Ancora sulla flessibilità.
Riportiamo un pezzo di una recensione di un libro scritto da Gallino sulla questione del lavoro flessibile e sulle cause che lo determinano. Il pezzo è tratto da un articolo apparso su Liberazione del 27 novembre 2007. Di Tonino Bucci. Leggi anche il nostro precedente articolo. Reds - Dicembre 2007.


Già nel 2001 Gallino aveva scritto "Il costo umano della flessibilità".
Nel frattempo molte cose sono cambiate. Innanzitutto, c'è stata la legge 30 e tutto il dibattito che ne è seguito, fra chi la vuole abolire e chi invece (ahimé, anche a sinistra) vuole mantenerla con qualche correttivo.
La novità più rilevante è che si è fatta strada la suggestione del cosiddetto modello danese. L'idea, cioè, che lo Stato possa prendere misure pubbliche per mitigare gli effetti devastanti della flessibilità sulla società senza rimuoverne tuttavia le cause. Lo stesso Gallino, qui, fa "autocritica", «mentre in quel saggio intravvedevo alcuni modi per rendere la flessibilità sostenibile, senza intervenire più che tanto sulle sue cause, reputo oggi che sia su queste che occorre porre la maggior attenzione».

Ma chi sono oggi i lavoratori flessibili?
Sono flessibili «quei lavori o meglio le occupazioni che richiedono alla persona di adattare ripetutamente l'organizzazione della propria esistenza - nell'arco della vita, dell'anno, sovente perfino del mese o della settimana - alle esigenze mutevoli della o delle organizzazioni produttive». Sono modi di lavorare o di essere occupati che impongono «un rilevante costo umano, poiché sono capaci di modificare o sconvolgere, seppure in varia misura, oltre alla condizioni della prestazione lavorativa, il mondo della vita, il complesso dell'esistenza personale e familiare».

Gallino distingue due tipi di flessibilità. La «flessibilità dell'occupazione», che consiste nella possibilità dell'impresa di occupare più o meno salariati a seconda del suo bisogno di aumentare o diminuire la produzione e della domanda di mercato. L'ideale per l'imprenditore sarebbe la completa libertà di licenziare come e quando vuole. In mancanza si accontenta di smantellare fin dove è possibile le norme di diritto del lavoro.
La sequela dei contratti atipici è impressionante: ci sono quelli a termine (da pochi mesi a due-tre anni) e a tempo parziale, poi i contratti di lavoro in affitto (una volta chiamato interinale, poi la legge 30 l'ha definito «in somministrazione») applicabili a individui o gruppi di lavoratori. Seguono i contratti di collaborazione coordinata e continuativa che hanno introdotto la stravagante formula giuridica del «lavoratore autonomo». C'è il lavoro a progetto e il contratto di lavoro ripartito, quest'ultimo applicato a due persone quando si dividono nel giorno o nella settimana un unico posto di lavoro a tempo pieno. E, poi, ancora, i contratti di lavoro intermittente e di prestazione occasionale.

Bene, si dirà, ma tutte queste forme non toccano i lavoratori a tempo indeterminato. Sbagliato, perché esiste anche la «flessibilità della prestazione», del modo di lavorare, della situazione in cui i salariati prestano la loro attività.
Gli imprenditori ricorrono a salari differenti per merito individuale o produttività di reparto, a orari diversi, al lavoro a turni, agli orari slittanti per cui capita ogni tot settimane di lavorare il sabato e la domenica, agli orari su base annuale (la media di 40 ore settimanali calcolata sull'intero anno, per cui può capitare di lavorare sette giorni su sette in certi mesi e restare a casa in altri). E poi gli straordinari, la rotazione di mansioni, i trasferimenti.

Ma non dimentichiamo l'economia sommersa, quella al nero, dove non esistono contratti, ferie, malattia, assistenza sanitaria, contributi. Milioni di persone completamente prive di diritti con una subordinazione feudale al proprio datore di lavoro che può sbatterti in mezzo alla strada da un momento all'altro.
Tra un conto e l'altro Gallino calcola che in Italia i lavoratori flessibili, con contratto o al nero, sono 10-11 milioni - ma le statistiche, avverte, sono sempre frutto di una costruzione.

Ma perché le imprese chiedono flessibilità?
Perché l'impresa è cambiata, spiega Gallino, è diventata globale, l'anello di una catena di produzione del valore. Risulta «dipendente sia a monte che a valle, ed entro tempi brevissimi, dai comportamenti delle altre imprese della stessa catena in tema di commesse, appalti, ordinativi, forniture, consegne e prezzi». Si produce solo su domanda, questa è la filosofia aziendale. Soltanto quando un cliente prenota un'auto di quel modello, con quel colore, con quel numero di sportelli e di optional, solo allora partono gli ordini ai fornitori, agli stabilimenti di lavorazione e assemblaggio. Sennò, non si produce un bel niente.
E' quello che si chiama just in time , un principio di organizzazione inventato dagli americani ma applicato con successo dai giapponesi, tant'è che si parla di toyotismo.
Significa che gli stoccaggi e i magazzini vanno limitati drasticamente e che nessuna materia prima, nessun semilavorato deve arrivare sul luogo fisico in cui deve essere lavorato e montato se non nel preciso istante in cui serve.
Questa è la summa del capitalismo e gli imprenditori hanno pensato bene di applicare questo paio di principi anche al lavoro.
Si sono chiesti, perché non occupiamo forza lavoro solo quando per noi produce valore? Perché non fare in modo che le persone eroghino lavoro solo quando registriamo la domanda del mercato per un certo bene o servizio? E così nacque il lavoratore flessibile. Una strategia che consiste nel mettere «in competizione tra loro, deliberatamente, il mezzo miliardo di lavoratori del mondo che hanno goduto per alcuni decenni di buoni salari e condizioni di lavoro, con un miliardo e mezzo di nuovi salariati che lavorano in condizioni orrende con salari miserandi.
La richiesta di accrescere i lavori flessibili è un aspetto di tale competizione».

Se la politica ha ancora senso dovrà fare in modo che queste due parti della popolazione mondiale - una classe di salariati che fa impallidire il proletariato della prima rivoluzione industriale - si incontrino al livello più alto di salari e diritti piuttosto che verso il basso. Sennò l'esito sarebbe lo smantellamento delle protezioni legali dell'occupazione. Allora sì che la flessibilità avrebbe vinto.