Ascesa e caduta di Sergio Cofferati, impiegato Pirelli.
Con la candidatura a sindaco di Bologna, Sergio Cofferati ha posto fine al suo tentativo di ricostruire una socialdemocrazia "classica". Lascia molti orfani, che non comprendono il suo comportamento. Qui tentiamo una interpretazione dell'eclissi del cofferatismo, dopo averne a suo tempo scritto dell'ascesa ("L'ombra del Cinese"). Di Michele Corsi. Luglio 2003.



Cofferati si presenterà candidato sindaco per l'Ulivo a Bologna. E lungo la via Emilia lascia una quantità soprendente di orfani. Gli orfani si domandano perché all'improvviso il Cinese li abbia abbandonati: la sua discesa nel campo della politica conteneva la promessa implicita del rilancio di una sinistra politica che facesse il suo mestiere, una sfida alla calcolata strategia di D'Alema e soci di distruggere ogni legame, anche vago, tra sinistra e interessi della classe lavoratrice. Candidarsi come sindaco ha il chiaro significato di gettare la spugna rispetto all'ambizione di "ricostruire" la sinistra in Italia, un compito che davvero molta gente ha ritenuto possibile. E ora questa gente si domanda: perché ha mollato? Perché non ne ha discusso con i movimenti? Perché ha rifiutato a suo tempo il posto di senatore o quello di presidente Ds che gli erano stati offerti? Se voleva concorrere come sindaco non era meglio presentarsi a Milano dove la destra è più forte?

Cofferati, l'ascesa

La stella di Cofferati ha brillato sino ad aprile, poi, bruscamente, s'è eclissata. A gennaio raggiungeva il suo massimo fulgore: a Firenze, di fronte a un pubblico in delirio veniva "incoronato" (così si espressero i media) leader del "popolo di sinistra", da Nanni Moretti. Successivamente ha sfidato a più riprese il gruppo dirigente DS, impedendo nei fatti che si costituissse un Ulivo sotto direzione Fassino/Rutelli. Ad aprile diveniva copresidente di Aprile, la frazione cofferatiana/berlingueriana nei DS: Fassino tentava di bloccarlo quasi minacciando una espulsione, ma presto era costretto a ritirarsi e a correggere. Intanto mentre la guerra all'Iraq incombeva, Cofferati guidava il fronte del "contro la guerra senza se e senza ma", si schierava cioé contro l'intervento USA anche in caso di beneplacido ONU. Questa era la posizione che distingueva il movimento e Cofferati dalla direzione dalemiana-fassiniana, possibilista in caso di mandato internazionale.

Sino a quel momento la strategia di Cofferati (e del gruppo dirigente della Cgil per conto del quale era sceso nell'arena politica) aveva raggiunto non pochi traguardi. Oltre alla Cgil, interi pezzi di movimento stavano dalla sua parte, e poi i girotondi, la minoranza DS, Manifesto ed Unità. Anche il PCdI e i Verdi mostravano in sostanza di accettare la leadership del Cinese. Il gruppo dirigente della Fiom e di Lavoro e Società fondavano addirittura a gennaio un movimento politico nella speranza di costituire l'ala sinistra del futuro raggruppamento politico cofferatiano e poter così negoziare con lui uomini e spazi. Tutto ciò sino ad aprile, poi in rapida successione ecco l'appoggio di Cofferati all'invio dei carabinieri in Iraq (fine aprile), l'appello per l'astensione sul referendum dell'art.18 (inizio maggio), e infine la candidatura a sindaco di Bologna (giugno). Una serie di "colpi" che hanno lasciato prima increduli, poi delusi, e quindi orfani centinaia di migliaia di persone. Una delusione tale che renderà impossibile da parte sua, anche se lo volesse, ricostruire il patrimonio che aveva messo in piedi.

Cosa è successo tra aprile e maggio?

Cofferati, la caduta

Due cose: la rapida vittoria USA nella guerra contro l'Iraq e la questione del referendum del Prc, in una congiuntura in cui si avvicinavano le elezioni amministrative.

Come dicevamo a suo tempo (L'ombra del Cinese) la debolezza intrinseca del cofferatismo era l'assenza di una gamba organizzativa che permettesse di battere il gruppo maggioritario dei DS. Gli sforzi di questi ultimi due anni da parte di Cofferati sia come segretario della CGIL che come "impiegato della Pirelli" andavano proprio in questa direzione: gettare le basi di massa per la ricostruzione di una socialdemocrazia "classica". Al gruppo dirigente diessino veniva a giusto titolo addossata la responsabilità della sconfitta nelle elezioni del 2001, ma ancor di più l'incapacità e forse la non volontà di costituirsi in sponda politica di appoggio alla Cgil di fronte all'attacco di Berlusconi. Emblematica la vicenda dell'art.18, nel corso della quale i dirigenti diessini hanno esitato sino all'ultimo nel sostenerne la lotta. Ma i passaggi per arrivare a sconfiggere la direzione moderata dei DS, quelli sì erano per Cofferati di difficile individuazione. Che doveva fare? Fondare un nuovo partito? Spaccare i DS? Sperare in un congresso anticipato? Scrivevamo: "Attraverso quali passaggi Cofferati vuol giungere a questo obiettivo? E qui in effetti per Cofferati cominciano i dolori. Finchè lui resta dentro i DS, questo partito, dominato dai dalemiani, per paradossale che possa sembrare, è destinato a raccogliere il frutto del clima di radicalizzazione sociale, come dimostrano le ultime elezioni amministrative. Del resto il controllo delle liste ce l'ha l'apparato DS che quindi è in grado di 'segare' eventuali ambizioni cofferatiane di costruirsi una presenza nelle istituzioni locali. Lo stesso dicasi per le elezioni europee. E Cofferati non può ora uscire dai DS beccandosi l'accusa di dividere il fronte antiberlusconi: egli è in missione speciale per conto della CGIL e alla CGIL non serve un partitino del 5% che non sia in grado di condizionare l'intero Ulivo."

Cofferati sperava che la guerra avrebbe diviso, in maniera chiara di fronte alle larghe masse, il gruppo maggioritario dei DS dai suoi sostenitori. Non era certo una aspettativa campata per aria. Se l'ONU avesse dato il via libera alla guerra e D'Alema l'avesse per questo sostenuta, si sarebbe creata una spaccatura fortissima tra DS e popolo di sinistra, attraverso la quale Cofferati avrebbe potuto agire. Erano in pochi a immaginare che la Francia avrebbe resistito fino al limite di impedire un pronunciamento ONU. Questa tenuta però ha permesso a D'Alema e Rutelli di evitare lacerazioni col proprio elettorato: non hanno mai spiegato cosa avrebbero fatto, loro, se fossero stati al posto della Francia, o semplicemente a capo dell'Italia, si sono potuti permettere di aspettare gli eventi, aiutati dall'estremismo di Bush e dalla volontà di contenimento della Francia. Così si sono evitati l'accusa che li terrorizza di più (e che, senza la "resistenza" della Francia li avrebbe spinti senz'altro ad appoggiare "criticamente" Bush): quella di non essere "maturi" e "affidabili" per il governo. Il loro no alla guerra non è apparso estremista perché l'alfiere di quel no, era un leader di destra: Chirac, e in nome dell'Europa, mito della nostra borghesia illuminata.

Dunque a livello di massa (stiamo parlando di massa, non dei militanti) l'Ulivo ha potuto beneficiare senza merito alcuno dell'ondata pacifista, e allo stesso tempo ha evitato di perdere il "patrimonio di credibilità" che si è guadagnato presso la nostra borghesia. Nella prima settimana di guerra, quando pareva che ci fosse una certa resistenza irachena, Cofferati ha tentato un disperato, ultimo tentativo di differenziazione dal gruppo maggioritario DS attaccando chi auspicava una "guerra breve". Poi la guerra è stata brevissima, la vittoria USA schiacciante. Ciò ha provocato la dispersione immediata del movimento contro la guerra ed ha privato Cofferati di qualsiasi argomentazione antidalemiana. Al contrario, con le sue dichiarazioni che potevano essere lette come favorevoli alla resistenza armata contro gli "alleati", s'è trovato pericolosamente esposto a sinistra, dato che nemmeno il PRC aveva osato tanto. Ha così dato mandato alla sinistra parlamentare DS di "recuperare" e di votare a favore dell'invio dei carabinieri. Senza un movimento all'offensiva e oggettivamente in polemica con il dalemismo, Cofferati non aveva più alcuna base di massa su cui contare per mettere il gruppo dirigente DS sulla difensiva, se non la CGIL. Ma qui interviene la questione del referendum.

Come dicevamo ne L'ombra del Cinese "l'apparato della CGIL ha 'mandato fuori' Cofferati, in un terreno estraneo, in missione speciale: creare una sponda politica, condizionare il quadro politico, sfidare D'Alema sul suo stesso piano. Per questo le ricostruzioni e le illazioni tentate dai giornali sono ridicole. Non c'è da stupirsi per il fatto che il "riformista" Cofferati sia diventato 'estremista': egli sta lottando per la sopravvivenza dell'apparato CGIL. E' bizzarro pensare che Epifani prenderà le distanze da Cofferati: è proprio Epifani, in quanto segretario CGIL, ad avere interesse che Cofferati porti a termine e con successo la sua missione speciale. La CGIL deve, per sopravvivere, fare in modo che ci sia qualcuno che combatta in un campo di battaglia che non è il suo: quello della politica, e dunque ha mandato un suo generale a radunare le truppe disperse dalla direzione dalemiana."

La CGIL e Cofferati hanno rimandato il più possibile la scelta sul referendum per l'estensione dell'art.18. La ragione è ovvia: non volevano che il referendum vincesse. Rimandando sino all'ultimo contribuivano a tenere il referendum fuori dal dibattito pubblico ed evitavano, come è avvenuto, di organizzare una campagna vera. Quando la scelta si è resa inevitabile le due strade si sono consensualmente divise: Cofferati ha scelto l'astensione, Epifani il sì. Su questa divaricazione si è molto fantasticato, come al solito tirando in ballo interpretazioni personalistiche ("Epifani vuole emanciparsi da Cofferati"). La divaricazione ha una spiegazione complessa che affonda le sue radici nella materialità della fase politica che stiamo attraversando.

Avevamo già scritto che Berlusconi è stato sostenuto nella sua ascesa dalla borghesia, anche per regolare i conti con la CGIL. La burocrazia della CGIL dunque non ha avuto altra scelta se non difendersi. Ma l'autodifesa della burocrazia sotto la direzione di Cofferati ha innescato un processo di radicalizzazione sociale che non può essere fermato a comando. Cofferati può anche frenare e sterzare quando vuole, i processi sociali no. Hanno una propria logica, e sono dotati, tra le altre cose, di forza inerziale. Nei settori sindacalizzati della classe lavoratrice e nella stessa burocrazia CGIL si è prodotto uno scarto a sinistra che non può essere fatto rientrare, anche se Epifani lo volesse, per la semplice ragione che non è sparita la causa che l'ha prodotto: l'esistenza del governo Berlusconi e la sua volontà (insieme a Confindustria) di assestare un colpo mortale alla CGIL. Questa dinamica dunque non è coordinabile con i calcoli tutti politici di Cofferati. La divaricazione è quella tra una radicalizzazione sociale che il sindacato in quanto movimento subisce e che è costretto a volte a stimolare e a volte a cavalcare, e il piano della politica, ancora immaturo, confuso e privo di strutture forti e/o sufficientemente flessibili da farsi canali di rappresentanza di questa radicalizzazione. E' proprio sul piano strettamente politico che Cofferati non poteva permettersi, visti i suoi progetti (costruire una socialdemocrazia), di rafforzare ... i comunisti. Schierarsi per il sì, avrebbe significato per lui fare da gregario ad una battaglia costruita tutta, in buona sostanza, dal PRC. Se poi si fosse pure vinto, il PRC, come partito, avrebbe dimostrato di saper costruire uno schieramento in grado di battere Berlusconi. Il cofferatismo non è certo nato per questo, e così, alla fine, Cofferati è stato, tra i membri DS, quello che più si è esposto contro il referendum, più dello stesso D'Alema, mentre vari furbacchioni come Bassolino e Veltroni, andavano a votare per posizionarsi in in vista di futuri accordi con il PRC. Prendere posizioni moderate, sia sul 18 che sulla guerra, a Cofferati non è costato nulla: liberato dall'immane compito di ricostruire una socialdemocrazia, è potuto tornare alla sua normale natura di socialdemocratico di destra, quale è sempre stato.

Dunque, tramontata la prospettiva di una rottura dei DS, rifluito il movimento contro la guerra, con la prospettiva di elezioni amministrative che avrebbero favorito i DS, e la possiblità che del clima di radicalizzazione potesse avvantaggiarsene Bertinotti, Cofferati ha mollato tutto, e tutto in un colpo. Ha considerato le carte che aveva in mano, e non è andato "a vedere". Si è dichiarato sconfitto. Dato che lui era entrato in politica su mandato della burocrazia della CGIL per assicurare al sindacato una sponda politica, la sua ritirata concordata con Epifani, costituisce anche la sconfitta dell'intero gruppo dirigente della CGIL: esso è ora senza referente politico, e dovrà contare su Fassino (dicono ora di lui sperando di addolcirlo "Fassino è una persona seria") perché questi "tenga conto" anche della CGIL nei mercanteggiamenti della politica. Non ne abbiamo le prove ma siamo pronti anche a scommettere che il gruppo dirigente CGIL, e lo stesso Cofferati, lavoreranno anche per disarticolare il correntone mandando a quel paese sia Aprile che la Fondazione Di Vittorio. Dato il fallimento della loro incursione, solo tornando nei ranghi possono sperare che Fassino in qualche modo li garantisca.

Domande con risposte e domande senza risposte

Se la nostra interpretazione è giusta, qualcuno ci domanderà: perché Cofferati non ha a suo tempo accettato il ruolo di presidente DS dato era un posto più influente di quello di sindaco di Bologna? Risposta: perché quando gli hanno offerto quello spazio lui era forte e i dalemiani deboli, gli Usa non avevano vinto, il referendum non c'era ancora, e dunque le ambizioni di Cofferati erano, a giusto titolo, più grandi: non aveva alcuna intenzione di cogestire i DS, ma di togliere di mezzo i dalemiani. Oggi i dalemiani ovviamente non hanno alcun interesse a regalare la presidenza a un Cofferati così indebolito. "Perché Cofferati ha scelto Bologna e non Milano, dove la destra è più forte?" Perché a Milano sapeva che aveva alte possibilità di perdere, e dopo essere stato sconfitto nelle sue più alte ambizioni non aveva alcuna voglia di perdere anche in quelle piccoline. "Perché ha agito all'improvviso senza chiedere niente a nessuno?" Perché dei movimenti Cofferati, come qualsiasi socialdemocratico (ma l'abitudine non è solo loro), ha fatto e sempre farà un uso strumentale. Cofferati è stato un altissimo burocrate sindacale che ha firmato contratti raccapriccianti, e ha svenduto a suo tempo a Dini la lotta per le pensioni fatta contro Berlusconi, figuriamoci che scrupoli ha ad abbandonare al suo destino qualche girotondino piangente. Ultima obiezione: "con il seguito che aveva poteva comunque tentare un'avventura politica, se l'ha fatto Di Pietro!" Ma in quel caso avrebbe dovuto ricominciare con un partito del 5%. Un 5% per una mentalità da comunisti non è niente male, per iniziare. Ma nell'ottica di un socialdemocratico che vuole goverare, e dunque ha l'occhio fisso sul 50% più uno, è una specie di insulto.

Non sappiamo oggi, è evidente, quello che ha in testa Cofferati. Immaginiamo che lui e il gruppo dirigente CGIL si siano dati appuntamento un po' più in là nel tempo. Cofferati ha toccato con mano come la forza dei DS risieda sostanzialmente in Toscana ed Emilia Romagna, le due regioni dove si sono concentrati i suoi viaggi da impiegato della Pirelli. Il dalemismo ha lì la sua base sociale. Probabile che punti a seguire la strada di Veltroni e Bassolino che da amministratori si sono costruiti una solida base locale nel partito. Ma questi disegni ormai ci interessano poco: Cofferati non è più l'agente speciale inviato dalla burocrazia CGIL sul terreno della politica, non è più, cioé, espressione sociale di qualcosa. Al massimo si trasformerà in un altro Bassolino, che pure, a suo tempo, aveva cercato di condizionare a sinistra il gruppo dirigente DS (allora dominato da Occhetto). Qualsiasi cosa decidesse di fare in futuro, il patrimonio raccolto da Cofferati è scompaginato e non potrà più essere lui a rimetterne insieme i cocci. E in ogni caso per un anno e oltre sarà completamente neutralizzato: per vincere a Bologna dovrà accordarsi con i boiardi delle coop di stretta fede dalemiana, con la Margherita, e con ogni sorta di "potere forte". No, il capopolo non potrà più farlo. Del resto a noi, contrariamente a quel che pensano gli orfani, è sempre sembrato che per quella parte Cofferati non fosse proprio tagliato.

La caduta di Cofferati apre un vuoto pauroso di rappresentanza politica. Nonostante la secca sconfitta nelle elezioni politiche del 2001, passata la bufera dei movimenti, del cofferatismo e dei girotondi, i vecchi gruppi dirigenti del centrosinistra sono ancora lì in piedi senza che abbiano pagato alcun prezzo per la sconfitta del 2001. Ci sembra di sentire il ghigno soddisfatto di D'Alema. Non c'è dubbio: la sua partita contro Cofferati l'ha vinta. Quelle contro la sinistra le vince sempre, sono quelle contro la destra che, chissà perché, gli vengono male. La politica però non tollera i vuoti: oggi c'è uno dei più grandi sindacati d'Europa che non ha rappresentanza politica, nonostante le illusioni su Fassino del suo gruppo dirigente, ci sono movimenti (girotondi, noglobal, pacifisti) che non si riconoscono nella sinistra realmente esistente. E c'è un governo che è minoranza del Paese ma non rinuncerà per questo ai suoi attacchi mortali. No, i giochi non sono fatti, anche se un giocatore s'è alzato dal tavolo.