Flessibilità o precarietà:
questo è il problema?
Un
elemento che ha caratterizzato il dibattito tra le forze politiche durante
l'ultima campagna elettorale è stato quello della precarietà
del lavoro. Contro la destra che ha voluto la precarietà, le forze
del centro sinistra hanno sostenuto la flessibilità. Ma è poi
così vero che "flessibile è bello" e "precario
è brutto"?. Di Duilio Felletti. Settembre 2006.
Flessibilità e/o precarietà e costo
del lavoro In sintesi possiamo dire che i padroni cercano di ridurre
il costo del lavoro agendo su due fronti: quello della riduzione diretta dei
costi che gravano sul lavoro, e quello dell'aumento dei livelli di produttività. Possiamo anche dire, ancora meglio, che i padroni cercano
di ridurre il costo del lavoro puntando a pagare la prestazione del lavoratore
solo nel momento, e per il tempo in cui, questa è effettiva. L'introduzione del lavoro precario (che inizialmente aveva
la denominazione più elegante di "atipico") è stata
un'idea scaturita dalla concertazione degli anni '90, tant'è che ormai
molto difficilmente oggi un lavoratore viene assunto con un contratto a tempo
indeterminato: nella prima fase come minimo deve sciropparsi un periodo più
o meno lungo di lavoro interinale o a progetto o a... chissà cos'altro,
per poi sperare di essere assunto in pianta stabile. Ma negli anni che hanno preceduto l'affermarsi del lavoro
precario, i ragionamenti tra padroni e sindacati volti a far fronte alle crisi
aziendali vertevano invece sulla flessibilità dell'utilizzo della forza
lavoro. Vale a dire sulla possibilità per il padrone di utilizzare
il lavoratore, nella medesima azienda, in diverse mansioni a seconda delle
esigenze "tecniche, organizzative e produttive" del momento.
E nel merito si sono fatti parecchi accordi, sia nelle industrie che nei servizi,
ma anche nel pubblico impiego. Non è stato facile per i padroni ottenere questi risultati;
diciamo che la loro linea è stata portata avanti con intelligenza,
coerenza, pazienza e determinazione. Accelerando nei momenti di sbandamento
dei sindacati, e cercando l'accordo nei momenti di particolare tensione sociale.
E' in questo miscuglio tra determinazione padronale e mancanza
di autonomia sindacale, in un quadro di sostanziale stagnazione economica
e aumento della disoccupazione, che si sono approvate modifiche contrattuali
e legislative che progressivamente hanno fatto perdere al rapporto di lavoro
la caratteristica della stabilità, rendendolo prima flessibile e in
seguito precario. Con la flessibilità è stato possibile saturare
il tempo di lavoro dei dipendenti, con conseguenti aumento della produttività
e riduzione del clup; con la precarietà si è resa possibile
l'interruzione del rapporto di lavoro con conseguente drastica riduzione del
costo. Flessibilità sì, precarietà
no A prima vista queste argomentazioni sembrerebbero dettate
dal buo senso. Infatti per un lavoratore dovrebbe essere "meglio"
poter mantenere il suo posto di lavoro stabilmente, anche in condizioni di
flessibilità e di iper-sfruttamento, "piuttosto che"
non sapere di che morte morire da lì a qualche mese. In realtà però le cose non stanno così;
e le argomentazioni usate dai sostenitori del lavoro flessibile (anche a sinistra)
sono in realtà delle grosse mistificazioni che nascondono la dura realtà
e servono esclusivamente a convincere i lavoratori ad accettare condizioni
di lavoro peggiori, a tutto vantaggio dei padroni. Cosa comporta la flessibilità L'interesse dei lavoratori Che fare
Ci sembra di non sbagliare se diciamo che oggi (per non dire da sempre) l'assillo
costante dei padroni è quello di ridurre ai minimi termini il costo
del lavoro, come azione imprescindibile per la sopravvivenza delle loro aziende.
E l'insistenza con cui di volta in volta agitano questo argomento dipende
dalla contingenza economica.
In questa fase, la concorrenza da loro definita "sleale" dei paesi
orientali (Cina, India), i quali conquistano fette crescenti di mercato invadendolo
con prodotti ottenuti grazie all'utilizzo di forza lavoro sottopagata, li
porta a invocare la necessità di provvedimenti legislativi (come una
riduzione del carico fiscale sul costo del lavoro) che consentano loro di
avere costi inferiori sulla forza lavoro impiegata nel ciclo produttivo.
Nello stesso tempo però non hanno mai smesso di parlare di competitività
da riconquistare con l'aumento della produttività, che in Italia sembrerebbe
(e probabilmente è vero) una delle più basse a livello europeo.
Ricordiamo che quando parliamo di produttività parliamo del tempo necessario
per produrre una quantità unitaria di un determinato bene di consumo.
Spesso al posto del termine produttività usano anche il termine "costo
del lavoro per unità di prodotto (clup)": è la stessa cosa
poichè un aumento della produttività porta alla riduzione del
clup.
Cioè, se un lavoratore lavora sei ore su otto, il padrone intenderebbe
pagarne sei. Oppure, se la prestazione di un lavoratore si rende necessaria
per soli tre giorni alla settimana, o per 4 mesi in un anno, il padrone vorrebbe
non averlo alle sue dipendenze per il restante periodo.
Insomma il sogno del padrone non è quello di non pagare il lavoratore,
bensì quello di poter disporre del lavoratore solo quando gli serve
(il lavoratore usa e getta).
Il lavoratore da parte sua non dovrebbe temere di trascorrere periodi di inattività,
in quanto, funzionando le cose in questo modo su larga scala (cioè,
se tutti i padroni facessero così), si troverebbe invece a dover cambiare
attività più volte. E che sarà mai!..
I sindacati da parte loro, con i dovuti distinguo, non sono mai riusciti,
o mai voluto, opporsi alla logica della ricerca costante della riduzione del
costo del lavoro, come se questo rappresentasse un problema anche per il movimento
sindacale.
Uno degli elementi di propaganda elettorale del centro-sinistra è stato
la lotta alla precarietà. il Prc ha addirittura proposto l'abrogazione
della legge Biagi (accontentandosi poi di una mediazione al ribasso).
L'argomento della flessibilità non è mai stato toccato, se non
per operare un chiaro distinguo tra precarietà e flessibilità.
Secondo questo distinguo, la flessibilità (che in una fase successiva
è diventata anche "interaziendale") sarebbe buona ("l'abbiamo
voluta noi..." hanno sentenziato Prodi, Fassino, Rutelli e compagnia)
, perchè consentirebbe a un giovane che si avvicina al mercato del
lavoro di coglierne tutte le opportunità e di crescere professionalmente.
Sarebbe quindi (addirittura) nell'interesse del lavoratore accettare la flessiblità.
Altra cosa sarebbe la precarietà, che "utilizzata così
com'è" renderebbe il giovane privo di speranze per il futuro,
lo ferebbe cadere in depressione, ecc... e quindi "occorre ridurre
il numero dei precari".
Quando un padrone parla di flessibilità intende una cosa molto semplice:
vuole ad esempio poter imporre ad un operaio che lavora su un determinato
impianto di intervenire anche nella manutenzione dello stesso in caso di guasto;
oppure ancora imporre a un gruppo di operai che operano sullo stesso impianto
di attivarsi per sopperire all'assenza di un compagno normalmente presente
in organico al fine di garantire alla fine della giornata la stessa produzione;
o similmente accorpare mansioni e farle eseguire da un numero ridotto di organici.
I nostri compagni sindacalisti ci spiegano però che in questo modo
il lavoratore che si rende disponibile a varie mansioni cresce professionalmente
parallelamente alla valorizzazione della sua forza lavoro, diventando anche
più forte sul piano contrattuale; il problema però è
che se il lavoratore impara un nuovo lavoro crea le condizioni oggettive affinchè
in prospettiva non ci sia più bisogno di un altro lavoratore che faccia
il suo stesso lavoro. Questo significa che prima o poi uno dei due verrà
espulso dall'azienda e quello che resta dovrà lavorare di più.
Sono tutte queste situazioni che solitamente i sindacati gestiscono (nei momenti
favorevoli) ottenendo contropartite economiche, che però nei fatti
vanno a legittimare e successivamente stabilizzare delle situazioni che procederanno
inevitabilmente con un numero ridotto di personale.
Cosa comporta la precarietà
La precarietà di un rapporto di lavoro si verifica quando il lavoratore,
oltre alla data di assunzione conosce in aticipo anche la data del licenziamento.
E tanto più le due date sono vicine, tanto più il rapporto di
lavoro è precario. Quanto più i periodi di lavoro a tempo determinato
si susseguono tanto più la precarietà diventa normalità.
Un lavoratore precario fortunato (cioè che non trascorre periodi lunghi
di inattività) è costretto spostamenti continui da un posto
di lavoro ad un altro con (spesso) conseguenti cambi continui di mansione.
Resta in un'azienda finchè c'è bisogno di lui, dopo di che se
ne deve andare.
Accade anche che un padrone assuma un lavoratore con contratto "atipico"
pur sapendo che di quel lavoratore in realtà ne avrà bisogno
stabilmente; in questo modo potrà liberarsene qualora il soggetto si
dimostri col tempo poco attivo o poco disponibile alla sottomissione.
Si instaura nei fatti un rapporto di lavoro non di tipo subbordinato, bensì
di tipo schiavizzato.
Ma, al di là dell'evidente imbarbarimento insito nel lavoro precario,
in effeti il lavor precario altro non è che una forma di flessibilità
che non si risolve nella stessa azienda con uno stesso padrone, ma si articola
su diverse aziende e con diversi padroni.
Per un lavoratore essere sottoposto a un lavoro flessibile o a un lavoro precario,
se andiamo a ben vedere, non vi è una grande diferenza: con la flessibilità
viene spostato da una postazione di lavoro ad un'altra al fine di ottimizzare
il suo sfruttamento, e con la precarietà ugualmente viene spostato
da una postazione ad un'altra per essere sfruttato al meglio.
La diferenza sembrerebbe essere nel fatto che con la flessibilità non
vi è interruzione del rapporto di lavoro, cosa che invece avviene con
la precarietà.
Le cose però non stanno in questo modo. Anche con il lavoro flessibile
vi è, spesso, interruzione del rapporto di lavoro, solo che queste
interruzioni vengono coperte con periodi più o meno lunghi di cassa
integrazione pagata dalla collettività. Se questa fosse prevista anche
per i lavoratori precari ecco che le differenze si annullerebbero quasi completamente.
Ecco perchè i padroni, i quali hanno ben compreso che il problema è
tutto lì (come pagare e chi deve pagare i precari mentre non lavorano)
insistono affinchè il governo si attivi per approvare leggi che consentano
l'estensione degli "ammortizzatori
sociali" anche a questi lavoratori.
Di fronte a queste argomentazioni non si è ancora visto un governo
(di destra o di sinistra) contestare alla radice questa logica. Di solito
mostra attenzione, annuisce e promette, e al massimo solleva il problema del
reperimento delle risorse.
Insomma, sfruttare adeguatamente i lavoratori facendoli stare zitti ha un
costo; il problema è quindi non se è giusto o sbagliato accanirsi
sui lavoratori, bensì su chi deve pagare il prezzo della pace sociale.
Noi restiamo convinti che interesse dei lavoratori è battersi non per
avere delle contropartite in cambio di una disponibilità a un più
elevato livello di sfruttamento, ma per avere condizioni di lavoro che contrastino
l'inasprisrsi dello sfruttamento.
Ed è questo che devono chiedere ai propri sindacati e partiti.
Innanzi tutto occorre comprendere che la lotta contro lo sfruttamento è
nello stesso tempo lotta alla flessibilità e alla precarietà
, perchè, come abbiamo visto non vi è una sostanziale differenza
tra i due termini.
E' giusto sostenere che debba essere riproposta la centralità del lavoro
a tempo indeterminato; ma se immediatamente dopo si sostiene (come fa il Governo
Prodi) di volere "riformare" la legge Biagi, di non volere
toccare il Pacchetto Treu, di voler riformare gli ammortizzatori sociali e,
dulcis in fundo, di voler dare più soldi, riducendo il cuneo fiscale
a loro favore (come a volerli risarcire), a quei padroni che assumono a tempo
indeterminato; in questo modo non si fa altro che fare affermazioni di principio
che non vengono seguite da atti coerenti.
Si dice in pratica di voler difendere i lavoratori ma in realtà si
guarda alle compatibilità del sistema capitalista. E noi sappiamo che
le due cose non vanno d'accordo.
Ma, visto che da questo governo (come da quelli precedenti) non c'è
molto da aspettarsi, occorre che i lavoratori mantengano sui posti di lavoro
una grande attenzione e cerchino di vedere l'evolversi delle situazioni che
portano all'introduzione subdola di elementi di flessibilità, magari
con contropartite in denaro, e porre immediatamente elementi di rigidità.
Occorre considerare i lavoratori precari uguali a qualsiasi altro lavoratore,
creadogli attorno la solidarietà di cui abbisognano al fine di rendere
stabile la loro situazione. Unire con la solidarietà i lavoratori che
il padrone divide con la flessibilità e la precarietà.
Occorre in pratica ribaltare la logica della massimizzazione dello sfruttamento
partendo dal basso con atti che sembrano poco significativi ma che in realtà
sono gli unici in grado di rendere inapplicabili le norme, e contrattuali
e legislative, operanti in materia.
Sono il silenzio, l'apatia, l'individualismo, la pratica della monetizzazione
del disagio, i "...ma sì intanto non cambia niente..." i
pilastri su cui poggia chi invece vuole far credere ai lavoratori che è
dalla loro parte, ma poi strizza l'occhio a qualcun altro.