La legge delega sul lavoro.

Un’analisi, dal punto di vista dei lavoratori, dei contenuti di un provvedimento che si propone di cambiare radicalmente le regole che disciplinano il rapporto di lavoro. Di Duilio Felletti. Marzo 2003.


La riforma del mercato del lavoro, frutto del Libro bianco di Marco Biagi, è legge.

Questa legge dà attuazione e recepisce i contenuti del Patto per l’Italia e apre la strada a nuove e più pesanti flessibilità con nuove tipologie contrattuali, liberalizza inoltre il collocamento e definisce regole per i lavoratori parasubordinati.

Il tempo che c’è da ora all’estate servirà al governo per mettere a punto i decreti attuativi della legge, per far sì che in tempi rapidi i padroni possano stipulare i nuovi contratti (che tanto nuovi non sono) che la legge prevede; e soprattutto per i nuovi lavoratori, si tratta di avere a che fare con cambiamenti notevoli nel rapporto di lavoro rispetto il passato.

Maroni si è detto "soddisfatto e commosso" per l’approvazione di questa legge, mentre Sacconi (suo vice) gli ha fatto eco definendola "la riforma più coraggiosa a 33 anni dallo Statuto dei Lavoratori" e aggiunge che "questa legge è stata voluta per rendere più giusto e più competitivo il Paese che in Europa ha il più basso tasso di occupazione regolare e il più alto tasso di lavoro sommerso".

La lotta che il sindacato ha fatto nei mesi scorsi per lo stralcio della modifica dell’articolo 18, e che è arrivata a buon fine, ha paradossalmente reso più agevole l’approvazione di questa riforma, ed è ancora lo stralcio che consentirà nei primi 4/5 mesi di quest’anno l’approvazione della legge che liberalizzerà il licenziamento illegittimo in via sperimentale per le aziende che sfonderanno il muro dei 15 dipendenti.

Nella stessa legge verranno inseriti i provvedimenti di incentivo all’occupazione, redefinizione degli ammortizzatori sociali e la nuova indennità di disoccupazione.

Il quadro a questo punto si è completato.

I padroni, assumendo nuovi lavoratori, potranno godere da un lato di sgravi fiscali di vario tipo, e dall’altro, della possibilità di disporre di forza lavoro flessibile, precaria e ricattabile. I lavoratori da parte loro dovranno abituarsi a essere sempre di più elementi usa e getta del ciclo produttivo e sempre meno soggetti depositari di diritti.

Di tutti i diritti, a partire dal non essere licenziati ingiustamente, ma non solo: il diritto a un’assunzione trasparente ed egualitaria, il diritto a un salario adeguato alle necessità di una vita dignitosa, il diritto alla programmazione del proprio futuro che solo la certezza del tempo indeterminato consente, il diritto a godere del proprio tempo al di fuori dell’orario di lavoro, il diritto alla crescita professionale, il diritto alla contrattazione singola e collettiva, il diritto di adesione a un sindacato libero.

Ma come concretamente il mercato del lavoro si modificherà? e quali saranno le conseguenze più serie per i lavoratori? Cosa devono aspettarsi i lavoratori che negli ultimi anni hanno visto solo un peggioramento delle loro condizioni, sia sul piano dei diritti che su quello del salario? Con questo ci proponiamo articolo di entrare nel merito di questa problematica passando in rassegna gli aspetti della legge delega che con più evidenza vanno a colpire i diritti e gli interessi fondamentali della classe lavoratrice.

La riforma del collocamento

Fino ad ora l’unica struttura che garantiva la regolarità dell’instaurazione di un rapporto di lavoro era costituita dagli uffici di collocamento diffusi su tutto il territorio nazionale, e alle dirette dipendenze del Ministero del lavoro.

Col tempo però questi sono stati progressivamente svuotati della loro funzione grazie a leggi (fatte dai vari governi che si sono succeduti) che hanno sempre più consentito ai padroni mano libera nelle assunzioni, aggirando le rigidità poste dalle liste del collocamento pubblico che garantivano anche a chi aveva problemi di poter accedere al mondo nel mercato del lavoro.

La nascita delle agenzie per il lavoro interinale volute dal Governo Prodi, ha inferto il colpo di grazia al collocamento pubblico andandosi nei fatti a sostituire a questo, costringendolo ad assumere il ruolo di una semplice banca dati da cui le stesse agenzie potevano attingere per assumere i lavoratori "più adatti".

La delega, prendendo atto della situazione, apre spudoratamente ai privati l’attività di intermediazione tra la domanda e l’offerta di lavoro.

Per trovare lavoro, dunque, ci si potrà rivolgere, oltre che ai servizi pubblici per l’impiego (gli uffici di collocamento appunto) anche alle agenzie private, ai consulenti del lavoro, e alle università.

Accadrà che le strutture pubbliche entreranno in concorrenza con quelle private, e questo, secondo il Governo darà maggiore efficienza al sistema di reclutamento dei lavoratori.

Si aprirà la caccia al lavoratore "migliore", e nasceranno le agenzie buone, quelle cioè che saranno in grado di rispondere meglio alle esigenze dei vari padroni. Si creeranno inevitabilmente dei canali diretti tra l'agenzia Pinco che fornirà lavoratori con le caratteristiche adatte all’impresa Pallino con meccanismi che non saranno molto diversi da quelli che caratterizzavano il caporalato di triste memoria.

Le strutture pubbliche (che oggi si chiamano "Centri per l’impiego") si troveranno invece a dover gestire quei lavoratori che non vorrà nessuno, perché magari, malati, anziani, o con altri problemi.

Si creerà inevitabilmente un mercato del lavoro "vivace", e un altro che si muoverà con grosse difficoltà, e che pertanto sarà destinato alla scomparsa a tutti gli effetti.

I servizi pubblici e privati saranno inoltre collegati in rete attraverso il Sil (Sistema informativo lavoro): una banca dati on line che raccoglierà, su tutto il territorio nazionale, i curricula dei lavoratori in cerca di occupazione.

È l’abolizione definitiva del principio della precedenza all’accesso al lavoro dei soggetti che per varie ragioni non godono della protezione di nessun santo in paradiso.

La riforma dell’autsourcing

Con questo termine inglese si intende la cessione di una parte di una determinata azienda ad un altro padrone (leggi anche La cessione del ramo d’azienda).

Con questo provvedimento si è cercato di rendere la legislazione italiana omogenea con le direttive europee che in questi ultimi anni si sono succedute.

La norma prevede che per poter dare in autsoucing un’attività dell’impresa occorre dimostrare che sussista, nel momento stesso del trasferimento, una reale autonomia funzionale del ramo da esternalizzare. Cioè il pezzetto di azienda che si stacca dovrà camminare esclusivamente con le proprie gambe.

Viene inoltre fissato il principio secondo cui i lavoratori che vengono venduti debbano mantenere in tutto e per tutto i diritti che avevano nella precedente azienda.

Vista così potrebbe sembrare che si tratti di una legge che in ultima analisi pone dei vincoli ai padroni e tuteli i lavoratori.

Ma in realtà i fatti di questi ultimi anni sono lì a dimostrare che questo strumento viene regolarmente utilizzato dai padroni per spezzettare le unità produttive in tante piccole aziende, dove i lavoratori sono meglio controllati e ricattati e dove questi hanno maggiori difficoltà a organizzare la difesa anche dei più elementari diritti.

Non serve a molto garantire al lavoratore gli stessi stipendio, categoria, anzianità, e quant’altro, se poi, ad esempio non ha più gli strumenti sindacali per poter conservare o rafforzare le condizioni di partenza.

Ed anche il fatto che il settore che viene venduto rappresenta un’entità autonoma, di per sé non significa nulla, dal punto di vista del mantenimento del posto di lavoro.

Accade sovente che un ramo di azienda (valutato autonomo e indipendente) viene acquistato da un avventuriero che in realtà è interessato al terreno (come ad esempio è successo nell’area dell’Alfa Romeo di Arese) e che quindi lascia morire la fabbrica con annessi tutti i lavoratori, i quali lavoratori, isolati, non saranno in grado di difendersi adeguatamente.

Per non parlare poi di quei piccoli rami d’azienda, creati apposta e composti, guarda caso, da 15 lavoratori, in cui i diritti sindacali verranno tutti seppelliti.

Il job on call

È una tipologia contrattuale del rapporto di lavoro (scarsamente conosciuta in Italia, se non nell’ambito di sperimentazioni aziendali, ma molto diffusa in Olanda) che permette a un’impresa di chiamare in qualunque momento un lavoratore a seconda delle esigenze produttive. Il lavoratore riceverà un’indennità fissa detta di disponibilità, oltre che alla retribuzione per le ore di lavoro effettive.

Due sono, pertanto, le caratteristiche di questo tipo particolare di lavoro dipendente: la discontinuità e intermittenza delle prestazioni svolte dal lavoratore su richiesta del padrone; la cosiddetta indennità di disponibilità.

Per quanto riguarda la prima caratteristica, la delega precisa che toccherà ai contratti nazionali individuare le prestazioni di carattere discontinuo, o in mancanza, dal ministro del lavoro.

Il lavoratore su chiamata avrà l’obbligo di prestare la propria attività lavorativa ogni qualvolta gli verrà richiesta e, in più, l’obbligo di rimanere a disposizione del padrone anche successivamente alla prestazione e fino alla successiva chiamata.

La delega, poi, prevede anche il diritto del lavoratore a non rispondere alla chiamata, ma questo comporterà perdita anche dell’intera indennità di disponibilità.

Nel testo definitivo, la legge delega precisa che questa indennità deve essere "congrua" senza tuttavia precisare quali debbano essere i criteri in base ai quali valutare la congruità dell’indennità stessa.

Infine la legge prevede la possibilità di sperimentare questa tipologia di contratto principalmente con i disoccupati con meno di 25 anni di età e i lavoratori con più di 45 anni di età che siano stati licenziati a seguito di ristrutturazioni o chiusure aziendali e che pertanto si trovano iscritti nelle liste di mobilità e di collocamento.

Questo tipo di rapporto di lavoro è ben conosciuto dai lavoratori, che nelle fabbriche che lavorano a ciclo continuo (ma anche dai medici e dagli infermieri degli ospedali) fanno le manutenzioni di pronto intervento, e che in cambio di un'indennità di reperibilità, si rendono disponibili a intervenire in qualsiasi momento in cui ce ne fosse bisogno.

Ma questa reperibilità solitamente viene garantita per un periodo definito (ad esempio per una settimana al mese) proprio per non sconvolgere più di tanto la vita del lavoratore.

La novità assoluta di questa legge è che si prevede che il lavoratore debba in pianta stabile vivere questo rapporto di subordinazione alle esigenze del padrone per 24 ore al giorno con spazi praticamente nulli di organizzazione della propria vita (in aggiunta all’elemento non trascurabile della drastica riduzione dei livelli salariali).

Nel suo insieme si tratta in pratica della realizzazione del sogno padronale di avere a disposizione sempre i lavoratori, ma di utilizzarli solo quando servono e di averli in fabbrica solo per lavorare e non per fare altro (tipo organizzare scioperi e/o assemblee).

Il job sharing

È un istituto nato negli USA (da cui il Governo mostra di voler imparare molto) che finora non ha avuto molto spazio in Italia, anche a causa della scarsa regolamentazione (esiste solo una circolare del Lavoro del 1998 che ne riconosce la legittimità).

In sostanza il job sharing prevede che un’unica prestazione possa essere condivisa da due lavoratori, che si dividono tutto: la retribuzione, corrisposta in modo proporzionale alle ore lavorate, le assicurazioni obbligatorie e la contribuzione relativa alle prestazioni assistenziali e previdenziali.

I lavoratori che si assumono insieme l’obbligo di eseguire un'unica prestazione di lavoro restano liberi di dividersi l’orario di lavoro, anche sostituendosi vicendevolmente in caso di impedimento purché alla fine il lavoro venga eseguito.

Nello schema del job sharing ogni lavoratore è personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento dell’intera "obbligazione" (viene chiamato così il lavoro, proprio per sottolineare l’obbligo del lavoratore a sostituire l’eventuale assenza del collega).

Con questo meccanismo in pratica il padrone, senza pagare nulla di più, si garantisce una continuità della prestazione che prima non aveva.

Infatti prima, in caso di un’assenza (per malattia o per altro) il posto restava sguarnito, o, al massimo, poteva essere ricoperto da figure "jolly" ma che però restavano inattive quando il titolare del posto era presente.

Col job sharing il padrone ha a disposizione due lavoratori al costo di uno e una presenza sul posto garantita, con un abbattimento drastico e sensibile del tasso di assenteismo.

E anche in questo caso, questa forma di flessibilità, si tradurrà per il lavoratore in ulteriore peggioramento delle condizioni di vita, che si troverà ad essere senza orario fisso e senza nessuna contropartita sul piano del salario.

Lo staff leasing

Si tratta di un contratto interinale…lungo.

Questa nuova forma contrattuale, nata sempre negli USA, consentirà alle aziende di prendere in affitto da agenzie specializzate mano d’opera, anche per periodi a tempo indeterminato.

L’affitto dovrà però essere giustificato, come al solito, da ragioni tecnico organizzative individuate dalla legge.

Compito della contrattazione collettiva sarà quello di individuare le tipologie delle mansioni per le quali prevedere lo staff leasing.

Ciò significa che il ricorso a questo tipo di affitto di mano d’opera sarà consentito non solo quando si verificano esigenze momentanee, ma anche per attività aventi carattere permanente.

Quindi rispetto al lavoro interinale siamo di fronte a un ulteriore svantaggio per il lavoratore; infatti mentre prima in via teorica, passati due anni nella stessa azienda a fare il medesimo lavoro, il dipendente doveva essere assunto, ora invece il rapporto in affitto può protrarsi fino alla pensione.

Però, come per il lavoro interinale il lavoratore resterà dipendente dell’agenzia e non dell’utilizzatore, il quale utilizzatore potrà disfarsene in qualsiasi momento e/o chiederne la sostituzione da parte dell’agenzia, che a sua volta potrà attingere senza alcun vincolo sul mercato del lavoro in virtù della riforma del collocamento di cui abbiamo già detto.

Il padrone utilizzatore godrà di un sensibile risparmio sul costo del lavoro sia perché comunque potrà sfruttare il lavoratore nelle fasi del ciclo lavorativo a più alta resa di valore aggiunto, sia perché tutte le pratiche burocratiche e amministrative che normalmente svolgeva in prima persona, ora vengono scaricate sull’agenzia che ha alle sue dipendenze il lavoratore.

Il lavoratore da parte sua si troverà a dover cambiare frequentemente posto di lavoro, per cui diventerà oggettivamente più difficile, se non impossibile, far maturare nelle aziende la coscienza sindacale che solitamente è il prodotto di un lavoro di lunga durata che i lavoratori più coscienti portano avanti sui posti di lavoro, nell’ambito di una forma contrattuale stabile. È prevedibile una caduta delle adesioni ai sindacati e un loro indebolimento del potere contrattuale, con tutto ciò che ne consegue.

Il part-time

Questa tipologia del rapporto di lavoro è sempre esistita, e nel tempo, i sindacati e le organizzazioni padronali, hanno di volta in volta cercato di fare accordi che rendessero il part-time sempre più confacente ai rispettivi interessi.

Nella delega vengono riscritte le norme che oggi regolamentano il part-time in modo da renderlo più funzionale alle esigenze del padronato; per cui sono stati inseriti degli elementi che ne aumentano la flessibilità.

Nel 2002 i lavoratori a tempo parziale erano 1,325 milioni di cui 1,028 milioni donne, e questo dato dice da solo qual è il problema che sottende questo tipo di contratto: il part-time è un problema principalmente femminile.

Lo scontro è sempre stato quindi tra, da una parte le lavoratrici, che nel momento in cui chiedono di lavorare a tempo parziale, chiedono anche una rigidità dell’orario di lavoro, per ovvie ragioni di organizzazione della propria vita; e dall’altra vi sono i padroni che quando concedono il part-time chiedono invece la possibilità di aggiungere all’orario ridotto un certo quantitativo di lavoro supplementare (lo straordinario), e di spostare la fascia oraria a seconda delle loro esigenze.

Questo contrasto ha sempre reso molto difficile l’utilizzo del part-time, e la legge delega entra in questa contraddizione, facendo delle precise scelte: dietro l’obbiettivo pretestuosamente dichiarato di voler aumentare l’occupazione femminile "ai livelli europei", introduce norme che facilitano al padrone la possibilità di fare ricorso allo straordinario e, come dicevamo, di spostare le fasce orarie di lavoro a seconda delle esigenze della produzione.

Così accadrà inevitabilmente che il lavoratore (nei fatti, la lavoratrice) verrà utilizzato nei momenti in cui potrà essere maggiormente sfruttato, con possibilità di prolungamento dell’orario.

Si tratterebbe in pratica di una forma di riduzione dell’orario di lavoro, con l’obbiettivo di elevare l’intensità di sfruttamento.

Si dichiara inoltre di voler sperimentare il part-time anche per i giovani alla ricerca della prima occupazione i quali, a causa della loro condizione fortemente ricattabile, potrebbero anche accettare fasce orarie di lavoro capestro, ad esempio: quattro ore giornaliere dalle 23 alle 3 dal giovedì al martedì successivo.

Una cosa molto curiosa/pericolosa è che il lavoratore part-time nel computo generale del numero dei dipendenti conterà in proporzione al tempo prestato. Ciò significa che se in un’azienda vi sono 10 lavoratori che lavorano per 20 ore, e l’orario normale è di 40, è come se questi fossero 5.

Per cui se un’azienda avesse 30 lavoratori tutti a part-time è come se ne avesse 15 e lo statuto dei lavoratori potrebbe non venire applicato.

Le collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co)

Il contratto di collaborazione viene ricondotto a un progetto o a un programma di lavoro.

L’obbiettivo dichiarato, quindi è quello di porre fine allo sconcio del proliferare di questo tipo di contratto di lavoro, dietro il quale si nasconde in realtà un normalissimo rapporto di lavoro subordinato, con livelli di sfruttamento e di salario ai limiti del tollerabile.

Con queste premesse, la delega, potrebbe essere valutata positivamente, ma in realtà quello che il governo cerca di fare è di rendere più digeribile al lavoratore questa forma di contratto dandogli maggiori tutele (malattia, contributi, definizione per iscritto delle funzioni), ma resta ferma la decisione di continuare ad utilizzare questa forma contrattuale che ha la precarietà come elemento che la caratterizza.

In pratica non si dice: "basta con i co.co.co." , ma si dice invece "rendiamo stabile questa forma di precarietà".

Dalle collaborazioni coordinate e continuative vengono distinte le collaborazioni occasionali che non dovranno avere una durata superiore ai trenta giorni nel corso di un anno con lo stesso committente e un compenso superiore ai 5mila euro.

Si crea quindi una separatezza tra chi effettivamente compie un lavoro occasionale e di livello elevato e chi invece fa un normale lavoro subordinato ma viene comunque mantenuto nello stato di precarietà.

La certificazione

Con questo provvedimento si vuole dare la possibilità al padrone di certificare lui in prima persona e preventivamente il tipo di rapporto di lavoro che va a instaurare con il lavoratore.

Questo dovrebbe togliere parecchi problemi in caso di contezioso in materia di lavoro.

Attualmente è l’INPS a svolgere questa funzione e lo fa ogni qualvolta si rende necessario in caso di cause legali.

Il fatto che sia un soggetto privato, o al massimo un ente bilaterale, introduce nella materia questioni che potrebbero rendere il lavoratore ulteriormente ricattabile.

Potrebbe accadere tranquillamente che un lavoratore venga assunto presso un’azienda a patto che accetti che il suo rapporto di lavoro venga certificato come co.co.co, o part-time, o altro ma poi effettivamente si trovi a operare con un diverso rapporto per il quale il salario e i diritti potrebbero essere più elevati. L’aver però accettato una certificazione lo metterà in futuro nelle condizioni di non poter far causa al proprio padrone.

In conclusione possiamo dire che questa legge vista nel suo insieme rappresenta una manovra molto ben articolata, e che, come dicevamo, dovrà essere ulteriormente precisata, con lo strumento dei decreti attuativi, che è chiaramente rivolta a mettere ordine nei meccanismi che consentono al padrone di assumere chi, e per quanto tempo, a lui serve per ottenere il massimo dei profitti e riducendo al massimo i costi.

Rispetto a questa manovra la Cisl e la Uil non hanno espresso un giudizio negativo, in quanto nel Patto per l’Italia era previsto che il Governo andasse all’approvazione di questa legge, e puntano invece il dito sull’immobilità dei padroni che, pur trovandosi di fronte a questa opportunità di super sfruttamento della forza lavoro non ne approfittano facendo investimenti e rimettendo in questo modo in moto i meccanismi dello sviluppo.

È facile invece prevedere che lorsignori ne approfitteranno per rivedere all’interno delle proprie aziende gli assetti organizzativi, e per introdurre tutte le varie forme di precarietà e flessibilità previste dalla nuova legge, che consentiranno loro un più elevato livello di sfruttamento e un maggior controllo dei lavoratori.

Molto debole è stata anche la critica sviluppata dalla Cgil la quale ha accusato il Governo di avere introdotto nelle forme contrattuali l’elemento della precarietà, con discorsi sottili di distinguo tra flessibilità (buona) e precarietà (cattiva).

Ma anche supponendo che vi sia una distinzione tra precarietà e flessibilità, è innegabile che la prima è stata attuata grazie al precedente costituito dalla seconda.

In pratica, se oggi siamo a disquisire su job sharing, o staff leasing, è perché prima c’è stato il pacchetto Treu con tutte le sue flessibilità e i contratti di formazione e lavoro, eccetera: e su questo anche la Cgil, con cinese annesso, forse ne ha qualche responsabilità.