La guerra che sta arrivando.
La terza Guerra del Golfo sta per scoppiare. Chi ha vinto nella guerra d'Afghanistan? Perché gli USA vogliono attaccare l'Iraq? Perché l'Europa tentenna? Quali contraddizioni interne alla potenza statunitense possono scoppiare? REDS. Novembre 2002.


La guerra contro Al Qaeda e la guerra contro l'Iraq

La propaganda USA e quella dei principali mass media ha già conseguito una vittoria di non poco conto nella lotta per la conquista delle menti della sazia gente d'Occidente: la confusione tra la guerra in corso USA/Al Qaeda e quella che si sta preparando contro l'Iraq. Bush e Blair non sono riusciti a dimostrare la benché minima connessione tra l'Iraq ed Al Qaeda, ma nella mentalità comune questa associazione è cosa fatta. Non a caso secondo un sondaggio rilevato da The Guardian (16 ottobre) dopo l'attentato a Bali, nel Regno Unito la percentuale di persone a favore dell'azione militare contro l'Iraq è salita di dieci punti, dal 32% della settimana precedente al 42%.

Tra le due guerre non vi è alcuna relazione diretta, sono ispirate da ragioni diverse, anche se certo i fili si intrecciano, e alla fine di questo articolo vedremo come. La guerra contro l'Afghanistan (che prosegue nella caccia agli attivisti di Al Qaeda) era ed è diretta contro una corrente politica che aveva la sua base d'appoggio in Afghanistan. Tutte le interpretazioni che sono circolate a sinistra e che spiegavano quella guerra ora in termini grottescamente economicisti (sulla base della supposta impellente necessità degli USA di far passare in quel Paese un oleodotto) o sottilmente economicisti come quelle di John Pilger (vedi La grande truffa, che spiega la guerra d'Afghanistan con le mire USA sul petrolio del Mar Caspio, la cui entità invece, come risulta evidente dalla tabella più sotto pubblicata, non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella del Medio Oriente) non stanno in piedi e questa rivista le ha confutate in altri articoli ai quali rimandiamo (si veda ad esempio La guerra d'Afghanistan: domande e risposte).

Proponiamo un paragone un po' forzato: questa guerra assomiglia a quella scatenata dagli USA negli anni sessanta contro le organizzazioni guevariste dell'America Latina (i vari MIR, ELN, ERP, ecc.): una guerra fatta di un grande investimento in termini di intelligence, sostegno diretto ai governi che si impegnavano in questa lotta (o loro rovesciamento quando si mostravano troppo deboli), operazioni coperte, grande dispiego di ideologia. Allora l'ideologia da combattere non era l'islamismo ma il comunismo. Sia ben chiaro: tra comunisti e jihadisti non vi è nulla in comune, il paragone serve solo a comprendere cosa significhi una guerra di uno stato contro una corrente politica.

La guerra che gli USA preparano contro l'Iraq invece ha dei contorni più classici: rientra nella "normale" politica imperiale di assoggettamento di uno stato ribelle, come accaduto con il Panama di Noriega. Di sicuro l'operazione avviene in un contesto strategico particolare, e di questo ci occuperemo nel corso dell'articolo. L'importante però è di tenere analiticamente distinti i due piani: nel caso dell'Iraq, sì, è in ballo anche il petrolio, oltre che altri interessi geostrategici, nel caso dell'Afghanistan si è trattato di eliminare il retroterra di una corrente politica che si vuole estirpare.

La guerra contro la corrente politica Al Qaeda (e jihadisti in generale), come dimostrano una serie di eventi, non è ancora vinta, mentre quella contro lo stato iracheno è ancora da combattere sul terreno (perchè l'arma utilizzata sino ad ora, l'embargo, si è rivelata insufficiente a piegarlo). La coscienza (e i relativi dubbi) che gli USA si stiano imbarcando in una guerra senza averne vinta completamente un'altra emerge anche in campo occidentale. Si veda ad esempio l'editoriale del New York Times del 15 ottobre The Message in Bottle dove si afferma che combattere le cellule terroristiche è un'operazione assai differente da quella di invadere l'Iraq: "Bush afferma che può fare le due cose contemporaneamente e forse è vero. Ma combattere il terrorismo è in parte una battaglia per conquistare i cuori e le menti dei musulmani. Una guerra contro l'Iraq renderà questo, probabilmente, molto più difficoltoso". Negli USA è prevalsa comunque la linea di aprire un secondo fronte, e cercheremo poi di capire il perché. Prima però dobbiamo tratteggiare un breve bilancio della guerra d'Afghanistan, per capire a che punto sta il "primo fronte".

La guerra d'Afghanistan: chi ha vinto?

Secondo la distinzione che abbiamo proposto sopra, tale bilancio va collocato sul piano della lotta degli USA contro Al Qaeda. E non della costruzione o meno di un qualche oleodotto, perchè, data l'estrema instabilità dell'area, ci appare evidente che un qualsiasi tubo dovesse passare da quelle parti salterebbe per aria al primo soffio. Dal punto di vista della lotta contro Al Qaeda, dunque, la guerra d'Afghanistan si è rivelata per gli USA un successo tattico pieno. La vicenda si è risolta, dal loro punto di vista, secondo le più ottimistiche previsioni. Al Qaeda e i talebani, per quanto si possa comprendere dalle intercettazioni e dalle dichiarazioni rese pubblicamente dai membri di quella corrente, si illudevano che gli USA si sarebbero impantanati nella regione e sarebbero stati costretti ad ingaggiare una estenuante guerriglia contro gli islamisti radicali, come già avvenne ai tempi dell'invasione sovietica. Questa prospettiva del resto era paventata da non pochi osservatori occidentali. Il crollo talebano è invece stato rapidissimo e le perdite USA irrisorie (su questo vedi La crociata d'Occidente verso la sua breve vittoria). E' stata la facilità di questa vittoria che ha permesso agli USA di poter ambire ad aprire un secondo fronte, quello contro l'Iraq, per l'appunto. Naturalmente, ma non affrontiamo l'argomento in questa sede, la vittoria tattica degli USA non coincide affatto con una vittoria delle donne e della gente d'Afghanistan. In quel Paese ora regna il tipo di fondamentalismo islamico che va bene agli USA: quello che si accanisce contro le donne, ma lascia stare gli americani. Intanto prosegue la guerra contro Al Qaeda in tutto il mondo, ma il tipo di attività alle quali ormai è ridotta questa corrente non è in grado per ora di impensierire sul serio Bush, che si servirà d'ora in poi di ogni attentato delle residue forze di Al Qaeda per giustificare le altre guerre, che con la prima non c'entrano in maniera diretta. Sulle illusioni di Al Qaeda di sconfiggere militarmente gli USA si potrebbe amaramente sorridere, ricordiamoci comunque che tali illusioni sono la caratteristica costante di tutti i gruppi (compresi quelli di "sinistra") che si illudono con metodi militaristi e/o terroristi di piegare gli avversari sul terreno militare, dove, inesorabilmente, vengono sconfitti.

Se però passiamo dal bilancio tattico a quello strategico, tutto diventa più contraddittorio. Gli USA stanno portando avanti una scommessa che è piuttosto azzardata. Su quanto lo sia ne discuteremo più sotto. Quel che è certo è che vi sono inequivocabili segnali che l'invasione occidentale dell'Afghanistan abbia alimentato le correnti islamiste radicali, perchè le masse vi vedono, in mancanza di altre alternative, una forma di nazionalismo antimperialista (vedi La crociata infinita). L'intervento cioé ha fornito e/o rinnovato un sostegno di massa ad una corrente che invece era in declino in tutta una serie di Paesi (Algeria, Egitto, ecc.). Uno di questi segnali sono le elezioni pakistane di ottobre. Sei partiti religiosi filotalebani ed antioccidentali uniti nella Muttahida Majlis-e-Amal (MMA) hanno raddoppiato i loro consensi nell'Assemblea nazionale e amministreranno due ampie province del NordOvest ai confini dell'Afghanistan e, in coalizione, anche il Baluchistan, pure confinante con l'Afghanistan, ma più a Sud. Luke Harding sul Guardian del 12 ottobre in Pakistan election result creates new Islamist heartland riporta le dichiarazioni del leader Qazi Hussain Ahmed: " E' una rivoluzione. Non accetteremo mai le basi USA, che devono andarsene immediatamente, e la cultura occidentale. I Talebani sono nostri fratelli, è brava gente." Najam Sethi, direttore di un rispettato quotidiano pakistano ha affermato che "dare la caccia ai Talebani e ad Al Qaeda è ora diventato un compito quasi impossibile. Perduto l'Afghanistan hanno trovato una nuova base nella propria terra."

Non vanno meglio le cose in Afghanistan, ben lontano dall'essere "stabilizzato". Su Internazionale n.458 è apparsa la traduzione di un interessante reportage di Ahmed Rashid per The Nation dove afferma che "Il successo della guerra afgana guidata dagli Stati Uniti non dipende tanto dalla cattura dei membri di al Qaeda quanto dal garantire che la crescente crisi politica non provochi la fine del governo Karzai. La regione afghano-pakistana è la chiave di volta per assicurare che Al Qaeda non riemerga come una forza militare sotto una nuova maschera islamista o nazionalista. In ogni parte del mondo Al Qaeda opera nella clandestinità e in segreto; in Afghanistan, invece, spara razzi contro le truppe americane in pieno giorno." "Molti pashtun, il gruppo etnico maggioritario (maggioritario anche nelle zone tribali pakistane dove gli islamisti hanno vinto le ultime elezioni, n.d.r.) hanno seri motivi di risentimento verso il governo. A causa del sostegno che molti di loro hanno fornito ai talebani, si sentono vittime sia degli americani sia dei tagichi dell'alleanza del Nord, che dominano l'esercito, la polizia e l'apparato dei servizi di Kabul. Molti pashtun ritengono che Karzai, per quanto appartenente alla loro stessa etnia, sia ostaggio del potere e delle politiche di tagichi e americani." Non si può dar loro torto. Il fatto che Karzai si sia affidato ad una scorta statunitense è la dimostrazione plastica di una debolezza politica strutturale. Il personaggio del resto non è privo di fiuto: qualche settimana dopo è stato vittima di un attentato e solo la presenza di quella scorta gli ha permesso di portare in salvo la pelle.

Gli USA hanno conseguito dunque un indubitabile vantaggio tattico su Al Qaeda neutralizzandone la base d'appoggio, ma la reazione nazionalista di massa che hanno scatenato (anche se ora non si esprime in forma violenta) ha rifornito d'acqua il pesce che non sapeva più dove nuotare.

Una guerra per il petrolio?

L'amministrazione Bush dunque ha tratto una lezione dalla guerra afgana: si può osare. E sotto la spinta di questa vittoria tattica spera di ottenerne un'altra, con la stessa facilità, contro un altro avversario. Come si sa l'argomento ufficiale degli USA per giustificare la guerra è che l'Iraq sarebbe in possesso o potrebbe produrre in breve tempo, armi di distruzione di massa. Al fine di evitarlo, lo si deve colpire in tempo utile, di qui la dottrina dell'"attacco preventivo".

Naturalmente l'Iraq non ha armi di distruzione di massa, come provano la gran parte degli analisti e degli organismi internazionali di controllo che non sono direttamente dipendenti dall'amministrazione Bush (si vedano a questo proposito le utili schede preparate dal sito di Un ponte per). La stessa Israele si prepara a far fronte ai pochi Scud che rimangono a Saddam, non certo ad arsenali fantasmagorici. L'Iraq è oggi molto più debole e disarmato di quanto lo fosse alla vigilia dell'invasione del Kuwait. Su questo punto non ci dilunghiamo oltre, e ci soffermiamo invece su quella che non solo la sinistra, ma anche larga parte delle classi dominanti ritengono la vera ragione della guerra che si prepara: il petrolio.

Questa rivista ha molto insistito a suo tempo per far comprendere che, con il petrolio, la guerra d'Afghanistan non c'entrava nulla in maniera diretta (come non c'entra nulla in maniera diretta con la guerra che prosegue contro Al Qaeda), nel caso dell'Iraq invece, ovviamente, il petrolio c'entra assai. Non vorremmo però che da qui ne derivassero le solite interpretazioni economiciste e facilone, del tipo che quella che si prepara sarebbe una guerra scatenata dal petroliere Bush per favorire i propri personali investimenti. La faccenda è un po' più complessa. Per gli USA non si tratta solo di mettere fisicamente le mani sul petrolio (dalla tabella che riproduciamo qui sotto si vede come il petrolio dell'Iraq sia già largamente disponibile sul mercato), ma di controllarlo da ogni punto di vista. Esempio: anche il petrolio della Libia finisce in Occidente, ma i profitti che i libici ne ricavano rimangono in larga parte in patria per investimenti locali. Lo stesso accade nel caso dell'Iran. Il petrolio delle monarchie del Golfo invece (Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, RAU, Oman, Bahrain), sostenute da USA ed Europa (che benevolmente le fregiano dell'appellativo di "Paesi arabi moderati", nonostante che di moderato non abbiano nulla visto che vi regna il più tetro fondamentalismo) va ad arricchire ristrettissime elites che riversano gran parte delle proprie disponibilità finanziarie nelle banche occidentali. Di ciò ha scritto sullo scorso numero Ilario Salucci (Dodici anni fa, la guerra del Golfo). Secondo questo meccanismo il petrolio rimane formalmente "proprietà" dei Paesi produttori ma è nei fatti dell'Occidente, che considera il poco che rimane nei Paesi produttori una sorta di tassa, che si deve pagare agli sceicchi. Una tassa di entità del tutto sopportabile per Europa ed USA, anche se fino agli anni cinquanta-sessanta, prima che il petrolio fosse nazionalizzato in gran parte dei Paesi produttori strappandolo al controllo diretto delle multinazionali (le "sette sorelle"), i Paesi occidentali hanno fatto di tutto per non pagarla.

 

 
RISERVE
miliardi di barili
01/01/2002
PRODUZIONE
migliaia di barili al giorno
2001
ESPORTAZIONE
migliaia di barili al giorno
2001
Arabia Saudita
261,75
8.700
5.440
Iran
89,70
3.800
1.930
Iraq
112,50
2.400
1.460
Kuwait
96,50
1.800
1.235
Emirati Arabi Uniti
97,80
2.200
1.500
Qatar
15,21
670
504
Oman
5,51
960
905
Yemen
4,00
450
275
Medio Oriente
682,96
20.980
13.249
Algeria
9,20
860
550
Libia
29,50
1.380
988
Nigeria
24,00
2.100
1.808
Angola
5,41
740
700
Kazakistan
5,42
787
603
Azerbaigian
1,18
300
178
Turkmenistan
0,55
147
85
Indonesia
5,00
1.300
428
Messico
26,94
3.560
1.600
Venezuela
77,69
2.900
2.354
Norvegia
9,45
3.410
3.050
Russia
48,57
7.020
4.740

fonte: Oil and Gas Journal (riprodotto su Internazionale n.458)

Ma limitarsi a pagare una tassa, mantenendo la disponibilità geopolitica e finanziaria della risorsa petrolifera, suppone il controllo politico sui Paesi produttori, significa garantirsi che le loro classi dominanti agiscano da passive intermediarie, limitandosi a sottrarre alla torta una piccola fetta. Quando gli USA parlano di "stabilizzare" l'area dicono in realtà questo: che quell'area deve essere riportata politicamente sotto il proprio controllo. Che l'Iraq sia il secondo deposito mondiale di petrolio dunque, ha certo la sua importanza, ma, ai fini della stabilizzazione, per gli USA è pericoloso anche un Paese con poco petrolio, ma che costituisce un ostacolo per il controllo politico dell'area. Nel corso degli anni ottanta ad esempio gli USA avevano puntato il dito contro la Siria, perchè, grazie al ruolo da lei giocato in Libano, poteva condizionare il predominio israeliano sull'area. E la Siria di petrolio ne ha pochino. Gli USA vogliono far sì che non emergano potenze regionali concorrenti al proprio dominio, vogliono impedire il sorgere di minipotenze che possano giocare un ruolo egemonico in una determinata area, seppur circoscritta, a meno che ciò non avvenga per "mandato" USA (o europeo).

L'interesse USA ad intervenire nell'area è dunque direttamente politico e solo in ultima istanza economico. Le iniziative USA cioè non sono dettate da interessi economici immediati, anche se gli interessi economici sono quelli che in ultima istanza spiegano le sue strategie. Ed anche riguardo agli interessi economici, questi non si limitano al petrolio: "liberare" i Paesi arabi da regimi nazionalisti quali quelli di Siria, Libia, Iraq, Iran, significa ad esempio "aprire" ai propri prodotti e ai propri investimenti un mercato di più di cento milioni di potenziali consumatori.

Il dominio politico dell'Occidente

Il dominio politico dell'Occidente sull'area mediorientale è assicurato da alcune roccaforti. Ma la storia recente ha dimostrato che l'unica roccaforte vera, resistente, efficiente, dal punto di vista degli interessi occidentali è Israele. Sui tempi e sui modi in cui ciò è avvenuto si vedano i due articoli che questa rivista ha pubblicato sul presente numero (Israele e gli interessi degli Stati Uniti in Medio Oriente di Gilbert Achcar e Perchè gli USA appoggiano Israele di Stephen Zunes). Nei commenti occidentali è usuale la caratterizzazione ideologica di Israele come "pezzo di Occidente nel mondo arabo", oppure "unica democrazia del Medio Oriente". Si tratta di coperture ideologiche di un non detto assai poco nascosto: Israele rappresenta l'avamposto dell'Occidente in quelle terre, con una funzione assai simile a quella ricoperta a suo tempo dagli Stati Crociati. Se non fossimo appieno dentro una tragedia ci sarebbe da ridere se si pensa come l'Occidente cristiano ha trattato gli ebrei per secoli. Gli unici decenni in cui l'Occidente difende gli ebrei invece di sterminarli sono, guarda caso, gli ultimi cinque, da quando cioè una parte di essi s'è trasferita fuori dall'Occidente geografico e s'è resa indispensabile alla tutela degli interessi strategici imperiali in Medio Oriente. Nell'ottica occidentale Israele è una colonia, sostenuta e protetta con lo stesso spirito con cui lo zar alimentava gli insediamenti cosacchi, costituiti dai reietti della società russa (servi della gleba fuggiti, ecc.), ma che nel momento in cui assumevano un ruolo centrale nella strategia russa (difendere i confini dell'impero in terre inospitali) venivano esaltati e fatti oggetto di culti romantici. Israele è una fortezza in terra straniera che assicura un ordine regionale, depotenzia e controlla le ambizioni regionali degli stati arabi. La sua sola esistenza ad esempio ha sempre scoraggiato qualsiasi serio tentativo di rivoltare la dittatura monarchica in Giordania.

Mantenere roccaforti costa caro agli USA. La tabella qui sotto mostra l'entità della spesa per il mantenimento della colonia israeliana e della fedeltà di Egitto e Giordania. Per avere un'idea dell'entità di questi esborsi "a fondo perduto" si deve pensare che essi corrispondono a una percentuale dal 3 al 5% del Prodotto Interno Lordo di questi paesi, il che, tanto per fare un paragone corrisponderebbe annualmente a un paio di finanziarie ordinarie dell'Italia.

 

gli aiuti USA in Medio Oriente (in milioni di dollari)
a ISRAELE
all'EGITTO
alla GIORDANIA
economici
militari
economici
militari
economici
militari
1994
1.200
1.800
815
1.300
1995
1.200
1.800
815
1.300
1996
1.200
1.800
815
1.300
1997
1.200
1.800
815
1.300
1998
1.200
1.800
815
1.300
150
1999
1.080
1.800
815
1.300
150
45
2000
960
1.800
815
1.300
150
76
2001
840
1.980
815
1.300
150
76
1948-2001
30.000
50.000
1950-2001
26.000
da Limes n.2, 2002

 

Il dominio occidentale sul Medio Oriente dunque si basa su Israele e in secondo luogo sull'Egitto (la Giordania è ininfluente negli equilibri mediorientali e la sovvenzione della sua fedeltà serve solo a non creare problemi ad Israele). Altri bastioni sono l'Arabia Saudita e la Turchia. Ma Iran, Siria e Iraq sono entità ostili. Se vogliamo estendere il nostro sguardo al di sopra del Medio Oriente per abbracciare l'intero mondo arabo e poi, oltre, l'intero mondo islamico, vedremo con facilità che questo territorio appare, agli occhi USA, estremamente instabile e infido.

L'incerta fedeltà

La fedeltà egiziana costa cara e quella turca è poco spendibile nel mondo islamico per una serie di fattori (la Turchia guarda verso l'Europa e le zone turcofone). Nel mondo islamico gli alleati tradizionali USA e che per potenza possono svolgere un ruolo di guardiani regionali dell'ordine imperiale sono Arabia Saudita, Indonesia e Pakistan. E la novità del periodo, e che spiega in parte la necessità dell'interventismo USA, risiede proprio nella difficoltà che questi stati vivono di continuare ad essere bastioni degli intressi occidentali.

Si tratta di stati che devono la costituzione della propria identità nazionale all'Islam. Il Pakistan si è separato dall'India a suo tempo su questa base identitaria. L'Arabia Saudita fonda la propria legittimità nell'essere terra dei luoghi sacri all'Islam. L'Indonesia, mosaico di lingue, è pure attratta dall'orbita dell'identità islamica, perchè quella più tipicamente etnica (fondata essenzialmente sull'etnia dominante: quella giavanese) godrebbe di un consenso estremamente limitato, insufficiente a tenere insieme migliaia di isole a centinaia di chilometri di distanza e con culture affatto diverse. Ognuno di questi stati è "costretto" ad alimentare le ragioni della propria esistenza. L'Arabia Saudita "deve" aiutare le correnti islamiste perchè se nel mondo arabo (ri)sorgessero correnti di sinistra o nazionaliste laiche come già accaduto quarant'anni fa, questo segnerebbe, prima o poi, anche la sua fine. Si tratta di un investimento sulla propria sopravvivenza. Negli anni cinquanta quando il nazionalismo baasista e nasseriano imperversavano nei Paesi arabi, ed anche in Iran, erano le monarchie del Golfo ad essere prese nel mirino: zone spopolate le cui ristrette classi dirigenti dilapidavano e dilapidano le ricchezze del petrolio invece di rafforzare la "nazione" araba. Se non ci fossero stati gli USA e l'Europa non c'è dubbio che i popolosi stati arabi si sarebbero fatti un sol boccone delle deboli e corrotte monarchie della penisola arabica. Per questo l'Arabia Saudita è stata costretta a guadagnarsi un consenso di massa nei Paesi arabi che consentisse di soffocare sul nascere le contestazioni alla sua essenza (dipendente dall'appoggio occidentale da ogni punto di vista), a favore invece di una ideologia che assorbisse le speranze popolari di cambiamento nella prospettiva di una società dominata dalla legge islamica e rispetto alla quale essa poteva apparire l'esempio concreto. L'Arabia Saudita sperava dunque che incanalando il desiderio di cambiamento entro l'ideologia islamista, avrebbe così evitato che le masse arabe le si rivoltassero contro servendosi di ideologie (panarabismo, socialismo, ecc.) che scoprissero il ruolo nefasto che essa gioca per gli intressi nazionali arabi. Ed ha così contribuito, con grandi esborsi finanziari, a formare in tanti stati arabi (e non) generazioni di attivisti che nelle università, negli ordini professionali e in alcuni casi anche tra le masse impoverite hanno contrastato la sinistra e i nazionalisti laici, da posizioni di contestazione radicale del proprio stato.

Si tratta di un'analisi oggi accettata dalla gran parte degli osservatori, anche di tendenze politiche opposte. Ecco cosa scrive Carlo Jean docente di studi strategici alla Luiss su Limes (quaderno speciale n.4 2001):

[al formarsi dello stato saudita] "gli Stati Uniuti divennero i garanti della stabilità interna e, successivamente, della sicurezza esterna contro le micacce al ricchissimo e fragile regno. Tali minacce non provengono solo dalle altre due potenze del golfo, Iraq e Iran, ma anche dall'Egitto, che ha sempre ambito ad avere accesso alle ricchezze della penisola. Inoltre, la dipendenza strategica dagli Stati Uniti è aumentata anche a seguito della rivoluzione khomeinista in Iran. [...] La dipendenza dagli USA è tuttavia in aperta contraddizione con il ruolo che la monarchia saudita deve giocare nel mondo islamico, la cui identità si esprime soprattutto in una retorica antioccidentale [...] La legittimità interna del potere saudita poggia sul wahabbismo, quello mondiale si fonda sul suo ruolo di difensore dell'islam, mentre la sicurezza esterna si basa sul sostegno degli Stati uniti. Le politiche tradizionalmetne seguite per soddisfare tutte e tre queste esigenze sono entrate in crisi perché contradditorie tra loro."

Nel miglior libro sul fondamentalismo islamico che si trova in commercio in italiano, "Jihad, ascesa e declino", Gilles Kepel afferma che "nel contesto geopolitico dell'epoca -quello cioé della guerra fredda- questa corrente wahhabita-islamista, che prospera sotto la protezione della monarchia saudita, alleata diretta degli Stati Uniti, e che giura eterna ostilità a Nasser e ai socialisti arabi, è vista di buon occhio dal blocco occidentale. [...] Diventando l'amministratore unico di un immenso impero della beneficienza e della carità, il potere saudita cerca di legittimare una prosperità che viene identificata con la manna divina, in quanto è scesa sulla penisola dove il Profeta Maometto ha ricevuto la Rivelazione. Ciò permette di difendere una monarchia fragile, proiettandola verso l'esterno nella sua dimensione caritatevole e religiosa. E contribuisce a far dimenticare che la protezione del regno poggia in ultima istanza sulla potenza militare americana e che il regime, i cui ulema vilipendono gli empi e l'occidente, è sotto la stretta dipendenza degli Stati Uniti".

La diffusione di una ideologia come copertura dei propri interessi nazionali del resto non è certo una novità nella storia umana. Anche l'Unione Sovietica dall'avvento dello stalinismo in poi ha alimentato i partiti "comunisti" di sua stretta osservanza in gran parte dei Paesi del mondo, al fine di garantirsi l'esistenza, ovunque, di gruppi di pressione che favorissero i suoi interessi nazionali. La copertura ideologica era quella dell'"internazionalismo proletario", ma ovviamente, dato che la sostanza era altra, l'internazionalismo veniva rapidamente dimenticato quando erano in gioco gli interessi nazionali sovietici. Basti pensare all'appoggio dei "comunisti" argentini alla dittatura di Videla (quella dei desaparecidos, indicata come "male minore") perché quel Paese garantiva l'invio di grano all'URSS. Allo stesso modo i gruppi fondamentalisti dovevano servire a garantire una legittimità incontestata all'Arabia Saudita, il sostegno del clero locale, il contenimento delle mire sovietiche (in Afghanistan, ad esempio), permettendo allo stesso tempo agli sceicchi di continuare a dilapidare il petrolio arabo.

Ma i soldi non possono sbarrare il passo alle spinte sociali che salgono dal ventre della società. Le masse dei Paesi arabi, e islamici, continuano ad impoverirsi nonostante quelle terre dispongano del liquido che fa girare il mondo. Anche al semplice "uomo della strada" i conti non tornano. E così le rivendicazioni nazionali, distrutte nelle forme laiche e/o socialiste, si sono servite della forma fondamentalista. Naturalmente queste forme non sono tra loro equivalenti. Per noi della sinistra è un dramma che le spinte nazionali e antimperialiste siano incanalate da una corrente reazionaria, oscurantista, anticomunista e misogina. Ma per combatterla meglio occorre comprendere perché essa gode di popolarità in quei Paesi, in modo da poter rispondere alle stesse esigenze dando altre, e su molti aspetti opposte, risposte.

La dinamica non rende particolarmente felici noi di sinistra, dunque, ma nemmeno gli sceicchi sprizzano di gioia. La rivoluzione iraniana costituisce l'esempio più calzante: si è trattato di una rivoluzione politica che ha assunto la forma del fondamentalismo religioso, e che ha escluso gli USA e le loro multinazionali da ogni influenza su quella terra, producendo contro l'Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo serissimi tentativi di destabilizzazione. Le rivendicazioni antioccidentali prendono oggi la forma religiosa ("cacciare gli americani dalla terra sacra all'Islam"), e Bush dopo l'11 settembre, l'ha dovuto capire. L'islamismo radicale che gli stessi USA e le monarchie sue alleate avevano sostenuto, gli si è rivoltato contro e in maniera ancor più cruda di quanto avrebbero mai fatto nasseriani e socialisti.

Non dissimilmente in Pakistan il sostegno statale ai gruppi islamisti radicali costituiva la forma che prendeva l'ambizione di piccola potenza regionale: nel combattere l'India e guadagnare il Kashmir e nell'influenza esercitata sull'Afghanistan attraverso i talebani. Kepel scrive nel libro citato: "Senza l'islam, il Pakistan non ha ragione d'essere: nulla giustifica la sua esistenza separata dall'India, e ben poco unisce i popoli che lo compongono, pashtun e sind, punjubi, baluchi e muhajir, per non parlare dei bengalesi, che si separarono dal pakistan nel 1971." Qualcosa di simile si potrebbe dire per l'Indonesia (vedi L'attentato di Bali e l'esercito indonesiano) dove i gruppi islamisti radicali sono stati usati contro comunisti (la prima apparizione pubblica della Laskar Jihad - milizia della guerra santa- è il 7 aprile 2000 in una grande manifestazione a Giacarta dove si contesta l'idea di Wahid, in nome della riconciliazione nazionale, di riabilitare i comunisti) e minoranze nazionali, e ora costituiscono un fattore di contraddizione con gli USA.

Gli USA dunque sono nei pasticci: Pakistan, Arabia Saudita ed Indonesia, in teoria grandi alleate islamiche, hanno dei limiti strutturali ad offrire il proprio sostegno agli USA: tanto più li aiuteranno quanto più la loro legittimità statale verrà compromessa, e dunque cresceranno contestazioni radicali ai suoi gruppi dirigenti. Possono limitarsi a collaborare (quanto più possibile di nascosto dai propri cittadini) con la CIA, ma di ben altro hanno bisogno gli USA: di una lotta e di una repressione di massa nei contronti di questi movimenti, simile a quella combattuta contro la sinistra. Ma mentre la sinistra era estranea alla formazione di quegli stati, la lotta contro gli islamisti radicali avverebbe sullo stesso terreno dell'identità statale, con il concreto pericolo, dunque, di eroderla. Il jihadismo di al Qaeda infatti è una variante antiUSA dell'ideologia fondamentalista sulla quale si basa lo stato dell'Arabia Saudita e delle altre mobnarchie del Golfo. Per questo l'interventismo armato degli USA non è "pazzesco", ma è portatore di una sua precisa logica imperiale: gli USA dispongono di ben pochi amici fidati su un territorio immenso e dalle immense risorse. Sono costretti ad intervenire in prima persona perché solo così saranno in grado non solo di rovesciare regimi ostili, e dunque sperare di ergere nuove fortezze, ma anche di intimorire degli alleati (in primis Arabia Saudita) che dopo l'11 settembre paiono loro pavidi e inaffidabili.

Ed è a questo livello che, dal punto di vista degli USA, la prima guerra, quella contro Al Qaeda e la seconda, quella contro l'Iraq, si ricongiungono in una stessa logica. La relazione che Bush propone tra il terrorismo di Al Qaeda e l'Iraq è pacchianamente falsa: non vi è alcun collegamento. Ma il collegamento è a livello della logica imperiale del controllo politico di un enorme territorio. Ed arriviamo ora alla nostra conclusione.

Fortezze nel deserto

La terra dove l'Islam è maggioritario è anche la terra più ricca di petrolio: i Paesi del nord Africa (Algeria, Libia), dell'Africa nera (Nigeria), del Mar Caspio (Kazakistan, Azerbaigian, Turkmenistan), dell'Asia del sud est (Indonesia) dispongono dei quattro quinti delle riserve mondiali. L'islam è l'unica religione di massa ad essere esclusivamente presente nel Terzo Mondo (e nella popolazione povera e/o immigrata del Nord del mondo). In questa terra, assolutamente necessaria ai suoi interessi (e a quelli dell'Europa) gli USA si trovano a fronteggiare una oscillazione identitaria, che fa sì che larghe masse trovino più conveniente riconoscersi come "islamici" che come indonesiani, arabi o pashtun. Per "oscillazione identitaria" intendiamo questo: le identità nazionali che convivono dentro ognuno di noi (siamo italiani e/o meridionali e/o europei) vengono resuscitate, messe in disparte o esaltate a seconda della congiuntura storica nella quale esse sono messe in gioco. Assistiamo ad esempio da anni al tentativo delle elite europee di accrescere nei cittadini l'identità europea, per facilitare il disegno della creazione di un nuovo polo imperiale unificato che possa fronteggiare gli USA e le altre potenze. Ma subito dopo l'11 settembre siamo stati chiamati da tutti i mass media e dai ceti dirigenti a "sentirci" occidentali: siamo stati cioè chiamati ad esaltare un'identità che accomunasse in un solo fronte USA ed Europa. Ecco il caso di una "oscillazione identitaria" dovuta alla necessità di "fronteggiare il nemico comune": l'islam, come similmente avvenne in un'Europa tradizionalmente in guerra al suo interno ai tempi della "minaccia" turca. Un processo simile sta avvenendo anche nei Paesi islamici, perchè il riflesso condizionato delle masse e anche di fette delle classi dirigenti locali è quello di fronteggiare un Occidente, percepito sempre più come rapace e minaccioso, con la più larga unità possibile, e dunque ecco che l'utopia della umma, l'unità delle terre islamiche, ha più successo della prospettiva dell'unità araba o di quella del proprio piccolo e impotente stato, specie dopo il fallimento e/o la repressione delle alternative socialiste e nazionaliste laiche. Questa oscillazione come già abbiamo scritto sopra non è favorevole alla sinistra, e questo problema sarà oggetto di una successiva trattazione.

Quel che ci interessa qui sottolineare è che in questa terra a loro ostile gli USA (negoziando con l'Europa il prezzo del suo appoggio) vogliono dunque sradicare una corrente politica ostile (guerra ad Al Qaeda) e riconquistare dei bastioni perduti (ora guerra all'Iraq, e poi all'Iran, quindi alla Libia) facendo leva sul proprio apparato militare, in una stessa logica di controllo imperiale del territorio. Ma è anche a questo livello che si colloca la più profonda contraddizione dell'interventismo USA: ogni suo intervento provocherà una reazione difensiva uguale e contraria, consoliderà una oscillazione identitaria che troverà nella lotta all'Occidente il suo nucleo costitutivo, mentre ogni nuovo bastione conquistato demolirà i vecchi, e ogni nuova muraglia alzata apparirà alta e temibile, ma inesorabilmente vuota al suo interno.