Operai e contadini in Iraq: il percorso del movimento comunista. Seconda parte 1963-1990.
Per capire questa esperienza quasi unica nel Medio Oriente è necessario ripercorrere non solo le vicende interne del PCI, le discussioni che ha conosciuto, i drammatici errori commessi, le azioni eroiche compiute per organizzare la classe operaia, le scissioni che ha vissuto. E’ necessario anche ripercorrere in un certo qual modo la storia irachena, segnata indelebilmente dalle lotte delle classi subalterne. Di Ilario Salucci. Gennaio 2003.


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Il movimento comunista e i regimi nazionalisti

L’8 febbraio 1963 un colpo di stato militare rovescia il regime di Qasim (che si arrende il giorno dopo e subito viene giustiziato) e diviene capo di stato ‘Abd-us-Salam ‘Aref, l’ex "numero due" della rivoluzione del luglio 1958. Nella coalizione che sale al potere l’elemento predominante è il Ba’th, che fornisce il primo ministro, Ahmad Hasan al-Bakr, e il viceministro, ‘Ali Sadeh as-Sa’di, segretario generale del Ba’th e vero uomo forte del regime, con il controllo personale della Guardia Nazionale, la forza paramilitare del partito che cresce dal febbraio all’agosto 1963 da 5.000 a 34.000 persone, e che è alla testa della repressione. Il Ba’th nel febbraio 1963 era un’organizzazione di soli 830 aderenti (di cui il 20% di lavoratori e il 5% di contadini) e di circa 15.000 simpatizzanti. Quando inizia il colpo di stato il PCI lancia un appello alla mobilitazione con la parola d’ordine "Alle armi! Schiaccia la cospirazione reazionaria e imperialista!". Manifestazioni si svolgono nei maggiori centri, ma Qasim l’8 febbraio si rifiuta di far distribuire le armi: l’esercito spara contro i manifestanti, armati per lo più di semplici bastoni, facendo centinaia di vittime. Il giorno successivo la resistenza comunista è spezzata ovunque, salvo sacche che resisteranno fino al 12 febbraio (in particolare a Basrah). Il "Consiglio del Comando Rivoluzionario" scrive nel suo proclama n° 13: "i comandanti delle unità militari, la polizia e la Guardia Nazionale sono autorizzati ad annichilire chiunque disturbi la pace. I leali figli del popolo sono chiamati a cooperare con le autorità fornendo informazioni e sterminando questi criminali". Dall’8 al 10 febbraio vengono uccise tra le 1.500 e le 5.000 persone, di cui almeno 350 comunisti. I quartieri delle città dove si era sviluppata la resistenza contro il colpo di stato vengono trattati come territorio nemico con rastrellamenti di massa, arresti generalizzati, stragi e stupri.

Il futuro dirigente della sinistra del PCI, al-Hajj, riconsiderando quei giorni, affermerà che la resistenza al colpo di stato fu un atto "glorioso" del Partito, che lo salvò politicamente, mentre il vero errore fu commesso nel 1958-63 quando "l’intera strategia del nostro partito si basava su un principio errato, quello per cui piuttosto di iniziare una guerra civile, dovevamo evitarla a tutti i costi. Allo stesso tempo le altre forze…stavano affilando i loro coltelli per massacrarci al momento migliore".

Nei mesi successivi la repressione anticomunista è durissima. Non una singola struttura comunista nell’Iraq arabo riesce a reggere alla repressione. Il segretario generale ar-Radi è arrestato il 20 febbraio e muore dopo quattro giorni di torture; i due segretari che gli succedono, Jamal al-Haidari e Muhammad Salih al-‘Aballi, vengono arrestati il 21 luglio e giustiziati. Nel corso del 1963 vengono uccisi sette membri (su 19) del Comitato Centrale, e le "esecuzioni legali" di comunisti sono 150 — ma quelle "illegali"sono molto più numerose. Nel novembre 1963 i comunisti in carcere ammontano a 7.000. I membri responsabili del partito cercano nel corso dell’anno di salvare dalla repressione il maggior numero dei militanti, facendoli evacuare dalle città in direzione delle campagne o del Kurdistan. L’attività del partito per un anno e mezzo è pressoché nulla. Il colpo subito dal PCI è ancor più duro di quello patito nel 1949.

La coalizione ba’thista-militare, se è altamente efficiente nella repressione anticomunista, è però molto instabile, con continue divisioni al suo interno. Batatu commenta la compagine governativa di questo periodo con le parole di Dostojevski: niente è più difficile dell’avere un’idea, o più facile del tagliare delle teste. I nasseriani presenti al governo vengono allontanati nel maggio 1963, l’Iraq rompe con l’Egitto di Nasser a luglio e la guerra nel Kurdistan riprende a giugno (il PCI appoggia le forze kurde e tenta a luglio un colpo di mano, fallito, alla principale base militare del paese, quella di ar-Rashid). Lo stesso Ba’th si spezza: a ottobre al congresso nazionale (panarabo) del Ba’th vince l’ "ala sinistra", con parole d’ordine per la "pianificazione socialista", per "un’agricoltura collettiva gestita dai contadini", per il "controllo democratico dei lavoratori sui mezzi di produzione" e per un "partito che si basi per l’essenziale sugli operai e sui contadini". In Iraq l’ "ala sinistra" è rappresentata da as-Sa’di, che si proclama improvvisamente "marxista": con lui si schiera la Guardia Nazionale, la Federazione Studentesca e il Sindacato Generale dei Lavoratori. Questa situazione mette in allarme gli ufficiali dell’esercito e l’ "ala destra" del Ba’th, rappresentata dal capo del governo al-Bakr. Dall’11 al 18 novembre l’Iraq è nel caos: ufficiali dell’esercito, armi in mano, intervengono al congresso del Ba’th iracheno per imporre una direzione di "destra", as-Sa’di viene mandato in esilio a Madrid (rientrerà successivamente in Iraq per fondare e dirigere un "Partito Rivoluzionario dei Lavoratori" che non avrà mai alcun peso), ufficiali ba’thisti di "sinistra" bombardano la base militare di ar-Rashid, le strade di Baghdad sono in mano ai militanti ba’thisti di "sinistra" e alla Guardia Nazionale. Il Sindacato Generale dei Lavoratori fa appello perché vengano giustiziati i borghesi che stanno portando i loro capitali all’estero e chiede l’immediata socializzazione delle fabbriche e la collettivizzazione dell’agricoltura. Il 18 novembre scatta un nuovo colpo di stato gestito dal capo di stato ‘Abd-us-Salam ‘Aref con il generale di brigata suo fratello ‘Abd-ur-Rahman. La sede della Guardia Nazionale viene bombardata e l’ordine viene ripristinato a Baghdad.

Il regime diretto da ‘Abd-us-Salam ‘Aref dura fino alla sua morte accidentale, avvenuta il 13 aprile 1966. In una prima fase, dal novembre 1963 al febbraio 1964, il blocco al potere è una coalizione di militari nazionalisti fedeli personalmente ad ‘Aref, militari ba’thisti "di destra" e militari nasseriani. Una seconda fase si estende dal febbraio all’agosto 1964, e l’elemento predominante al vertice dello stato sono i militari nasseriani, mentre quelli ba’thisti vengono allontanati dai centri di potere (tenteranno un fallito colpo di stato). E’ in questo periodo che viene annunciato un Consiglio Presidenziale congiunto con l’Egitto, la formazione di un partito unico, l’Unione Socialista Araba, sponsorizzato dallo stato (su imitazione dell’Egitto), la nazionalizzazione di tutte le banche e le assicurazioni e delle maggiori imprese industriali e commerciali e la distribuzione del 25% dei profitti ai lavoratori. I militari nasseriani richiedono il monopolio del commercio estero, ma si scontrano con il rifiuto netto dei loro alleati: questo provoca la rottura con i militari fedeli ad ‘Aref, che ad agosto assumono da soli il potere (anche i militari nasseriani tenteranno un fallito colpo di stato). Inizia la terza fase, che, iniziata nell’agosto 1964, terminerà con la morte di ‘Abd-us-Salam ‘Aref nell’aprile 1966, caratterizzata da un gruppo di potere con un orientamento nazionalista conservatore che tenterà, in una situazione di caos economico, con massiccie fughe di capitali all’estero e licenziamenti, di fare una parziale "marcia indietro" rispetto alle misure adottate nella primavera 1964 dai nasseriani. Anche in questo periodo si registra un fallito colpo di stato. Alla morte di ‘Abd-us-Salam ‘Aref gli succede il fratello, ‘Abd-ur-Rahman ‘Aref. Resta al potere, continuando la politica del fratello, fino al luglio 1968, quando viene deposto dal colpo di stato ba’thista e costretto a un dorato esilio in Gran Bretagna. In Kurdistan era stata siglata la pace nel febbraio 1964, ma la guerra riprende nell’aprile 1965. Si protrae fino al giugno 1966, quando viene siglata una nuova pace.

Dopo il colpo di stato del novembre 1963 la repressione contro il PCI si allenta, e consente una lenta opera di ricostruzione del partito, con la circolazione (solo interna) di copie manoscritte dell’organo del partito, Tariq-ush-Sha’b. Fino all’estate 1964 l’organismo dirigente è il "Comitato all’estero per l’organizzazione del Partito Comunista", i cui membri vivono nei paesi dell’Europa orientale, che denuncia il regime di ‘Aref come una "dittatura militare reazionaria".

La pace con i kurdi del febbraio ’64, gli avvenimenti egiziani (rilascio dei detenuti comunisti, allacciamento di stretti rapporti con l’URSS, le discussioni sull’autoscioglimento dei due PC egiziani e sul loro ingresso nel partito unico di Nasser, l’Unione Socialista Araba), e la svolta nasseriana a Baghdad (con le nazionalizzazioni e il miglioramento dei rapporti con l’URSS che inizia a rifornire di armi l’Iraq) porta il PCI ad operare una netta svolta politica nell’agosto 1964, adottata da un Comitato Centrale riunitosi clandestinamente a Baghdad. Secondo la nuova "linea d’agosto", l’ "Egitto si pone sulla strada dello sviluppo non-capitalistico e verso il socialismo", e questo porta a riconsiderare la posizione del partito sulla questione dell’unità araba, con un’aperta autocritica della politica seguita nel 1958-63 su questo terreno: "è erroneo… che i comunisti continuino ad aggrapparsi alla democrazia politica come condizione per l’appoggio a qualsiasi unità araba… [quest’ultima dev’essere vista] alla luce del fenomeno dello sviluppo non-capitalistico e dell’avanzamento sociale che arricchisce il contenuto progressista dell’unità araba". Il Comitato Centrale valuta retrospettivamente positivo il colpo di stato del novembre 1963 che ha "rimosso gli incubi del regime fascista e della Guardia Nazionale… e ha creato condizioni più favorevoli per la lotta delle forze antimperialiste per preservare l’indipendenza nazionale, cambiare la politica ufficiale dell’Iraq e far rientrae il paese sulla via della liberazione araba". La conclusione politica è che "se noi ammettiamo la possibilità dello sviluppo dell’Iraq lungo linee non-capitaliste, da ciò ne consegue inevitabilmente che noi possiamo indirizzare la nostra politica non verso la conquista del potere da parte del nostro partito: noi dobbiamo rimanere all’avanguardia , ma vi sono forze che gradualmente stanno adottando i nostri obiettivi…allo stadio attuale il miglior governo in Iraq è una coalizione di tutte le forze patriottiche che combattono per la completa emancipazione e per il progresso sociale". Secondo i critici di sinistra del partito, si "vide la cooperazione con il Cairo… come la chiave di ogni sviluppo rivoluzionario in Iraq… e quindi [si] subordinò la pratica politica del partito alla volontà del Cairo e dei suoi partigiani a Baghdad". Il Plenum del Comitato Centrale dell’agosto 1964 elegge un nuovo Comitato Cnetrale, in parte in Iraq , in parte all’estero, e il nuovo segretario del partito, Aziz Muhammad ("Mu’in", "Nadhim ‘Ali").

La "linea di agosto" suscita grande indignazione tra i militanti, che vedono la svolta del partito come l’appoggio a coloro "le cui mani grondano del sangue del partito e del popolo": spesse volte i gruppi di base del partito ignorarono le indicazioni del CC e agirono per proprio conto. La base si sposta progressivamente a sinistra, e la direzione — dopo aver inutilmente provato con misure disciplinari a implementare la nuova linea — attua una "controsvolta" nella primavera e soprattutto nell’autunno 1965. Con la scomparsa definitiva degli elementi nasseriani dalla compagine governativa e la ripresa della guerra in Kurdistan, la direzione del PCI adotta lo slogan della "lotta violenta" per rovesciare il "regime dittatoriale" di ‘Aref e per "un governo di coalizione nazionale provvisorio con tutti i partiti e gruppi patriottici e antimperialisti… che istituisca una vita costituzionale parlamentare", facendo appello a Nasser perché riconsiderasse i suoi rapporti con il regime di ‘Aref, il "regime di un uomo" che apriva le porte all’influenza dell’imperialismo inglese e dei monopoli petroliferi.

Nell’ottobre 1965 si riunisce clandestinamente in Iraq un Comitato Centrale allargato, e il mese successivo, a Praga, il "Comitato all’estero per l’organizzazione", con all’ordine del giorno la questione della conquista del potere da parte del partito, in considerazione del fallimento del regime di ‘Aref e della sua base sociale ristrettissima. Durante la riunione in Iraq lo storico leader della destra ‘Amer ‘Abdallah ("Akram") è il maggior sostenitore dell’ "azione decisiva", mentre Baha’-ud-Din Nuri ("Yaser") argomenta la posizione contraria, sottolineando la passività delle larghe masse e la congiuntura internazionale sfavorevole. La maggioranza del Comitato Centrale approva le tesi di "Akram" e vota una risoluzione in cui si afferma che "è necessario enfatizzare ancor più il metodo di lotta che il partito ha adottato, e che si basa sul ruolo decisivo di H [la sezione del partito nelle forze armate] nel rovesciamento del potere dominante. H sarà appoggiato da altre misure rivoluzionarie che il partito prenderà e dalla rinascita dell’azione popolare nei vari settori". La discussione al "Comitato all’estero per l’organizzazione" (presente il segretario) si conclude con l’adozione di una "via mediana" tra le posizioni in discussione. Il documento finale incorpora i punti della sinistra di ‘Aziz al-Hajj sulla necessità della preparazione dell "guerra civile" e di Zaki Khairi sulla necessità della guerra partigiana nelle campagne arabe, ma sui compiti immediati fa proprio l’approccio moderato di ‘Abd-ul-Karim Ahmad ad-Daud: la preparazione dell’insurrezione popolare e della "guerra civile" viene vista come un compito "strategico" verso cui il partito dev’essere "seriamente" e "fermamente" orientato, tuttavia non si considerano questi preparativi come "il compito del momento". La sinistra interviene a sostegno di una politica di guerriglia, con richiami espliciti all’esperienza cinese e a quella castrista, denuncia (in modo molto attenuato) il sostegno di Mosca al governo iracheno e critica la politica seguita dal PCI a partire dal 1959. Secondo le parole di Zaki Khairi ("Jalil"): "Perché la questione della rivoluzione popolare da parte delle classi lavoratrici è stata evitata?… Il problema è che i compagni dirigenti al centro del partito non vogliono seriamente orientare il partito verso il potere. Il punto di vista non classista - che vinse nel 1959 - ha profonde radici… Non si tiene conto della questione kurda mentre è decisiva; lo stesso per la questione contadina; le proposte avanzate vengono rigettate perché non c’è nessuna seria tendenza verso il potere… Senza scatenare una lotta contro le idee di destra della direzione la linea rivoluzionaria non può prevalere… Se tale mentalità predomina, il partito non può essere diretto in un modo serio verso l’organizzazione della resistenza armata contro il regime esistente". Di fronte a queste critiche la risoluzione finale è un capolavoro di equilibrismo: "noi non sottoscriviamo il punto di vista secondo il quale bisogna chiudere la porta all’idea di una "azione indipendente del partito"… sottolineiamo che la formulazione di questa idea è la manifestazione di una nuova, importantissima tendenza nella politica del partito. L’idea dovrebbe essere discussa molto attentamente, e non vi è alcun motivo di accusare coloro che non ne sono ancora convinti di dissidenza e codardia". Al tempo PC aveva 5.000 membri, quasi nessun ufficiale nell’esercito e un radicamento praticamente nullo in ambito rurale.

Dall’ottobre 1965 il PCI mantiene una posizione radicale contro il regime di ‘Abd-us-Salam ‘Aref, e successivamente del fratello, nonostante gli apprezzamenti ricevuti dai governi iracheni sia da Mosca sia dal Partito Comunista Libanese, ma è solo nel febbraio 1967 che il PCI decide di formare piccole unità armate, mobili e fisse, nelle zone rurali e in una serie di città, e di iniziare una limitata guerra di guerriglia. La fraseologia di sinistra e questa tarda e limitata attività guerrigliera mantengono unite in questo periodo le varie componenti del PCI, ma nel giugno 1967 la disfatta araba nella guerra con Israele viene vissuta come uno spartiacque, la fine di un periodo storico, e fa scomparire questa sembianza di coesione. Il 17 settembre 1967 una consistente parte del PCI opera una scissione e fonda il "Partito Comunista Iracheno (Comando Centrale)".

Nel PCI si era formato fin dall’inizio degli anni ’60 un raggruppamento maoista, ma il maggior esponente di questa corrente venne espulso e venne congelata l’adesione al PCI degli altri aderenti a questa tendenza. Il dissenso riemerge (ed esplode) contro la "linea di agosto": il maggior esponente è ‘Aziz al-Hajj ‘Ali Haidar, un veterano del movimento comunista, entrato nel PCI nel 1946, in carcere dal 1948 al 1958, ed entrato lo stesso anno nel CC, dal gennaio 1967 segretario del PCI di Baghdad, dal febbraio dello stesso anno eletto nell’Ufficio Politico. Al-Hajj fonda il "quadro rivoluzionario", un raggruppamento interno al PCI che si era inutilmente battuto per democratizzare la vita interna del partito, ed è questo raggruppamento che opera la scissione nel settembre 1967. Il "PCI (Comando Centrale)" si rifiuta di schierarsi con la Cina o con l’URSS, e sostiene la necessità dell’armamento delle masse e della violenza rivoluzionaria organizzata in lotta armata popolare nelle città e nelle campagne. Si batte per un "regime popolare democratico rivoluzionario sotto la direzione della classe operaia", per "l’unità araba rivoluzionaria con un contenuto socialista" e per "la distruzione dello stato d’Israele e la creazione uno stato democratico arabo-ebraico". Una parte minoritaria, ma significativa, dei circa 5.000 aderenti al PCI segue la nuova organizzazione. Nel giugno 1968 il "PCI (Comando Centrale)" saluta positivamente le azione di guerriglia condotte da due anni nel sud dell’Iraq da un nucleo "foquista" diretto da Khalid Ahmad Zaki (successivamente ucciso dai militari), e procede a formare propri gruppi armati a Baghdad nel corso del 1968, con il nome di "Esercito popolare" e sotto il comando di Mu’in al-Nahar (un altro veterano comunista, ucciso in uno scontro a fuoco alla periferia di Baghdad). Nel febbraio 1969 l’intero Ufficio Politico viene arrestato: due dei cinque membri muoiono sotto tortura, mentre gli altri tre (compreso il segretario al-Hajj) accettano di collaborare con il Ba’th, denunciando i loro compagni e facendo interventi pubblici a favore del Ba’th (successivamente al-Hajj ha fatto carriera in ambito diplomatico, ottenendo un posto a Parigi). Il "PCI (Comando Centrale)" riesce a riorganizzarsi solo un anno dopo, sotto la direzione di Ibrahim al-‘Allawi, nel solo territorio kurdo, e stabilisce un’ "alleanza strategica" con il PDK di Barzani (Partito Democratico Kurdo, al tempo l’unica organizzazione nazionalista kurda, di orientamento borghese). La sconfitta kurda del 1975 e la rovina del PDK portano ad una maggiore rovina anche il "PCI (Comando Centrale)": nel 1975 vengono arrestati e giustiziati i suoi cinque massimi dirigenti a Sulaimaniyya. Questo è un colpo da cui il "PCI (Comando Centrale)" non riesce a riaversi. Molti militanti cessano l’attività politica e le piccole unità sopravvissute si disperdono alla fine degli anni ‘70.

Il PCI - identificato come "PCI (Comitato Centrale)" dal 1967 per distinguerlo dall’organizzazione scissionista — convoca d’urgenza dopo la scissione una conferenza nazionale (la terza nella sua storia) per il dicembre 1967, dove riafferma l’orientamento della costruzione di fronti democratici uniti nella prospettiva di un governo di coalizione che sostituisca il regime di ‘Abd-ur-Rahman ‘Aref — cosa che Mosca, nonostante la conferenza riaffermi la propria fedeltà all’URSS e all’Egitto, non gradisce particolarmente, facendo chiudere due mesi dopo la "Voce del popolo iracheno", l’emittente radio del PCI che trasmetteva da Praga con ripetitori in Bulgaria.

Il Ba’th e le forze armate compiono un ennesimo colpo di stato il 17 luglio 1968, e ‘Abd-ur-Rahman ‘Aref è costretto all’esilio. Capo di stato diventa Ahmad Hasan al-Bakr, e buona parte dei collaboratori di ‘Aref partecipa al colpo di stato rimanendo ai propri posti. Due settimane dopo, il 30 luglio, segue un altro colpo di stato, che elimina i vecchi collaboratori di ‘Aref e mantiene al potere i soli uomini del Ba’th, organizzati in un "Consiglio del Comando Rivoluzionario" che detiene tutti i poteri (il governo che viene nominato ha esclusivamente compiti "amministrativi"). Questa struttura di potere non cambierà nei decenni successivi. Oltre ad al-Bakr il nuovo uomo forte che emerge è Saddam Hussein: nel corso dei caotici anni ’70 riesce a diventare l’elemento chiave all’interno del "Consiglio del Comando Rivoluzionario" eliminando tutti i possibili concorrenti, e nel febbraio 1979 fa dimettere al-Bakr dalla carica di capo dello stato, rilevandone il posto.

Il Ba’th ricerca immediatamente l’appoggio del "PCI (Comitato Centrale)", procedendo alla liberazione di alcuni prigionieri politici nel settembre 1968 e offrendo poltrone ministeriali ai comunisti. Inizialmente il "PCI (Comitato Centrale)" rifiuta, ponendo come condizione la pace nel Kurdistan, un’assemblea costituente e il ristabilimento delle libertà civili (legalizzazione dei partiti politici, elezioni democratiche, ecc.), ma a partire dalla primavera 1969 (data alla quale l’Iraq ba’thista firma importanti contratti petroliferi con l’URSS) apre delle trattative con il Ba’th che permette la pubblicazione legale del "mensile di cultura generale" del PCI, al-Thaqafa al Jadida, e richiede la partecipazione del PCI ad un "Fronte Nazionale Progressista" senza alcun tipo di poteri e dove il PCI dovrebbe riconoscere la propria totale subordinazione al Ba’th. Le trattative durano fino alla primavera 1970. Nella primavera 1970 è il Ba’th a rompere i rapporti, procedendo a centinaia di arresti e uccidendo "discretamente" diverse personalità comuniste o facendole "scomparire". Il PCI tiene il secondo congresso della sua storia nel settembre 1970, ancora in clandestinità nel Kurdistan iracheno, e i documenti finali riconoscono l’azione positiva del Ba’th sul terreno economico e sociale, e le sue posizioni antimperialiste e antisioniste, ma continua a criticarlo per la continua assenza di libertà democratiche. I rapporti si riallacciano nell’autunno 1971, e si stringono dopo la nazionalizzazione della compagnia petrolifera IPC e la "solida alleanza strategica" stretta da Baghdad e Mosca. In generale in tutto questo periodo (1968-1972) il Ba’th gioca al bastone e alla carota con il PCI, alternando aperture con repressioni violente, sia aperte che discrete — una pratica molto comune era l’arresto di semplici militanti, sottoposti a torture nei centri di polizia, poi rilasciati dopo alcuni giorni, ma non mancavano casi di omicidio di dirigenti anche nei periodi di "trattativa" e di "apertura". Contemporaneamente Baghdad aveva proceduto ad una nuova riforma agraria nel 1970, ben più radicale di quanto avesse fino ad allora richiesto il PCI, ad un Codice del Lavoro che stabiliva forti diritti sociali dei lavoratori (ma restringeva all’estremo il diritto di sciopero e vietava la libera organizzazione sindacale), alla nazionalizzazione già citata dell’Iraq Petroleum Company, al monopolio del commercio estero, all’alleanza con l’URSS e ad una posizione internazionale antimperialista e antisionista in sostegno alle correnti più radicali del movimento palestinese.

Nell’aprile 1972 (a questa data sono "solo" 50 i comunisti ancora in prigione) il PCI dichiara che "i recenti sviluppi hanno segnato una svolta nella lotta popolare" e si dichiara disponibile a entrare nel "Fronte Nazionale Progressista". Il mese successivo due comunisti (di cui uno è il solito ‘Amer ‘Abdallah) entrano nel governo. Ma è solo nel luglio 1973 che si concretizza l’ingresso del PCI nel "Fronte Nazionale Progressista" con la firma di una "Carta d’Azione Nazionale", e la legalizzazione del partito e del suo quotidiano. Dal 1972-1973 inizia un periodo in cui il PCI dipinge Saddam Hussein come un Fidel Castro iracheno (il diretto interessato preferisce paragonarsi a Salvador Allende, come lui "in prima linea contro l’imperialismo"), come l’uomo della "sinistra" del Ba’th più vicino ai comunisti. Nel febbraio 1974 il PCI provvede a sciogliere tutte le proprie strutture indipendenti (e forzatamenti illegali) sui posti di lavoro. Il PCI appoggia tutte le iniziative del Ba’th, compresa la sanguinosa guerra contro i kurdi nel 1974-1975. Ma è proprio l’accordo con l’Iran, che permette la sconfitta delle forze kurde nel 1975, che dà a Saddam Hussein la forza e la sicurezza per poter iniziare l’assalto contro i suoi alleati del PCI, da cui non è più così dipendente. Inoltre nei quattri anni passati dal 1972 il Ba’th ha ampiamente sfruttato l’acquiescenza comunista per acquisire un controllo pressoché totale sui sindacati, sulle unioni contadine e sulle altre organizzazioni di massa.

Alla fine del 1975 ricominciano una serie di arresti tra i militanti comunisti, e le attività del PCI iniziano a subire serie restrizioni a partire dalla primavera del 1976. Il partito tiene il suo terzo congresso a Baghdad nel maggio 1976, e se da un lato riafferma la classica posizione per cui "la rivoluzione democratico-nazionale è entrata in un nuovo stadio progressista, lo stadio dello sviluppo non-capitalistico", dall’altro sottolinea che le "relazioni di produzione capitalistiche" si espandono in ambito rurale e che nella via non-capitalistica (distinta dal periodo di transizione al socialismo) il capitale privato ha un peso importante e può far arretrare la situazione e far ritornare il paese sotto la dipendenza dell’imperialismo (l’esempio egiziano, con la brutale rottura imposta da Sadat di tutti i rapporti con l’URSS, è di pochi anni prima). Inoltre il congresso prende posizione (pur con un tono conciliante e costruttivo) contro la restrizione dell’agibilità politica, per il ritorno agli accordi originari all’interno del "Fronte", e contro la dissoluzione delle organizzazioni di massa sotto direzione comunista (Federazione giovanile democratica, Federazione generale degli studenti e Associazione delle donne). Da questo momento inizia una campagna propagandistica anticomunista da parte del Ba’th via via più violenta.

All’inizio del 1978 la rottura tra PCI e Ba’th è solo questione di tempo: nel marzo 1978 viene annunciato che 12 comunisti sono stati giustiziati per aver condotto attività politica all’interno delle forze armate, e a maggio viene promulgata una legge per cui qualsiasi attività politica non ba’thista (come leggere un giornale comunista ad esempio) da parte di qualsiasi membro o ex membro delle forze armate era punibile con la pena di morte. In un paese con coscrizione obbligatoria questa legge equivaleva a condannare a morte qualsiasi adulto di sesso maschile che aveva un qualsiasi rapporto con i comunisti. Nell’estate e nell’autunno 1978 si succedono arresti, torture e condanne a morte. La rottura definitiva e il passaggio del PCI alla clandestinità avviene nell’aprile 1979. Il Comitato Centrale del luglio 1979 vota un documento di una rara cecità politica, senza una riga di autocritica: "il nostro partito ha lottato con tutti i mezzi a sua disposizione per fermare il precipitarsi della crisi del paese. Da un alto senso di responsabilità di fronte al popolo, ha compiuto grandi sforzi per far sì che il regime segua una politica corrispondente agli interessi del popolo… La violenza sanguinaria con la quale è stato affrontato il nostro partito riflette l’apprensione dei capi del Ba’th per l’esistenza di un PC… che esercita la sua indipendenza politica e ideologica… Tutte le argomentazioni dei capi del Ba’th fabbricate per giustificare la loro criminale campagna contro il nostro partito sono cadute, registrando per loro una sconfitta politica e morale, mentre nello stesso tempo si è consolidata l’unità del Partito e la sua posizione tra le masse".

Per la terza volta il PCI, dopo il 1949 e il 1963, viene spazzato dalla repressione. Nessuna sua struttura nell’Iraq arabo rimane in piedi, e la sua presenza si riduce al Kurdistan iracheno - come a suo tempo il "PCI (Comando Centrale)", alla cui distruzione manu militari il PCI aveva dato il proprio fattivo contributo da alleato del Ba’th. Dal 1978 al 1981 sono stati stimati tra i 20 e 30.000 arresti (di cui diverse migliaia mantenuti), centinaia di "scomparsi" e di uccisioni.

Il PCI definisce nel giugno 1980 il regime iracheno un "capitalismo burocratico di stato" e a novembre dello stesso anno stringe un’alleanza (in realtà molto sofferta) con il PDK di Barzani. Nel settembre 1980 l’Iraq attacca l’Iran in pieno caos rivoluzionario (lo Scià era caduto l’anno prima). Nel 1981 il PCI opta per la lotta armata come principale strumento di lotta, affermando che "le operazioni militari condotte utilizzando il Kurdistan iracheno come punto di partenza, sono un metodo essenziale della lotta" contro il regime di Saddam Hussein, e queste operazioni militari vengono condotte da basi nell’Iraq rurale, con infiltrazioni e azioni di combattimento nelle città, mentre un "movimento d’opposizione… con manifestazioni, scioperi, disobbedienza civile… è impensabile per il terrore e l’arbitrio barbaro che dominano il paese". Il PCI fa la scelta della lotta armata a partire da basi nell’Iraq rurale, e non per tutti gli anni ’80 non fa alcun serio tentativo di costruire proprie cellule e distaccamenti armati nelle maggiori città, a partire da Baghdad. Il flusso dei disertori dall’esercito si concentra nelle paludi nel sud dell’Iraq, dove secondo alcune fonti si sarebbero rifugiati addirittura 20.000 soldati nel 1983: in quell’anno Baghdad ordina il bombardamento continuo e a tappeto di tutta la zona, provocando migliaia di vittime. I disertori rimasti, con una limitata attività guerrigliera, sarebbero stati circa 3.000, assotigliatisi nel corso degli anni successivi a poche centinaia. Lo spostamento della guerra con l’Iran sul territorio iracheno, e le dichiarazioni di Baghdad dall’estate 1982 sulla natura esclusivamente difensiva della guerra in corso non mutano la posizione del PCI, che continua a vedere nell’Iraq il principale responsabile delle carneficine che si svolgono al fronte, e che fa appello ai soldati iracheni perché rivoltino le loro armi contro gli oppressori di Baghdad. Questa posizione — che contrasta con l’atteggiamento sovietico che a partire dal 1983 ricomincia a rifornire militarmente il regime di Baghdad — provoca una discussione interna molto accesa, che porta, al quarto congresso tenuto nel novembre 1985, alla espulsione della corrente che sostiene la necessità della "difesa della patria" e rigetta le posizioni "disfattiste" della direzione ("non si può chiedere ai soldati di sparare sul regime quando stanno difendendo la patria"). Al congresso del 1985 il PCI opera anche un riesame autocritico della politica seguita dall’inizio degli anni ’70, criticando l’abbandono dell’indipendenza politica, ideologica ed organizzativa nei confronti del Ba’th operata allora, che permise tra l’altro la terribile efficacia della repressione iniziata nel 1978. Questo orientamento viene qualificato di "ultrasinistro" da parte degli espulsi, che richiedono da parte loro lo stabilirsi di un regime democratico in Iraq, ma senza far riferimento al rovesciamento di quello in carica. I militanti esclusi fondano un raggruppamento con base a Damasco, con una rivista ("Tribuna comunista") come loro organo, ma dopo pochi anni questo gruppo si disgrega: i suoi membri trovano delle vie di accomodamento con il Ba’th, e rientrando a Baghdad.

Il PCI aveva sofferto di un colpo militare molto pesante: nel maggio 1983 l’esercito turco e l’UPK (Unione Patriottica Kurda, la seconda organizzazione nazionalista kurda, sorta nel 1977) attaccano il quartier generale del PCI nel Kurdistan kurdo, a Julamerk, facendo più di sessanta vittime.

Nel corso degli anni ’80 si formano anche piccoli gruppi di estrema sinistra, uno di tendenza trotskista, "Rivoluzione Permanente", sorto a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 e formato da ex militanti del Ba’th (un analogo gruppo che si definiva trotskista, sempre fuoriuscito dal Ba’th, era stato formato negli anni ’60, l’ "Organizzazione dei Lavoratori", e negli anni ’70 si fece conoscere su diverse riviste un pubblicista iracheno trotskista, Kanan Makiya, alias "Muhammad Ja’far" e "Samir al-Khalil", successivamente "pentito" e diventato molto famoso nel mondo anglosassone per la sua adozione delle tesi più oltranziste di Washington e per i suoi volgari attacchi alla sinistra araba), uno di tendenza maoista, "Avanguardia Operaia", ed infine un terzo raggruppamento denominato "Lotta autonoma". Questi gruppi, con non più di una trentina di aderenti ciascuno, si limitano per lo più ad una attività teorica e di aiuto ai militanti minacciati dalla repressione, e scompaiono nel corso di questo decennio.

La guerra termina nel 1988, senza che vi sia stata l’insurrezione popolare attesa dalla direzione del PCI. L’appello del regime alla "difesa della patria" ha effettivamente trovato risonanza nella popolazione, il numero dei disertori è diventato pressoché nullo negli ultimi anni della guerra e i soldati non hanno rivolto le loro armi contro il regime. Nel corso delle operazioni militari nel Kurdistan iracheno della primavera ‘88 la maggior parte delle basi militari del PCI viene smantellata, e il suo quartier generale si trasferisce a Damasco. La direzione comunista riconosce il fallimento della sua precedente opzione politica, sia per ciò che riguarda la prospettiva di una rivolta nell’esercito, sia per ciò che riguarda la centralità della lotta armata: l’autocritica non è relativa alla particolare scelta di lotta armata adottata (basi rurali, nessuna struttura nelle città), ma relativa all’importanza della lotta armata tout court. Il PCI, in una situazione di stallo, cerca disperatamente un via d’uscita e la trova nella ricerca di un accordo con il potere ba’thista. Assente da anni dai maggiori centri urbani, Baghdad, Basrah, Mosul, e cieco di fronte all’estrema debolezza del regime e al crescente scontento popolare, il PCI si scontra con il problema di stringere un accordo con il Ba’th salvando al contempo la faccia. La direzione del PCI pone alcune condizioni, e cioé una trattativa pubblica con il Ba’th preceduta da un gesto di disponibilità, come la liberazione dei prigionieri politici. Un dirigente comunista come Zaki Khairi (che nel 1985 concordava con "Tribuna comunista", ma era rimasto nel partito) cerca invece di organizzare una mossa concilitrice nei confronti del regime, come un ritorno dei dirigenti comunisti a Baghdad in modo pubblico e pubblicizzato, con parlamentari europei e giornalisti. Tutti queste mosse e preparativi si interrompono bruscamente nell’estate 1990. L’Iraq invade il Kuwait.

Il Partito Comunista Iracheno, negli anni considerati, ha subito due ondate repressive di una rara violenza, prima nel 1963, poi nel 1979. In entrambe le situazioni è riuscito, sia pure con fatica, a ricostruirsi, e a porsi di nuovo come un’importante organizzazione nel quadro delle forze di opposizione ai regimi nazionalisti, dimostrando in questo modo sia la sua vitalità, sia le innegabili radici che mantiene nei settori popolari iracheni. Nei periodi successivi a entrambe queste ondate repressive è stato costretto a trarre un bilancio del fallimento della propria politica precedente, evidenziata dalla totale incapacità a far fronte alla repressione, senza alcuna preparazione ad un passaggio alla clandestinità che consentisse di salvare almeno parte delle proprie strutture militanti. Questi dibattiti e bilanci si svolsero tra il 1965 e il 1967 nel primo caso, portando alla scissione di sinistra del "PCI (Comando Centrale)", e nel 1985 nel secondo caso, con la scissione di destra di "Tribuna Comunista". Ma questi dolorosi bilanci non hanno impedito il ripetersi di errori abbastanza analoghi nel corso degli anni: la politica suicida del PCI nei confronti del Ba’th negli anni ’70 ha qualcosa di simile mutatis mutandis all’altrettanto suicida politica seguita negli anni di Qasim, tra il 1958 e il 1963, e la svolta a destra nel 1989-1990 non si è concretizzata solo per fattori esterni, la guerra con il Kuwait e la terribile guerra del Golfo del 1991. Quale ne può essere la logica?

Il quadro strategico che ha determinato le scelte del PCI fino al 1963 fu quello della "rivoluzione in due stadi", con una necessaria "rivoluzione borghese" che doveva precedere qualsiasi battaglia di "contenuto socialista". I contenuti dela "rivoluzione borghese" erano quelli di una effettiva indipendenza dall’imperialismo, tagliando i rapporti di tipo coloniale e neocoloniale esistenti, la cancellazione dei rapporti di tipo feudale o neofeudale nelle campagne, lo sviluppo industriale attuato dalla "borghesia industriale" i cui interessi contrastavano con quella "compradora", le libertà democratiche e una vita costituzionale dello stato, basato sul diritto e sul rispetto della legge. La direzione di questa "rivoluzione borghese" non poteva non essere che quella della "borghesia nazionale", identificata con quella industriale. Si sono viste le contraddizioni e le conseguenze che questo quadro strategico comportò nell’azione del PCI nel 1958-1963. Il colpo di stato del febbraio 1963 venne visto come un passo indietro (instaurando un "regime fascista") rispetto alla corretta via seguita da Qasim, ma dapprima la svolta a sinistra del Ba’th dell’ottobre 1963, e poi soprattutto le nazionalizzazioni del luglio 1964 diedero un colpo mortale alle teorizzazioni comuniste. Se la svolta a sinistra del Ba’th poteva essere giudicata un puro e semplice avventurismo piccolo-borghese (con la richiesta di socializzazione delle imprese), un po’ come le iniziative personali di ‘Abd-us-Salam ‘Aref nell’estate del 1958, le nazionalizzazioni cancellavano il nucleo della classe investita della missione di portare a termine la "rivoluzione borghese".

La griglia di lettura adottata a questo punto era già stata formulata, almeno a partire dal 1956, riguardo all’Egitto nasseriano: si trattava di una "via non-capitalista allo sviluppo" (nel 1964 Krusciov definì addirittura l’Egitto nasseriano uno "stato socialista" e i due partiti comunisti egiziani si siolsero nel 1965 per entrare nel partito unico nasseriano, preceduti in questo, due anni prima, dal partito comunista algerino, entrato nel FLN). Questa inedita formazione sociale, nelle formulazioni moscovite e dei comunisti mediorientali, aveva caratteristiche non ben definite, e il giudizio dei comunisti variava a seconda delle congiunture politiche e degli interessi della politica estera sovietica. Così il punto di riferimento internazionale fu volta a volta Nasser tra il 1964 e il 1970, Saddam Hussein tra il 1972 e il 1978, e il siriano Assad a partire dal 1980. L’atteggiamento comunista è stato ben riassunto dalla sinistra del PCI quando affermava che si vedeva "la cooperazione con il Cairo come la chiave di ogni sviluppo rivoluzionario in Iraq" e quindi si "subordinava la pratica politica del partito alla volontà del Cairo e dei suoi partigiani a Baghdad". Questo fu vero in generale in tutto il Medio Oriente, anche quando Baghdad sostituì Il Cairo, e successivamente Damasco sostituì Baghdad. In tutti questi passaggi l’approccio strategico non mutò, anche di fronte ai terribili fallimenti in serie dell’Egitto, dell’Iraq e della Siria. La differenza era che la "via non-capitalistica" diventava automaticamente "capitalismo di stato" non appena il potere in carica rompeva con i comunisti e l’URSS. L’elemento comune tra il vecchio e il nuovo quadro strategico fu che la situazione non era comunque matura per parole d’ordine che andassero contro gli interessi borghesi. Così da un lato il PCI si fece "superare a sinistra" dai nasseriani e dal Ba’th in diverse occasioni, e dall’altro non si pose mai come obiettivo la distruzione dello stato iracheno e del suo vero (e quasi unico) pilastro, le forze armate. Anche quando discusse dell’eventualità di "prendere il potere" nel 1965 l’accento e l’elemento centrale era la conquista di un settore di ufficiali che potesse effettuare un colpo di stato "progressista".

Nel frattempo lo sviluppo economico e democratico a cui avrebbe dovuto portare prima la "rivoluzione borghese" e poi la "via non-capitalista" è ancora drammaticamente assente. Entrambe queste strade si sono rivelate dei vicoli ciechi.

Classi e stato durante i regimi nazionalisti

Dal febbraio 1963 al luglio 1968 si succedono una serie infinita di colpi stato, taluni riusciti e molti altri falliti; dopo il luglio 1968 il potere del Ba’th denuncia un’analoga serie di falliti complotti e tentati colpi di stato, con ondate periodiche di esecuzioni a segnare il loro fallimento. Questi colpi di stato vennero visti per lo più — ad eccezione del colpo del febbraio 1963 - come banali avvicendamenti governativi, non cambiando in nulla la base dello stato: le forze armate. I due golpe ba’thisti del 1968 (prima il 17, poi il 30 luglio) non necessitarono neppure di nessun tipo di coprifuoco o di uso della forza — la popolazione rimase totalmente indifferente a questo ennesimo ribaltamento nei rapporti interni all’esercito. Ma se la struttura dello stato non è variata, dalla rivoluzione del 1958 alla guerra del Golfo del 1990-1991 la struttura sociale irachena ha conosciuto profondi mutamenti grazie a riforme agrarie, nazionalizzazioni, migrazioni volontarie e imposte, interne ed esterne.

La classe operaia è sicuramente cresciuta in gran numero nel corso di questi decenni. Le valutazioni numeriche variano grandemente (nel 1977 la forza lavoro irachena è stata stimata a 3 milioni di persone, di cui un terzo "classe operaia"), ma la composizione di questa classe operaia è cambiata pesantemente grazie all’intervento statale in economia (anche se la maggioranza dei lavoratori continua a ricavare i propri redditi dal settore privato — il 55% nel 1977), alle migrazioni rurali (un milione di persone sono entrate nel mercato del lavoro urbano negli anni ’70, in provenienza dalle campagne), a quelle dall’estero (dall’Egitto, dal Marocco, dall’Asia meridionale: nel 1977 erano almeno 300.000, e nel 1984 alcuni hanno stimato addirittura due milioni di immigrati), alla mobilitazione militare negli anni’80 con l’ingresso significativo di manodopera femminile (25% a metà degli anni ’80), alle distruzioni provocate dalle guerre e alle deportazioni di kurdi e di sciiti nel sud dell’Iraq (all’inizio degli anni ’80 vennero espulse in Iran tra le 250 e le 400.000 persone!).

Per due decenni predomina il pieno impiego, e grazie al Codice del Lavoro del 1971 i lavoratori godono di una sostanziale sicurezza del posto di lavoro. Il livello di vita e la sicurezza sociale aumentano considerevolmente, tutti i livelli di istruzione diventano gratuiti e i centri urbani riescono ad assorbire con case decenti l’enorme flusso migratorio. I salari conoscono un aumento in termini reali — anche se a livello complessivo la ricchezza petrolifera viene incanalata in maggior parte verso profitti, rendite e interessi (la quota dei salari passa dal 28 al 19% del prodotto nazionale dal 1968 al 1978). Dal tempo del colpo di stato del febbraio 1963 ogni forma di sindacalismo indipendente è vietato: vengono ammessi solo i sindacati di regime, creati dallo stato e sotto stretto controllo dei funzionari del partito dominante. Sotto il Ba’th viene prevista anche una partecipazione dei lavoratori nei consigli di amministrazione aziendali, ma in realtà questi rappresentanti vengono scelti dal Partito tra i lavoratori — e non dai lavoratori stessi. Gli anni tra il 1965 e il 1968 vedono risorgere l’attività della classe operaia, con diversi scioperi nel settore delle costruzioni, tessile, della trasformazione alimentare. Il Ba’th, dopo il colpo di stato del luglio 1968, inaugura il suo potere facendo sparare da reparti speciali contro dei lavoratori in sciopero, e nel 1969-1970 manifestazioni e scioperi si scontreranno con le forze dell’ordine, che procedono ad arresti e ad uccisioni. L’avvicinamento del PCI al Ba’th e successivamente il suo ingresso nella compagine governativa, insieme alle profonde modificazioni del mercato del lavoro e alle prospettive di miglioramento delle proprie condizioni di vita grazie all’intervento statale, oltre che allo stretto inquadramento di massa operato dal Ba’th, fanno sì che negli anni ’70 scompaia ogni azione autonoma della classe operaia, e che questa inattività si prolunghi sostanzialmente negli anni ’80, allorquando si instaura un regime di terrore di massa e l’Iraq combatte la sua guerra contro l’Iran.

La situazione nell’Iraq rurale è molto meno positiva di quella urbana: nel sud la maggioranza delle abitazioni rimangono senza elettricità e acqua corrente e il tasso di crescita del reddito nazionale procapite rurale è pari alla metà dell’analogo tasso urbano, tra il 1970 e il 1977. A metà degli anni ’70 è stato stimato che il 14% della popolazione rurale fosse sottoalimentata.

All’inizio degli anni ’80 il sistema sanitario viene progressivamente privatizzato, ma le condizioni di vita degli iracheni non mobilitati non conoscono un netto peggioramento fino alla fine degli anni ’80: durante la guerra con l’Iran il regime di Baghdad riesce a reggere la situazione interna grazie a un continuo flusso di prestiti che ottiene dai paesi del golfo, che portano l’indebitamento estero da 2 miliardi di dollari nel 1980 a 80 miliardi nel 1987 (a fronte di danni materiali inflitti dalla guerra stimati a 67 miliardi di dollari). Nel 1987 il potere ba’thista cancella il Codice del Lavoro: i lavoratori iracheni iniziano ad avere esperienza dei licenziamenti indiscriminati e della disoccupazione, con 200.000 soldati smobilitati dopo la fine della guerra con l’Iran nel 1988. Inoltre vengono cancellate anche le leggi sulle pensioni e sulla sicurezza sociale e viene dichiarata fuorilegge ogni organizzazione sindacale. Da quest’ultimo provvedimento rimangono escluse solo le imprese private con più di 50 addetti (i lavoratori coinvolti sono 8.000): ma è una concessione che si rivela essere un’arma a doppio taglio per i lavoratori. Con la presenza dei soldati smobilitati e la possibilità di importare manodopera straniera senza vincoli, industriali e agrobusiness privati provvedono a sostituire tra il 40 e l’80% della propria forza lavoro. Nel 1988 l’aumento delle giornate lavorative e dei carichi di lavoro portano a un aumento della "produttività" del 20%.

Questo assalto contro i lavoratori non è tuttavia una situazione socialmente sostenibile nel medio periodo. Nel 1989 vi è una parziale marcia indietro: i salari vengono aumentati, vengono congelati i prezzi di beni e servizi forniti dal settore statale e vengono abbassate le quote dei profitti nelle imprese pubbliche e in quelle a capitale misto. L’organizzazione sindacale dei lavoratori rimane proibita.

I processi principali che segnano l’Iraq in questi decenni sono la nazionalizzazione dell’Iraqi Petroleum Company nel giugno 1972, l’instaurazione del controllo statale sul commercio estero, il processo di urbanizzazione e lo stato di "guerra permanente", dapprima con la guerra contro i kurdi, poi contro l’Iran (le spese militari passano dal 30% del prodotto nazionale nel periodo 1975-79 al 60% in quello 1980-86). Grazie alla nazionalizzazione dell’IPC, l’aumento della produzione e dei prezzi, il reddito nazionale procapite decuplica dal 1967 al 1982 (ma l’andamento dei mercati porta al dimezzamento dei redditi petroliferi procapite dal 1982 al 1989, portando ad una analoga diminuizione nel reddito nazionale procapite, da 1.675 a 1.090 dollari in prezzi costanti): il contributo del settore petrolifero si attesta attorno al 60% del prodotto nazionale e costituisce sostanzialmente la totalità delle esportazioni irachene (98%). Grazie ai flussi finanziari derivanti dal petrolio gli investimenti statali complessivi passano da 72 milioni di dinari nel 1968 a 1.200 milioni nel 1975.

Il settore industriale, stagnante nel periodo sotto Qasim nonostante la sua aperta politica di sostegno alla borghesia manifatturiera, viene "colpito" nel 1964 da una massiccia nazionalizzazione: nel luglio di quell’anno vennero nazionalizzate oltre a tutte le banche e le assicurazioni anche le 32 maggiori imprese industriali e commerciali (vennero anche imposti dei "tetti" all’investimento privato). Con queste misure un terzo del contributo industriale al prodotto nazionale viene assorbito dallo stato. Negli anni successivi l’industria si sviluppa maggiormente, dopo il periodo di caos seguito alle nazionalizzazioni, e conosce uno sviluppo quantitativo significativo dopo la nazionalizzazione dell’IPC del 1972, con l’investimento di parte delle nuove risorse finanziarie allo sviluppo del settore industriale. La situazione è illustrata dai dati relativi alle imprese industriali (petrolio escluso) con più di 10 dipendenti: mentre i dipendenti nelle imprese private erano 48.000 e in quelle statali 22.000 nel 1960, dopo le nazionalizzazioni i due dati diventano, rispettivamente 39.000 e 42.000. La cifra dei dipendenti del settore privato rimane fino al 1982 più o meno stabile (arrivando a 45.000 lavoratori, 35 dipendenti in media per impresa), mentre il settore statale continua a espandersi raggiungendo nel 1982 la cifra di 145.000 dipendenti (con 510 dipendenti in media per impresa). Lo sviluppo del settore statale prosegue negli anni ’80, arrivando al 98% del capitale fisso esistente, al 96% della forza lavoro occupata e all’ 84% della produzione totale. Il settore privato dopo aver resistito nel corso degli anni ’60 e ’70, ed aver mostrato anche una sicura vitalità mantenendo il passo con l’industria statale in espansione grazie ai finanziamenti derivanti dal petrolio (la quota della produzione industriale privata non varia dal 1970 al 1982, e addirittura aumenta la sua quota sul valore aggiunto — cioè i profitti!), declina rapidamente dopo il 1981-1982, passando dal 45% del valore aggiunto industriale di quell’anno al 19% del 1987.

Nel febbraio 1987 Saddam Hussein lancia la "rivoluzione amministrativa" per "ridurre i poteri della burocrazia": 47 grandi industrie vengono privatizzate, viene cancellato qualsiasi limite all’investimento privato, e vengono varate una serie di misure a loro sostegno. Le privatizzazioni proseguono l’anno successivo e conoscono un boom nell’estate del 1988: in un anno e mezzo venne privatizzato ben più di quanto fece Sadat in Egitto in dieci anni. Il quadro dei rapporti tra settore privato e settore statale nell’industria non venne tuttavia modificato in modo radicale, in quanto il settore pubblico ha continuato ad essere quello largamente predominante grazie alla presenza delle grandi imprese ad altissima capitalizzazione (chimica, metallurgia, ecc.).

Il settore che maggiormente ha beneficiato degli investimenti pubblici negli anni ’70 e ’80 è stato quello delle costruzioni. La maggior parte di questi investimenti si realizzarono non nelle infrastrutture, ma nel campo delle costruzioni di immobili (un quarto alle infrastrutture, tre quarti agli immobili), per lo più concentrati a Baghdad. Nel 1977 la forza lavoro nell’industria è l’8% della forza lavoro complessiva, mentre quella impiegata nel settore delle costruzioni è più del 10%. Nel 1981 il settore delle costruzioni riesce a superare l’industria e l’agricoltura sommate come contributo del valore aggiunto (17 verso 16%: sia i salari che i profitti sono di gran lunga maggiori nelle costruzioni che nell’industria), e l’occupazione è maggiore di quella industriale. In questo settore il contributo del capitale privato è quello largamente dominante: 94% nel 1982 (sul valore aggiunto), sceso al pur sempre importante 80% del 1987. Se si considera il complesso di tutte le imprese private esistenti all’inizio degli anni ’80 (industria, costruzioni, trasporti, servizi, commercio), ben la metà delle imprese esistenti si concentrava nel settore delle costruzioni, che assorbiva il 57% del capitale investito complessivamente (i settori che seguivano immediatamente erano quelli della trasformazione alimentare, con il 20% del capitale investito, e del tessile).

Per quanto riguarda le campagne, la riforma agraria del 1958 venne resa più radicale dalle due riforme promulgate nel 1970 e nel 1975. Quello a cui diedero vita queste riforme non fu una generalizzata piccola produzione contadina, ma l’inserimeno (sia pur parziale) dell’Iraq rurale nel mercato capitalistico. Il potere delle vecchie classi terriere, impersonato dagli shaikh, venne spezzato, insieme ai rapporti di tipo "neo-feudale" che legavano i contadini alla terra attraverso vincoli di tipo tribale, ed al loro posto è nata nelle campagne irachene una classe contadina capitalistica che vive del lavoro salariato, pur permanendo una situazione di generale arretratezza nelle coltivazioni.

L’Iraq si estende su una superficie di 173 miloni di dunum (434.000 km2), di cui nel 1958 erano coltivabili circa 30 milioni di dunum (1 dunum è pari circa a _ di un ettaro), di cui 23,3 erano privatamente possedute. Per quanto riguarda la struttura proprietaria della terra, l’ondata di requisizioni più consistente si ha nel periodo sotto Qasim, in applicazione della prima riforma agraria (vengono sequestrati circa sei milioni di dunum di terra a circa 2.000 shaikh e altri latifondisti, che avevano la proprietà di 14 milioni di dunum, pari al 59% della terra posseduta privatamente). E’ da ricordare comunque che shaikh e altri latifondisti si tennero la terra migliore, il controllo dei canali di irrigazione e la proprietà della maggior parte del macchinario agricolo. Nei regimi sotto le presidenze dei due fratelli ‘Aref, dal 1964 al 1968, le requisizioni si assottigliano progressivamente, e riprendono nel corso degli anni ’70, con le due nuove riforme agrarie che portano a una quantità aggiuntiva di terra requisita più o meno pari a quella sequestrata negli anni immediatamente successivi alla riforma del 1958. La distribuzione della terra, nel corso di tutti questi anni, segue un andamento più lento: sotto Qasim solo il 20% della terra requisita viene distribuita, e negli anni successivi la quantità di terra che rimane nelle mani dello stato cresce via via, passando dal 31% del totale delle terre coltivabili nel 1966, al 37% nel 1974 e al 47% nel 1989.

La distribuzione della terra viene effettuata in modo da favorire il ceto medio contadino. Alla fine del 1971, un anno e mezzo dopo l’entrata in vigore della seconda riforma agraria, il 50% dei proprietari agricoli possedeva meno dell’8% delle terre, con un ettaro e mezzo a testa (nel 1958 il 62% possedeva il 2% delle terre); all’estremo opposto lo 0,4% dei proprietari agricoli possedeva il 17% delle terre, con 450 ettari a testa in media (nel 1958 il 3% possedeva il 73% delle terre, quota abbassatasi al 31% nel 1971), e in mezzo il rimanente 49,6% dei proprietari agricoli aveva mediamente 15 ettari a testa. Questo comportava che la grande maggioranza dei 300.000 "proprietari agricoli" che possedevano meno di 4 ettari (e che per lo più ne possedevano meno di due) erano costretti per vivere a fare ricorso al lavoro salariato, a far emigrare in città i loro familiari, e infine a vendere il loro appezzamento, essendo la loro terra completamente insufficiente a fornire i mezzi di sussistenza per loro e la loro famiglia (e in sovrappiù non solo senza macchinari e senza crediti, ma spesso anche senza animali per i lavori agricoli!). Questo comportava che gli altri 300.000 proprietari agricoli che avevano possedimenti tra i 4 e i 150 ettari (coloro che in media avevano 15 ettari a testa) dovevano in quota significativa far ricorso al lavoro salariato, costituendo nelle situazioni più piccole (fino ai 10 ettari di proprietà) delle imprese semicapitalistiche, con ricorso al lavoro stagionale, ed in quelle più grandi vere e proprie imprese capitalistiche. Questo dato — l’estensione del capitalismo nelle campagne grazie alle riforme agrarie — viene confermato da due dati: da un lato la formazione del capitale in agricoltura passa da 11 milioni di dinari nel 1965 a 66 milioni nel 1974 e dall’altro dall’inizio degli anni ‘70 si assiste a un’ondata di emigrazione dalle campagne di dimensioni mai viste in Iraq. I circa 590.000 proprietari agricoli del 1971 scendono a 475.000, e la differenza è ovviamente tutta concentrata nel settore dei contadini con piccolissimi appezzamenti, mentre i beneficiari sono il settore di proprietari agricoli medi. La forza lavoro nelle campagne irachene scende da un milione e mezzo di persone nel 1973 a meno di un milione nel 1977, dal 50 al 30% della forza lavoro totale: un esodo di dimensioni bibliche, considerando anche i familiari di questi lavoratori che li seguono nelle città ed entrano nel mercato del lavoro urbano, concentrato in pochi anni. Nelle campagne la politica dello stato e delle imprese agricole fu quella di far ricorso a manodopera straniera, per lo più egiziana, senza alcun tipo di diritto sociale, ricattabile e sottopagata: furono centinaia di migliaia i lavoratori egiziani chiamati nell’Iraq rurale per ingrossare il proletariato agricolo.

Le considerazioni che precedono sono relative alla terra coltivabile in Iraq in mano a proprietari privati — il 53% della terra disponibile. Il restante 47%, di proprietà statale, è concesso in affitto a privati senza limitazioni (a partire dal 1983) di grandezza dei singoli appezzamenti, a prezzi particolarmente favorevoli. Alti funzionari e personalità del partito al potere, grazie all’accesso ai capitali e alle connessioni personali con l’apparato statale, sono il settore che maggiormente ha approfittato di queste misure. Di conseguenza nel 1989 il 60% della terra coltivata a cereali (14 milioni di dunum) è coltivata — sia in proprietà, sia in affitto — da grandi contadini privati. Questo processo di riconcentrazione terriera è simboleggiato dalla famiglia al-Bunniyyah, che oltre a possedere 36 grandi imprese, ha la proprietà o la gestione di 4.500 ettari di terra.

Quale analisi fare della borghesia in Iraq? Il settore petrolifero è totalmente in mano statale, e quello industriale lo è in larga parte. Nel settore dei trasporti la quota privata sul valore aggiunto ha avuto un andamento oscillante, arrivando al 60% nel 1987, mentre nel commercio è più o meno del 40% e nelle costruzioni continua a predominare con un 80% nel 1987. Banche e assicurazioni sono completamente in mano statale. Se si depura il prodotto nazionale del contributo del settore petrolifero e di quello di pubblica amministrazione, sicurezza e difesa, il contributo privato al prodotto nazionale produttivo era nel 1975 del 58%, diventato 60% nel 1980 e 64% nel 1982: questo è l’anno di maggiore peso del capitale privato (i numeri possono essere ingannevoli: nel settore pubblico sono incluse le cooperative agricole private, che comunque conosceranno un declino irreversibile a partire dal 1983; se non si considerassero "pubbliche" il 60% del 1980 diventerebbe 68% e il 64% del 1982 diventerebbe 72%). Fino al 1987 declinerà, per poi risalire nel 1987-89 (questo per via del peso enorme del settore delle costruzioni, che pesa più di industria e agricoltura sommate fra loro).

In Iraq la borghesia è una classe sociale numericamente ristretta (è stato calcolato che la grande borghesia irachena conti circa 3.000 famiglie), sostanzialmente esclusa dal settore industriale, e soggetta ad una insicurezza sia finanziaria che fisica. Prospera nei settori dove è direttamente dipendente dallo stato come cliente (costruzioni), o dove è decisivo l’intervento statale per ottenere la cessione della terra e di crediti a tassi vantaggiosi (agrobusiness) — definita da settori della sinistra irachena come la "borghesia parassitaria". Proviene per lo più dagli strati bassi e medi della vecchia borghesia degli anni ’60. I suoi rapporti con il potere sono volta a volta di cooperazione e di conflitto, concentrato sulle risorse che lo stato mette in campo (lo stato controlla la maggior parte del surplus del paese, e quindi la spesa statale è la maggior fonte di domanda nel paese): non è comunque la base principale del regime ba’thista che dev’essere invece ricercata nella burocrazia e nelle forze armate.

L’amministrazione pubblica conosce un vero boom grazie ai regimi nazionalisti e agli introiti petroliferi. I dipendenti pubblici non produttivi passano dai 20.000 del 1958, ai 350.000 nel 1968, ai 550.000 del 1978 (a cui si aggiungono 200.000 permanenti nelle forze armate, cresciuti a dismisura negli anni ’80, durante la guerra con l’Iran). Di questo mezzo milione di dipendenti pubblici ben 180.000 sono addette a compiti di "sicurezza" al Ministero dell’Interno e al Dipartimento Presidenziale.

Che sistema sociale è quello iracheno? Nel corso degli anni ’70, durante la "luna di miele" tra Saddam Hussein e l’Unione Sovietica (e il PCI), venne affermato che quella irachena era una via "non capitalistica" (pur se non socialista) allo sviluppo. Teorici di ispirazione maoista — come al tempo Samir Amin — affermavano invece che la natura di "paese dipendente" dell’Iraq non era sostanzialmente mutata, e che la piccola borghesia al potere aveva assunto il ruolo di "cinghia di trasmissione della dominazione imperialista" un tempo assicurato dai latifondisti e dalla borghesia compradora. Molti negli anni ’70 caratterizzarono questo regime come "piccolo borghese", per conciliare la contraddizione tra, da un lato, un orientamento antimperialista e alcune misure economiche e sociali di tipo progressista, e dall’altro la repressione antidemocratica e antipopolare e l’incapacità di "andare fino in fondo" con le riforme iniziate, con il mantenimento di un settore capitalistico privato. Dopo il 1979 l’etichetta generalmente assegnata al regime irachena è stata quella di "capitalismo di stato". Dietro questa definizione sintetica vi sono tuttavia linee di interpretazione ben diverse, sul modo di operare del regime, sulla sua dinamica socioeconomica, sulla caratterizzazione delle sue classi.

Schematizzando le varie posizioni, secondo un’interpretazione abbastanza diffusa il "capitalismo di stato" iracheno sarebbe una fase transitoria tra il periodo precapitalistico e quello pienamente capitalistico dell’Iraq, una fase di incubazione del vero capitalismo: in questa ottica il "capitalismo di stato" avrebbe come funzione quella di unificare il mercato domestico e di distruggere le relazioni precapitaliste, portando l’agricoltura e la produzione artigianale nel ciclo del capitale. In quest’ottica si sono sempre state sottolineate le tendenze al rafforzamento del capitale privato, ed il ruolo di "levatore" del regime iracheno nei suoi confronti (quest’analisi si è tuttavia scontrata con il permanere - ed il rafforzarsi - del peso statale nell’economia nel corso degli anni ’80), pur in un quadro di continua dipedenza dall’imperialismo occidentale a livello tecnologico.

Altri sottolineavano invece la natura profondamente parassitaria di questa "nuova borghesia" (soprattutto quella arricchitasi nel settore delle costruzioni) che prosperava sotto lo stato del Ba’th, senza alcuna capacità o intenzione "rivoluzionaria" di assumere la guida del paese chiudendo la fase "transitoria" di un capitalismo di stato dittatoriale e repressivo, ed anzi in posizione totalmente subordinata rispetto allo stato. Di fronte a chi identificava lo stato iracheno al servizio del capitale privato che si accumulava nel settore delle costruzioni è stato ricordato che il tenore del discorso di Saddam Hussein all’assemblea dei costruttori del 1983 non fu quello di un "servitore", ma quello di un "sovrano". L’elemento chiave in quest’ottica sarebbe la burocrazia statale, una sorta di "borghesia burocratica" senza diritti di proprietà sui mezzi di produzione, ma che gestisce lo stato e la produzione secondo regole capitaliste e che genera dal proprio interno gli elementi di una futura nuova classe di capitalisti in settori non dipendenti direttamente dallo stato, attraverso l’investimento in settori produttivi delle fortune accumulate durante il servizio ai vertici dell’apparato statale (il numero di milionari in Iraq è passato da alcune decine ad alcune migliaia sotto il regime del Ba’th). Alla fine degli anni ’80 questa classe era ancora debole, come dimostrato dal fallimento del programma di rilancio economico attraverso una serie di privatizzazioni e di misure di liberalizzazione, ma la direzione sarebbe comunque stata quella dello sviluppo di questa classe, attraverso una trasformazione della "borghesia burocratica" in "borghesia proprietaria".

Rimane che l’Iraq in questi decenni non è riuscito a recuperare l’autosufficienza alimentare, è rimasto totalmente dipendente dall’unica esportazione di petrolio (in modo pressoché identico ai vari paesi petroliferi del Medio Oriente), e il suo sviluppo industriale è rimasto tutto sommato abbastanza modesto (con costruzioni di enormi impianti chiavi in mano che si rivelarono delle "cattedrali nel deserto" nel senso letterale della parola: alla fine l’Iraq rimase ben al di qua dei livelli di industrializzazione di un altro paese arabo, l’Egitto). L’esperienza ba’thista in Iraq è risultata fallimentare dal punto di vista dello "sviluppo" del paese, nonostante l’enorme flusso di valuta derivante dal petrolio (valuta drammaticamente assente durante l’ "esperimento" di Nasser in Egitto), le enormi risorse umane di un paese vasto e con diversi milioni di abitanti, ed una effettiva rottura con le potenze imperialiste (nazionalizzazione di tutto il settore bancario e del settore petrolifero, monopolio del commercio estero, chiusura delle frontiere ai capitali esteri). Perché?

La borghesia irachena si dimostrò incapace di "portare a termine" la rivoluzione del 1958, e già molto prima delle nazionalizzazioni del 1964 non aveva più alcuna espressione politica minimamente significativa. Lo stato iracheno già si basava interamente, negli ultimi anni del regime di Qasim, sulle forze armate, lo scheletro essenziale dello stato borghese, salvatosi dalla tempesta del 1958-1959. La borghesia era da un lato fallimentare nell’assicurare lo sviluppo del paese, perché troppo disomogenea e legata agli interessi delle vecchie classi proprietarie, e dell’altro costituiva un potenziale intralcio politico al potere nazionalista (nasseriano, ba’thista, nazionalista militare, salito al potere nel 1963) panarabo per il peso predominante dell’élite sciita. In questo modo lo stato, basato sulle forze armate, si è dapprima sostuito politicamente alla borghesia, e poi economicamente - a capo delle industrie nazionalizzate nel 1964 vennero posti ufficiali dell’esercito.

Il Ba’th che assume il potere nel 1968 era un’organizzazione di poche centinaia di aderenti, in disperata ricerca di una base sociale. Non la cercò nei contadini poveri e nei lavoratori — quello a cui puntò fin dall’inizio fu di neutralizzare le classi subalterne, cooptando al governo in posizione subordinata il Partito Comunista e alternando concessioni a repressioni. La trovò invece — oltre che nelle forze armate, divenute di dimensioni abnormi nel corso degli anni — in un apparato statale borghese cresciuto a dismisura, in nuovi strati borghesi totalmente dipendenti dallo stato, in una borghesia rurale favorita dalle varie riforme. Il fallimento del progetto ba’thista non risiede in un elemento o in un altro delle riforme agrarie, nella gestione dei piani pluriennali di sviluppo, in una serie di errori condotti (anche se sicuramente vi sono stati) nella gestione economica dello stato. Risiede nella natura di classe di questo regime, nella sua base sociale che indirizzava a proprio favore le risorse disponibili impedendo un progetto di sviluppo effettivo ed equilibrato (l’ultima drammatica dimostrazione è l’effetto terribile sulle condizioni sanitarie del paese causato dall’embargo internazionale, raffrontato alla situazione sanitaria di Cuba, un regime non borghese sottoposto a un embargo e a difficoltà abbastanza paragonabili a quelle irachene a partire dal 1989).

Al centro di questo regime vi è una "casta burocratica borghese" instabile, soggetta a continue crisi (le continue faide ai vertici dello stato, i continui tentativi di colpi di stati e le epurazioni permanenti nell’apparato statale) e in continua mutazione sociale (espressa dalle politiche oscillanti di "apertura" al capitale privato e di riaffermazione dello stato nella gestione economica). Un fattore decisivo di stabilizzazione del regime è l’organizzazione di uno stato di guerra permanente, e di una organizzazione della violenza sociale che indirizzi convenientemente agli interessi del potere le tensioni a cui è soggetta la società: la successione infinita di guerre interne (contro kurdi e sciiti del sud), esterne (a cui l’imperialismo statunitense ed europeo ha dato e continua a dare un contributo decisivo), e la vera e propria "guerra interna" scatenata nel 1988-1990 contro gli immigrati (nel 1989-1990 vennero massacrati più di un migliaio di lavoratori immigrati) e le donne (l’uso di contraccettivi e l’aborto sono vietati per legge, campagne per l’espulsione delle donne dai posti di lavoro affinché ogni famiglia faccia nascere ed accudisca almeno cinque figli per la patria). Ma in ultima analisi questa stabilizzazione non può che essere relativa, e l’ultimo "quarto d’ora" del regime — intravisto nella primavera del 1991, e posticipato grazie al contributo attivo degli Stati Uniti — si ripresenterà, o per mano militare (interna o straniera, o una combinazione tra le due), o grazie al "tuono che riempe di terrore il cuore dei nostri oppressori" invocato dai comunisti nel loro Manifesto di fondazione del marzo1935.

Guerra, insurrezione e dodici anni di regime interno e di embargo internazionale (1990-2002)

Il "tuono" risuona nel marzo 1991, totalmente inatteso. Tuttavia non mancavano i segni che lasciavano intravvedere l’esplosione popolare di marzo, le cui radici affondavano nel malcontento sociale dovuto alla crisi che scuote il paese dalla fine della guerra con l’Iran. L’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq è del 2 agosto 1990, e il fatto che la popolazione irachena, pur accettando passivamente questa guerra, vi sia profondamente contraria (sperando che le sofferenze porteranno avranno almeno una compensazione nella caduta del regime) è dimostrato dalla inedita manifestazione studentesca antigovernativa a Baghdad del novembre 1990, preceduta dalla distribuzione di volantini manoscritti. La situazione a Baghdad veniva considerata talmente pericolosa dal regime che programmò l’evacuazione di due milioni dei suoi abitanti (riuscì a evacuarne meno di un milione). Inoltre vi era un flusso crescente di disertori, tanto che numerose divisioni dell’esercito di stanza in Kuwait vennero circondate da campi minati, non a loro protezione, ma per evitare che se ne andassero via dal fronte, e un decreto del "Consiglio del Comando Rivoluzionario" stabiliva che moglie, figli e parenti dei disertori fossero soggetti ad arresto. Ma anche chi non disertava faceva sentire comunque la propria voce di opposizione alla guerra, con conseguenze drammatiche: secondo un rapporto kurdo del novembre 1990 nel giro di due mesi Saddam Hussein avrebbe fatto fucilare 600 ufficiali.

L’opposizione semplicemente non se ne accorge, come non aveva colto la crisi del regime nel 1988-90. L’opposizione, e il PCI in specifico, denuncia l’invasione e l’annessione del Kuwait, ma in molti temono di perdere il diritto morale a opporsi al regime se non prendono posizione con Baghdad contro l’Occidente: quando il 16 gennaio 1991 iniziano i bombardamenti degli Stati Uniti e dei loro alleati la sezione kurda del PCI ordina di fermare qualsiasi azione militare contro l’esercito iracheno, "per non pugnalare l’esercito alle spalle". Non casualmente, se le critiche alla posizione del PCI da parte dei militanti residenti all’estero sono state relative al suo non sufficiente appoggio a Baghdad nella battaglia contro l’imperialismo Usa, quelle dei militanti all’interno dell’Iraq erano per il fatto che il partito dimenticava il compito urgente di rovesciare il regime.

Il 28 febbraio 1991, tre giorni prima della firma ufficiale del cessate il fuoco, nel caos della ritirata e della carneficina compiuta dalle forze alleate sull’"autostrada della morte" di al-Mutla, in una situazione di disgregazione dell’esercito e di perdita di controllo della situazione da parte dei servizi di sicurezza, scoppia l’insurrezione, spontanea e popolare, nel sud dell’Iraq. L’elemento scatenante sono i soldati e gli ufficiali in ritirata, a cui si unisce la popolazione. La dinamica è quella per cui le masse si riuniscono nelle strade per denunciare Saddam Hussein e il regime del Ba’th, quindi marciano alla conquista degli uffici del sindaco, della sede del Ba’th, degli stabili dove opera la polizia segreta, della prigione e (se presente) della guarnigione militare. La prima scintilla è nelle città sunnite di Abu’l Khasib e Zubair, a 60-70 km a sud di Basrah, il 28 febbraio, e poi dilaga nel giro di poche ore, di pochi giorni. Il 7 marzo tutto il sud è nelle mani dei rivoltosi. L’insurrezione è spontanea e non coordinata, iniziata da gente comune, e spesso non solo ogni città non sapeva quello che succedeva in quella vicina, ma addirittura non vi erano informazioni da un quartiere all’altro della stessa città. Le testimonianze raccolte sono univoche. Un soldato afferma: "l’esercito iracheno non ha la responsabilità per la disfatta perché non ha combattuto. L’unico responsabile è Saddam Hussein". Un altro dichiara:

Eravamo ansiosi di ritirarci, farla finita con questa avventura da pazzi, quando Saddam ha ordinato il ritiro in 24 ore — ma senza nessun formale accordo con gli alleati per la sicurezza delle forze che si ritiravano. Allora abbiamo capito che voleva che gli alleati ci annientassero: aveva già fatto ritirare in tutta sicurezza la Guardia Repubblicana. Dovevamo abbandonare carri armati e veicoli per evitare attacchi aerei. Abbiamo camminato per 100 km verso il territorio iracheno, affamati, assetati ed esausti. A Zubair abbiamo deciso di farla finita con Saddam e il suo regime. Abbiamo sparato sui manifesti di Saddam. Centinaia di soldati che si stavano ritirando sono arrivati in città e si sono uniti alla rivolta: il pomeriggio eravamo migliaia. I civili ci appoggiavamo e sono iniziate le manifestazioni. Abbiamo attaccato il palazzo del partito e il quartier generale della sicurezza. Nel giro di poche ore la rivolta era arrivata a Basrah, esattamente alle tre del mattino del 1° marzo (testimonianza citata da Faleh Abd al-Jabbar)

A Basrah i soldati e la popolazione in rivolta trovano una prigione segreta sotto gli stabili della fabbrica di scarpe Bata: centinaia di prigionieri vengono liberati, ed alcuni urlano "Abbasso al-Bakr!", credendo che fosse ancora in carica come capo di stato, mentre era stato destituito da Saddam Hussein dodici anni prima! La ribellione nel sud non ha una direzione sperimentata, una organizzazione, un programma politico o militare. E si deve confrontare con due svantaggi critici: la vicinanza alle postazioni della Guardia Repubblicana, e l’intervento del khomeinista Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica in Iraq, che con la parola d’ordine del "potere sciita" agisce come se fosse la direzione della rivolta (mentre è una tra le molte componenti presenti), portando alla passivizzazione di coloro che non concordano con la sua linea. L’esercito iracheno inizia la riconquista del sud l’8 marzo, con la presa di Basrah, e la completa il 17 marzo, grazie alla attiva collaborazione delle truppe statunitensi ed alleate.

Nel frattempo a nord la rivolta inizia il 5 marzo. Il 20 marzo con la caduta di Kirkuk tutto il nord è strappato al regime di Saddam Hussein. Nei centri urbani del Kurdistan la rivolta segue una diversa dinamica: è la popolazione civile a scendere dapprima nelle strade, con parole d’ordine politiche precise, scontrandosi con i servizi di sicurezza e l’esercito, e viene successivamente raggiunta dai disertori, ottenendo la disgregazione dell’esercito (50.000 soldati abbandonarono le loro unità senza combattere) e il passaggio in forze dalla parte della popolazione delle "Forze Salah al-Din", la formazione armata kurda messa in piedi dal regime di Saddam Hussein. La battaglia attorno ai centri di potere dei servizi di sicurezza e del Ba’th fu durissima sia a Sulaimaniyya, dove muoiono nei combattimenti 150 rivoltosi e vengono successivamente giustiziati 600 membri dei servizi di sicurezza, sia a Kirkuk. La rivolta è spontanea: a Sulaimaniyya, Arbil e Kirkuk sorgono decine di "shoras" (termine iraniano che significa "consigli", "soviet"), nei posti di lavoro, nei quartieri (50 a Sulaimaniyya, 42 ad Arbil e sei a Kirkuk). Le forze nazionaliste sono inizialmente al traino delle mobilitazioni popolari, cercano inutilmente di sciogliere le "shoras", dopodiché riescono ad acquisirne il controllo, snaturandone il funzionamento (diventano così "shoras" del PDK, "shoras" dell’UPK, "shoras" per ciascuna delle forze politiche presenti). Le organizzazioni di sinistra, in quanto tali, non hanno neppure esse alcun ruolo nella rivolta — sono loro singoli militanti che dirigono nelle specifiche situazioni le mobilitazioni, gli scontri, ma senza coordinamento alcuno. In quei giorni convulsi si distinguono a Sulaimaniyya i militanti di "Prospettiva comunista", un’organizzazione di estrema sinistra le cui origini secondo alcune fonti risalirebbero al 1983, ma sono presenti anche militanti del PCI e di altre piccole formazioni di estrema sinistra ("Lega della sollevazione insurrezionale", "Gruppo d’Azione Comunista", "Unione Operaia Rivoluzionaria", "Passione del Lavoratore Socialista").

Dal 28 marzo inizia la controffensiva del regime. Minacciando apertamente l’uso delle armi chimiche crea una situazione di panico nella popolazione. Il 28 marzo cade Kirkuk e l’ultima città kurda a cadere è Sulaimaniyya, il 3 aprile. Milioni di persone si riversano sulle montagne, cercando salvezza in Turchia e in Iran.

La rivolta all’inizio di aprile è schiacciata nel sangue. Ha pesato indubbiamente l’appoggio statunitense alla repressione condotta dal regime, ma l’elemento determinante è stato l’immobilismo dell’Iraq centrale e soprattutto della capitale. Perché? Numerosi fattori sono stati citati: la concentrazione a Baghdad delle truppe scelte, l’evacuazione di quasi un milione di persone, per alcuni versi la lentezza delle informazioni (passarono cinque giorni prima che a Baghdad si sapesse della rivolta di Basrah) e per altri versi il fatto che le informazioni che giunsero erano gonfiate, facendo credere che la rivolta miliatre sarebbe arrivata a Baghdad liberandola dall’esterno (questa credenza venne incoraggiata da forze come l’UPK e il Consiglio Supremo della Rivoluzione Islamica). Ma l’elemento decisivo era che a Baghdad non vi era alcuna struttura dell’opposizione che potesse dare delle indicazioni, che fosse attiva, che desse un segnale. Tra l’11 e il 13 marzo, in piena rivolta, a Beirut si riunisce tutta l’opposizione irachena. Non dà nessuna indicazione concreta e comunque a Baghdad non c’era nessun leader in grado di riportare qualsiasi tipo di indicazioni tra le masse.

Il PCI condivide in pieno le responsabilità dell’opposione irachena nel suo complesso. In più l’insurrezione in Iraq si sviluppa, si estende e viene successivamente schiacciata nel sangue grazie alla collaborazione degli Usa e dei suoi alleati, nel silenzio di tutti i paesi arabi, timorosi di una estensione dell’incendio rivoluzionario, e più tragicamente, nel totale e assordante silenzio della sinistra araba e internazionale, che lasciarono la causa della democrazia nelle ipocrite mani dell’imperialismo statunitense.

Il fallimento dell’insurrezione, e la caduta dell’URSS e del "socialismo reale" portano ad una discussione profonda nei ranghi del PCI, discussione che ha uno sbocco al quinto congresso tenuto nel Kurdistan iracheno nel 1993. Il PCI, rispetto agli altri partiti comunisti mediorientali, si pone tra quelli che pur rigettando il proprio passato stalinista, dall’altra parte pongono l’accento sul rinnovamento della tradizione comunista, e non sul suo abbandono. Viene rigettata a maggioranza la proposta di cambiare il nome. In questo si ritrova accanto al PC libanese, a differenza dei PC inamovibili nella dottrina stalinista (PC di Giordania, frazione Khaled Bekdash del Partito Comunista Siriano, frazione del Partito Comunista Saudita all’estero) e dei PC che rigettano tutto il loro passato, cambiando anche il nome, per abbracciare chi il nazionalismo, chi il liberalismo (PC di Palestina, d’Algeria e della Tunisia, oltre alla frazione del Partito Comunista Saudita dell’interno). "Rinnovamento della tradizione comunista" è sinonimo per il Partito Comunista Iracheno dell’adozione di un pragmatismo di tipo socialdemocratico: il fine ultimo è ancora il socialismo, ma in un futuro talmente lontano e fumoso che non se ne distingue il profilo. Questo a causa dell’arretratezza economica del paese, superabile grazie al "capitalismo produttivo" e alle "sezioni produttive del capitalismo" e a un funzionamento corretto del mercato. Viene quindi riconosciuto il ruolo dell’impresa privata nella ricostruzione del post-Saddam. La parola d’ordine centrale è "democrazia e rinnovamento". Il PCI si sburocratizza e i suoi 16 livelli gerachici (l’esercito iracheno ne ha dieci!) vengono ridotti a cinque-sei. Metà del Comitato Centrale è rinnovato, e viene eletto segretario il giovane Hamid Majid Musa, entrato nel CC solo dieci anni prima.

Il PCI nel suo congresso del 1993 chiede la fine dell’embargo internazionale, l’applicazione della risoluzione 688 dell’Onu (quella sui diritti democratici in Iraq, votata nell’aprile 1991), e sottolinea la centralità della ricostruzione del partito a Baghdad e l’alleanza con le altre forze democratiche e patriottiche per un "Iraq unito, democratico e federale". Decide che la propria sezione kurda diventi un partito indipendente (Partito Comunista Kurdo), che appena nato subisce una scissione: i militanti che si battono per l’indipendenza del Kurdistan formano il Partito d’Azione per l’Indipendenza del Kurdistan, formazione che tuttavia rientra nel Partito Comunista Kurdo nell’aprile 2002 (anche se i suoi militanti non rinunciano alla battaglia indipendentista). Alle elezioni per il parlamento kurdo del 1992 il PCI aveva ottenuto 45.000 voti, pari al 4,5%.

Gli anni ’90 sono un incubo per la popolazione irachena. Le attività produttive si bloccano una dopo l’altra, e la popolazione si ritrova tra il martello della repressione del regime e l’incudine dell’embargo internazionale. Il livello di vita è tornato ad essere quello degli anni ’40, e il tasso di mortalità conosce un balzo in avanti terrificante. Gli iracheni oggi all’estero sono tra i 3 e i 5 milioni di persone. La rivolta tuttavia cova nell’Iraq devastato: nel sud dell’Iraq scoppia di nuovo nel maggio 1992. Nelle paludi tra Tigri ed Eufrate una limitata attività di guerriglia continua, anche se il regime procede a un progetto di "bonifica" delle paludi, con l’evacuazione di centinaia di migliaia di persone e scatena una serie di sanguinose offensive, fino a quella svolta tra l’agosto e il novembre 1998, con esecuzioni di massa indiscriminate. Nel febbraio-marzo 1994 Baghdad è testimone delle prime azioni armate di gruppi di guerriglieri. Nel febbraio 1999, dopo l’uccisione dell’ayatollah Mohammed Sadeq al-Sadr e di due dei suoi figli (dal 1994 è il quarto leader religioso sciita ad essere assassinato) si scatena la rivolta in una ventina di città, tra cui Baghdad, dove si registrano 50 morti tra i manifestanti, ma 17 anche tra le forze dell’ordine, e a Basrah, il 17 marzo, dove i manifestanti riescono a conquistare momentaneamente la città. La repressione a Basrah è feroce: 180 persone vengono giustiziate il 21 marzo, altre 56, arrestate, vengono giustiziate il 23 marzo. Per tutta l’estate continuano le esecuzioni nelle prigioni, fino alla carneficina di settembre, quando ne vengono giustiziate circa 500. Ma anche nell’Iraq centrale e in quello occidentale (considerato un "feudo" del regime) si registrano nel corso degli anni rivolte locali, scontri armati, una sicura attività di guerriglia. Nel nord invece, nel Kurdistan de facto indipendente, una sanguinosa guerra tra le due principali formazioni nazionaliste fa 2-3.000 morti tra il 1994 e il 1997, mentre si succedono per tutto il decennio incursioni repressive dell’esercito turco e di quello iraniano e le sanguinose azioni di agenti al servizio di Baghdad, che procedono a numerose azioni terroristiche.

Il Ba’th al potere vede la sua base sociale scomparire, deve far fronte a uno stillicidio di tentati colpi di stato, e si affida sempre più alle strutture tradizionali della società irachena, resuscitando tribù e capi tribali (che ben poco hanno a che vedere con quelli dell’Iraq coloniale, e sono in genere qualificati di "capi tribali made in Taiwan"), delegando loro sempre più poteri statali. La repressione rimane uno degli elementi chiave per la sopravvivenza del regime: oltre alle iniziative contro i guerriglieri delle paludi e per schiacciare la rivolta del febbraio-marzo 1999, il regime lancia nell’autunno 1997 una campagna di "pulizia" delle carceri. Nel giro di un anno vengono giustiziati 2.500 prigionieri politici, e queste esecuzioni continuano imperterrite negli anni successivi. Dalla fine del 1998 l’Iraq è suddiviso in quattro governatorati, con alla testa dei militari che hanno pieni poteri. Un’altra attività in cui il regime spende risorse e tempo è il progetto di arabizzazione di Kirkuk, da cui sono stati espulsi 100.000 kurdi in quest’ultimo decennio.

Il PCI tiene il suo sesto congresso nel 1997, a cui fa seguito una conferenza nazionale, la quinta nella storia del PCI, nel 1999, e il settimo congresso nel 2001. In questi anni le sue parole d’ordine rimangono approssimativamente uguali, per il rovesciamento della dittatura e un processo internazionale a Saddam Hussein per crimini contro l’umanità, per la cancellazione incondizionata dell’embargo internazionale (seguito da un controllo dell’Onu sull’uso delle risorse finanziarie da parte di Baghdad e un continuo isolamento politico, diplomatico e militare del regime), per un’Iraq unito, democratico e federale, contro ogni iniziativa militare che provenga dall’esterno ("la democrazia sarà irrealizzabile se il cambiamento non sarà realizzato dal popolo e dalle sue molteplici forze e partiti nazionali, attraverso una sollevazione popolare o qualsiasi altro mezzo"). Il PCI elabora un "piano patriottico e democratico" e dopo una lunga ed estenuante serie di negoziati ed accordi bilaterali riesce nel luglio 2002 a formare una Coalizione delle Forze Nazionali Irachene, composta da tredici organizzazioni (di cui le tre più significative sono il PCI, il Ba’th filosiriano e al-Da’wa, la storica organizzazione islamica "moderata" degli sciiti del sud) sulla base del rigetto congiunto del regime di Saddam Hussein e delle operazioni militari e della politica statunitense, per "salvare il popolo e la patria dal blocco economico, dalla dittatura e dall’aggressione". I rapporti con le formazioni che accettano il patrocinio Usa sono nulli, anche perché al 99% sono organizzazioni di emigrati senza alcun peso in Iraq, composti di "rivoluzionari con il rolex".

Secondo il PCI, Washington fino al 2001 ha avuto la politica di mantenere al potere Saddam Hussein (da quando lo salvarono dall’insurrezione del marzo 1991), ed ha cambiato linea dopo l’11 settembre 2001 a favore di una propria presenza diretta nel Medio Oriente, per fare dell’Iraq un pilastro della propria politica regionale. Sul regime iracheno, il PCI sostiene che ora rappresenterebbe gli interessi di una borghesia parassitaria, in seguito all’indebolimento del ruolo della borghesia burocratica. Infine viene sempre sottolineata la centralità del radicamento nei centri urbani, anche se non è evidentemente dato sapere a che punto sia questo radicamento (su questo le dichiarazioni variano da un estremo all’altro, e per assurdo viene minimizzato dagli esponenti del partito e ritenuto importante da parte di osservatori esterni); vengono valutate positivamente tutte le azioni militari condotte all’interno dell’Iraq, ma non vengono mai "rivendicate". Nel corso di questi anni il PCI ha subito due minuscole scissioni di destra: l’una concretizzatasi nella fuoriuscita di Yusuf Hamdan che ha immediatamente offerto i suoi servigi al Ba’th e a Saddam Hussein, fondando nel 2000 a Baghdad un "Partito Comunista Iracheno" fantoccio, l’altro di un gruppo denominato "PCI (Corrente Nazionale)" che riprende i vecchi argomenti di "Tribuna Comunista" e che avrebbe offerto una riconciliazione a Saddam Hussein di fronte alla minaccia di aggressione statunitense. Per l’ottavo congresso del PCI è prevista una discussione sul socialismo, il carattere ideologico e di classe del partito e la sua struttura interna.

Nel luglio 1993 si conclude un processo di ricomposizione dell’estrema sinistra irachena. "Prospettiva Comunista" (o quantomeno una sua maggioranza), già attiva a Sulaimaniyya nel marzo 1991, si unifica con altri tre raggruppamenti dando vita al "Partito Operaio Comunista" Iracheno, affiliato all’omonimo partito iraniano sorto nel 1991. Altri piccoli raggruppamenti sono rimasti indipendenti, come "Lotta Proletaria" (ex "Gruppo d’Azione Comunista").

Il "Partito Operaio Comunista" ha tenuto il suo secondo congresso nel dicembre 2002 a Sulaimaniyya, dichiara di avere "migliaia di aderenti, in Iraq e all’estero", e il suo attuale segretario è Ribwar Ahmad. Di orientamento "operaista", consiliarista e antinazionalista (è a favore di un Kurdistan indipendente se questo migliora le condizioni di vita e di lotta dei lavoratori kurdi, ma è contro ogni ipotesi di Iraq federale che rafforzerebbe le tendenze "etniciste" e nazionaliste nel Kurdistan), fa della battaglia contro l’embargo internazionale e l’imperialismo statunitense il centro della sua propaganda ("l’embargo ha distrutto la resistenza delle masse contro il regime di Saddam. Ha indebolito la loro volontà contro la sua arroganza…Chi usa simili mezzi per costringere alla resa Saddam Hussein è ancor più criminale e crudele di lui"), pur mantendo una posizione radicale contro il regime di Saddam Hussein. Rifiuta ogni ipotesi di alleanza con altre formazioni, qualificate come borghesi, e non usa alcuna terminologia "patriottica" a differenza del PCI. In prima linea nella battaglia contro le formazioni islamiche, si batte per una "repubblica socialista". Ha subito numerose perdite, soprattutto ad opera dell’UPK, che nell’estate 2000 ha scatenato una pesante repressione nei suoi confronti.

Marion Farouk-Sluglett e Peter Sluglett scrivevano in modo disperato, nel loro volume sulla storia dell’Iraq, che oggi "non c’è nessun Lenin in esilio e nessun Mandela in prigione in grado di poter prendere la direzione del paese". Di certo in Iraq non vi sono dirigenti nella sinistra comunista con un simile carisma e capacità, vi è tuttavia un partito, il PCI, e altre formazioni alla sua sinistra, con un lunga storia e centinaia di militanti con un eccezionale livello di dedizione, che si dovranno confrontare nei prossimi mesi e anni a scadenze decisive, il cui esito dipenderà dalla capacità del movimento comunista a cogliere correttamente le dinamiche sociali, i sentimenti popolari, le centralità politiche nelle specifiche congiunture, i momenti e i modi in cui investire, anche militarmente, le proprie forze. Questi compiti sono molto complessi, in una situazione devastata come quella irachena e soggetta a molteplici interessi e interventi esteri, ma dove d’altra parte le lotte dei lavoratori e delle masse pauperizzate non si sono spente neppure in quest’ultimo terribile decennio. Negli anni ’40 il PCI riuscì ad emergere come principale forza politica del paese nel giro di pochi anni, partendo da un pugno di militanti, e di nuovo riuscì ad imporsi come la forza politica decisiva nel corso della rivoluzione del luglio 1958, dopo un decennio di clandestinità, di repressione e di fratture politiche. Oggi, come allora, la debolezza principale del PCI risiede nelle sue prospettive strategiche, e nella loro articolazione con i compiti odierni, ma oggi, diversamente dal passato, è venuta a cadere una tutela moscovita che ingabbiava riflessioni e imponeva decisioni conformi agli interessi della propria politica estera (in questo la sinistra irachena condivide debolezze e potenzialità di larga parte della sinistra internazionale).

La sinistra internazionale, oltre a battersi contro l’embargo economico internazionale e alla nuova guerra degli Stati Uniti, dovrebbe sviluppare una rete di appoggio e di solidarietà nei confronti dei comunisti iracheni e della popolazione che si batte contro il regime di Saddam Hussein. Questa solidarietà, drammaticamente assente nella primavera del 1991, potrà essere un elemento molto importante per dare loro risorse e coraggio, affinché siano gli iracheni sfruttati ed oppressi a prendere, finalmente, la direzione del loro paese.

Bibliografia

Chi volesse inquadrare la situazione delle classi subalterne irachene nel tempo (dalla fine del ‘700) e nello spazio mediorientale, deve far riferimento al volume di Joel Beinin, Workers and Peasants in the Modern Middle East (Cambridge, 2001). La migliore storia dell’Iraq è, per il periodo dalla rivoluzione del 1958 ad oggi, quella scritta da Marion Farouk-Sluglett e Peter Sluglett, Iraq since 1958. From Revolution to Dictatorship (London, terza edizione aggiornata del 2001), mentre ottima per il periodo precedente è la sintesi fatta da Samira Haj, The Making of Iraq, 1900-1963. Capital, Power and Ideology (New York, 1997). Il CARDRI (The Committee against Repression and for Democratic Rights in Iraq) ha pubblicato due volumi di saggi vari, l’uno più centrato sulla storia irachena, l’altro sulla situazione creatasi all’indomani della guerra del Golfo del 1990-1991: Saddam’s Iraq. Revolution or Reaction? (London, seconda edizione del 1989) e Iraq since the Gulf War. Prospects for Democracy (London, 1994). Di una ricchezza informativa e analitica inestimabile è la collezione di Middle East Report (precedentemente MERIP Reports) dal 1981 ad oggi, con saggi tra gli altri di Joe Stork, Marion Farouk-Sluglett e Peter Sluglett, ‘Isam al-Khafaji, Hanna Batatu, Robert Springborg, Kiren Aziz Chaudhry e Faleh Abd al-Jabbar.

Sulla stratificazione e dinamica delle classi irachene, e sul Partito Comunista, il volume di riferimento obbligatorio è quello di Hanna Batatu (uno studioso statunitense di origine palestinese, recentemente scomparso), The Old Social Classes and the Revolutionary Movements of Iraq. A Study of Iraq’s Old Landed and Commercial Classes and of its Communists, Ba’thists, and Free Officers (Princeton, prima edizione del 1978, a cui ne è seguita una corretta del 1982 - l’ultima ristampa, oggi esaurita, è del 1992). Questo monumentale lavoro (di ben 1.300 pagine) non solo è stato una svolta decisiva per gli studi sull’Iraq, ma in generale costituisce a tutt’oggi una vera pietra miliare per ogni studio sociale del Medio Oriente. Nel 1989 si è tenuto un convegno sulla storia irachena e sul contributo di Batatu, i cui atti sono stati pubblicati a cura di Robert A. Fernea e Wm. Roger Louis nel volume The Iraqi Revolution of 1958. The Old Social Classes Revisited (London-New York, 1991). Su comunismo e questione agraria si è dedicato Rony Gabbay (Communism and Agrarian Reform in Iraq, London, 1978), mentre interessanti saggi specifici sono Abbas R. Kelidar, Aziz al-Haj: A Communist Radical (in: Abbas Kelidar, ed., The Integration of Modern Iraq, New York, 1979) e del trotskista GCR libanese, Le Parti Communiste Irakien et la revolution kurde: une histoire de trahison (Inprecor, n. 5/6, 5 aout 1974). Sul movimento sindacale: Marion Farouk-Sluglett & Peter Sluglett, Labor and National Liberation: the Trade Union Movement in Iraq, 1920-1958 (Arab Studies Quaterly, Spring 1983) e Jacques Couland, Etat et mouvement syndical en Irak (1967-1978) (Sou’al, n. 8, fevrier 1988). La sezione in Italia e quella in Francia del PCI hanno provveduto a tradurre diversi documenti ufficiali del PCI: personalmente ho potuto consultare quelli relativi al periodo 1979-1981.

Sull’insurrezione del marzo 1991 si veda il saggio di Faleh Abd al-Jabbar, Why the Uprisings Failed, pubblicato dapprima in Middle East Report (may-june 1992) e successivamente nel citato volume del CARDRI del 1994, e gli articoli e le testimonianze disponibili su Internet sul sito della formazione ultrasinistra Gruppo Comunista Internazionalista (http://www.geocities.com/communisme_gci/c43_irak.htm), che ha alcuni affiliati nel Kurdistan iracheno, e l’opuscolo (anch’esso rintracciabile su Internet) "The Kurdish Uprising" (http://flag.blackened.net/af/ireland/pages/library_weblogs_revolt.htm).

Sulla dinamica della sinistra irachena negli anni ’90 si veda Faleh A. Jabar, The Arab Communist Parties in Search of an Identity (in: Faleh A. Jabar, ed., Post-marxism and the Middle East, London, 1997) e i documenti disponibili sui siti del PCI (http://www.iraqcp.org/framse1/ e http://user.tninet.se/~lto357q/framse1/) e su quello del Partito Operaio Comunista Iracheno (http://www.wpiraq.org/english/).

Altri utili saggi specifici sono: M. Ja’afar, Les limites de l’industrialisation du monde arabe. Etude du cas de l’Irak (Khamsin, n. 4, 1977) ; Eric Davis, History for the Many or History for the Few ? The Historiography of the Iraqi Working Class (in: Zachary Lockman, ed., Workers and the Working Classes in the Middle East. Struggles, Histories, Historiographies, New York, 1994); Marion Farouk-Sluglett & Peter Sluglett, The Historiography of Modern Iraq (American Historical Review, december 1991); Joe Stork, Oil and the Penetration of Capitalism in Iraq (in: Petter Nore & Terisa Turner, ed., Oil and Class Struggle, London, 1980); Joe Stork, Class, State and Politics in Iraq (in : Berch Berberoglu, ed., Power and Stability in the Middle East, London, 1989); Samir Amin, Irak et Syrie 1960-1980, Paris, 1982.