ecc.) come tante piccole battaglie di un'enorme guerra tra le potenze imperiali e un pezzo di Terzo Mondo, guerra che prenderà le sembianze di una guerra tra religioni. In questa guerra si sa già chi ha la più netta superiorità militare, ma il problema è che non può usarla tutta, perché altrimenti gli salterebbe tutto il suo sistema di sfruttamento. E' come se un padrone di una miniera avesse il problema di scavare più a fondo: certo, la dinamite ce l'ha, ma se la usa tutta in un colpo, gli crolla la miniera intera.

Gli USA sono così costretti a prendersela solo con l'Afghanistan, ma in realtà proprio i suoi (degli USA) maggiori alleati nella regione (Pakistan e Arabia Saudita), sono i principali alimentatori della corrente politica fondamentalista, essendo fondati, i loro stati, su una variante di quella ideologia. La loro stessa identità nazionale, cioé la ragione della propria esistenza, la fonte della propria legittimità, deriva da un nucleo fondamentalista religioso: il regno dell'Arabia Saudita è stato fondato da una dinastia (quella wahhabita) dopo una guerra che si proponeva di unificare l'intero mondo arabo e poi islamico, ma che si è dovuta ad un certo punto interrompere perché avrebbe dovuto sostenere in caso contrario uno scontro diretto con l'Inghilterra; il Pakistan è nato separandosi dall'India laica proprio su una discriminante religiosa. Le istanze nazionaliste di questi due Paesi cioé, in maniera assolutamente naturale, prendono una sembianza religiosa. Questa è la ragione per cui non è certo da escludere che pezzi di apparati statali di questi due Paesi collaborino in qualche modo con la rete di Bin Laden.

Se dunque gli USA volessero sul serio sradicare il fondamentalismo islamico in quanto corrente politica dovrebbero rompere con Arabia e Pakistan, i loro principali alleati, il che equivarrebbe davvero a dichiarare apertamente una crociata.

Rimane da comprendere: noi, noi sinistra, noi movimento antiglobal, che facciamo? Ovviamente non proviamo alcuna simpatia per il fondamentalismo islamico, ma moltissima per le masse diseredate, frustrate ed oppresse del Terzo Mondo ed anche di quella parte di Terzo Mondo che molti chiamano "mondo islamico". La guerra che si sta scatenando, è una guerra contro di loro. Che fare? Lo diciamo con tre parole: dissociarsi dall'Occidente. Siamo difensori delle ragioni delle nazionalità oppresse, ma siamo acerrimi nemici di ogni nazionalismo degli oppressori. Pensiamo che alle briciole che i soggetti sociali oppressi (i lavoratori, i giovani, le donne, gli omosessual) ricevono come prezzo del proprio silenzio di fronte al dominio imperiale, essi possano e debbano rinunciare, per non pagare il prezzo di uno stato sempre più crudo di guerra e terrore permamente, dove nessuno, dopo l'11 settembre nemmeno noi, può sentirsi al sicuro.

Questo pensiamo debba essere il compito oggi del movimento antiglobalizzazione. Un compito reso arduo dall'ondata nazionalista imperiale, ma anche da un qualche falsa partenza di nostra totale responsabilità.

Credono più i nostri avversari alle nostre potenzialità che noi stessi, spesso afflitti da sfiducia nelle nostre forze. Su La Repubblica del 26 settembre Lucio Caracciolo afferma allarmato che "I pacifisti si apprestano a diventare un fattore politico": i terroristi "sanno di non avere la minima chance di batterci militarmente. Ma con i loro attacchi sperano di diffondere l'insicurezza sulle nostre società. Così creando un ambiente ideale per spaccare l'Occidente, per minare dall'interno le nostre democrazie." Sul Corriere della Sera del 22 settembre Franco Venturini scrive che in realtà l'Occidente deve vincere tre guerre: quella militare, quella "culturale" (cioé etnica, secondo la nostra terminologia) e poi "quella più lunga e difficile, che ogni paese occidentale dovrà combattere al suo interno", " perché nessuna delle tre guerre potrà essere vinta senza il consenso dei fronti interni".

I potenti ci blandiscono cercando di convincerci della superiorità della "civiltà" che condividiamo, nostro malgrado, con loro. Sul Corriere del 26 settembre Panebianco scrive: "se la guerra al terrorismo durerà anni bisognerà attrezzarsi per neutralizzare il principale alleato di Bin Laden e soci in Occidente, la loro più preziosa quinta colonna: il relativismo culturale"... "Quando si scrive ad esempio che le nostre libertà sono fondate sul benessere economico, a sua volta prodotto dallo sfruttamento dei non occidentali, non si dice solo una solenne sciocchezza" ma si "rafforzano la mancanza di rispetto di sé e delle proprie istituzioni, che è il miglior alleato dei nemici del mondo occidentale" ma "proprio quando insorgono sfide gravissime, i gruppi umani, spesso, recuperano coesione e rispetto di sé. Forse, alla fine di quel conflitto, molti occidentali in più sapranno di nuovo ciò che hanno disimparato, che la civilità cui appartengono, culla unica nella storia, dei diritti e delle libertà, merita di essere difesa".

Quelle libertà di cui parla Panebianco sono in realtà frutto del privilegio. Noi godiamo di un minimo di libertà perché l'abbiamo negata al resto del mondo. Quando a scuola ci facevano studiare la storia dell'Antica Grecia ci raccontavano che ad Atene c'era la democrazia perché chi decideva era l'assemblea dei cittadini. Poi una noterella a pie' pagina ricordava che comunque questi diritti non riguardavano né gli schiavi né le donne né i giovanissimi: dunque la gran parte della popolazione. Noi oppressi del Nord del mondo siamo come i poveri di Atene: in assemblea ci fanno votare, ma sono i ricchi a beneficiare del lavoro degli schiavi. Questa guerra non ci conviene: ci garantisce qualche briciola di privilegio e in cambio ci fa vivere nell'incertezza e nella vergogna.