Nel corso degli anni 90 l'Italia ha realizzato, assieme al Regno Unito, i più elevati proventi da privatizzazione tra i paesi OCSE. L'Italia, assieme al Regno Unito, è anche l'unico paese OCSE in cui la quota del reddito nazionale destinata al lavoro dipendente è scesa a livelli antecedenti al 1970.
Dati estratti da rapporti Ocse e Cnel
Per tutto il corso degli anni 90 il dibattito politico italiano si è sviluppato, pur con alti e bassi, attorno ad una serie di parole d'ordine di chiara ispirazione liberista. Per lungo tempo gli slogan della "finanza sana", della rimozione dei "lacci" che impediscono lo sviluppo imprenditoriale, del conflitto tra "padri spendaccioni e figli diseredati", della condanna dello "Stato assistenziale" hanno dominato la scena politica pressoché indisturbati, mostrando una forza dialettica e una capacità di incidenza sull'azione di governo di gran lunga superiori a quelle delle visioni antagoniste. Ma, al di là degli apologetici proclami dei sostenitori del libero mercato, quale è stato il reale impatto delle politiche di stampo neoliberista sul tessuto sociale ed economico dell'Italia? Le elezioni del 2001 costituiscono un'ottima occasione per trarre un bilancio del decennio trascorso. I risultati, come vedremo, non lasciano scampo ai proclami dell'ideologia dominante, rendendo palese la necessità di individuare nuovi modelli di riferimento per la politica economica e sociale, italiana ed europea.
2.1 Ideologia e politica neoliberista in tema di lavoro e occupazione
Sull'occupazione e il lavoro circolano in Italia alcuni "luoghi comuni", ampiamente diffusi dai mezzi di comunicazione di massa e autorevolmente avallati da studiosi ed esponenti del governo, a partire dal presidente del consiglio. Ne indichiamo due, particolarmente significativi. Il primo è quello secondo cui il lavoro dipendente sarebbe in declino, e la classe operaia tenderebbe a scomparire: l'idea è che in futuro saremo quasi tutti lavoratori autonomi o in camice bianco. Il secondo mette in rilievo il fatto che l'occupazione ha ripreso ad aumentare: il fatto che i posti di lavoro creati siano prevalentemente precari non viene visto come un limite, ma come una inevitabile risposta all'imperativo della flessibilità imposto dalla globalizzazione. E' finita l'epoca del "posto fisso", si dice, e il lavoratore è sempre più "imprenditore di sé stesso", cioè deve vedere di volta in volta "come piazzare la sua forza-lavoro sul mercato".
Basta uno sguardo alla realtà, a partire dalle stesse statistiche ufficiali, per smentire questo quadro idilliaco. Anzitutto, non è vero che il lavoro autonomo cresce: negli ultimi dieci anni, esso risulta lievemente diminuito, mentre quello dipendente è lievemente aumentato. Ma soprattutto, all'interno del lavoro autonomo diminuiscono le figure tradizionali (come i piccoli commercianti) ed aumentano le forme di lavoro autonomo che in realtà rappresentano nuove forme di lavoro dipendente: i cosiddetti "para-subordinati" (ad es. i collaboratori coordinati e continuativi) o i soci-lavoratori di cooperative.
L'incidenza dell'occupazione industriale diminuisce, ma in parte ciò è dovuto al fatto che una serie di funzioni (amministrative, di progettazione, ecc.), che prima venivano svolte all'interno delle aziende industriali, oggi vengono "date fuori": e chi ci lavora viene registrato oggi come addetto al terziario, mentre prima veniva registrato come addetto all'industria. Inoltre, se nell'industria l'automazione riduce i posti di lavoro operai e ne trasforma in parte il contenuto, nel terziario invece i lavori operai crescono.
La disoccupazione resta elevata, ma soprattutto inegualmente distribuita: a fronte di situazioni di quasi piena occupazione in alcune regioni del Nord, restano i drammatici dati sulla disoccupazione nel Mezzogiorno, dove più della metà dei giovani non trova lavoro.
Tutto ciò non significa che siamo in una situazione di stagnazione o di sottosviluppo e di povertà generalizzata (ad es. molti "disoccupati" lavorano in realtà a nero). Il punto di fondo è la crescita dell'area di precarietà e insicurezza, elementi che permeano ormai gran parte dell'occupazione:
Conseguenza di tutto ciò è che, minacciati da una condizione professionale perennemente incerta, i lavoratori hanno progressivamente perso il controllo sui tempi e le modalità di lavoro, come si evince dal grande incremento delle ore di lavoro pro-capite e dalla diffusione dei turni flessibili.
Questi dati, che emergono dalle statistiche come dalle notizie che possiamo leggere ogni giorno, costituiscono solo un punto di partenza per valutare la situazione del lavoro in Italia. Bisogna infatti vedere come i lavoratori e le lavoratrici vivono questa situazione e quali risposte chiedono ai loro problemi. Di qui la necessità di un lavoro di inchiesta, e la scelta del nostro partito di farne una dimensione permanente del proprio impegno politico.
Dall'inchiesta emergono ulteriori smentite ai "luoghi comuni" dell'ideologia dominante. Da essa, ad esempio, emerge ben altro che il sentirsi "imprenditori di sé stessi". Piuttosto, è sempre più diffusa l'esigenza di stabilità e sicurezza. Esigenza che sarebbe riduttivo vedere come una pura "nostalgia del posto fisso", del rimanere tutta una vita presso la stessa azienda. Essa esprime qualcosa di più ampio e profondo: è l'esigenza di un sistema di diritti e di tutele da cui una parte crescente dei lavoratori è esclusa. Facciamo alcuni esempi:
In sostanza, possiamo riassumere le tendenze del decennio trascorso nei seguenti punti: cresce il lavoro dipendente reale (al di là delle diverse etichette con cui è denominato), crescono al tempo stesso le disuguaglianze al suo interno e si riduce l'area di lavoro tutelata dalle norme legislative e dalla contrattazione.
La disfatta liberista nel referendum sulla libertà di licenziamento del maggio 2000 ha fortunatamente costituito un primo argine all'onda d'urto dell'ideologia dominante. Si è trattato, in un certo senso, della logica reazione dei cittadini all'ormai palese ed insostenibile divario tra l'Eden evocato dai sostenitori della flessibilità e gli effetti reali delle politiche liberiste. E' cioè divenuto chiaro che le politiche del lavoro praticate negli anni 90 avevano ben poco da spartire con l'abbattimento della disoccupazione, riflettendo piuttosto la capacità del mondo imprenditoriale di esigere ed ottenere dalla politica un totale stravolgimento della disciplina dei rapporti di lavoro, uno stravolgimento nel segno della flessibilità sul quale le rigide imprese italiane hanno fondato gli straordinari recuperi di redditività degli ultimi anni.
2.2 Ideologia e politica neoliberista in tema di risanamento finanziario, privatizzazioni, welfare e previdenza
I danni provocati dal successo del paradigma neoliberista e delle relative politiche non si esauriscono naturalmente nell'ambito del lavoro e dell'occupazione. Essi investono in modo pervasivo tutti i settori della vita economica e sociale, come dimostrano i dati seguenti.
In tema di risanamento finanziario l'Italia ha conseguito un vero e proprio primato europeo, testimoniato dallo straordinario incremento dell'avanzo primario, ovvero della differenza tra entrate fiscali e spesa pubblica al netto degli interessi, passata dal 1,6% del 1990 al +5,2% del 2000, con un picco del +6,7% nel 1997. Una simile, gravosa correzione dei conti pubblici ha permesso, come è noto, l'ingresso immediato dell'Italia nell'Unione monetaria europea, dando luogo inoltre alla svolta verso il basso del rapporto tra debito pubblico e Pil, il cui declino è andato consolidandosi nella seconda metà degli anni 90. D'altro canto, il sentiero intrapreso ha implicato tagli alla spesa per investimenti pubblici e consumi collettivi, e un più generale calo della domanda aggregata, con evidenti ripercussioni sull'occupazione e sul tenore di vita delle fasce più deboli della popolazione. Inoltre, sotto il vincolo delle restrizioni di bilancio i governi si sono imbarcati in politiche di tassazione solo formalmente "neutrali", rivelatesi di fatto sempre più inique man mano che la fase dell'emergenza si allontanava.
Questi e molti altri elementi rappresentano efficacemente l'altra faccia, solitamente nascosta, dei virtuosi anni 90. Ma l'aspetto più inquietante del risanamento è che questo sembra non avere mai fine. Dopo il faticoso ingresso nell'Unione monetaria si pensava che il rigore finanziario avrebbe finalmente lasciato spazio alle politiche di piena occupazione, alla creazione di infrastrutture, alla ricerca, all'istruzione, al recupero dell'ambiente e delle aree depresse. Nulla di tutto ciò è avvenuto. La sottoscrizione nel 1997 del Patto di stabilità europeo e il relativo impegno degli stati membri al raggiungimento del pareggio di bilancio hanno cristallizzato e reso ancor più stringenti i vincoli di finanza pubblica. Eppure, laddove all'inizio degli anni 90 simili restrizioni potevano avere un senso (soprattutto quello della necessità, per l'Italia, di stabilizzare il rapporto tra debito e Pil), oggi esse non trovano più giustificazioni, se non quella esclusivamente politica di voler ridurre il bilancio pubblico e il relativo intervento dello Stato alla massima velocità, e ad ogni costo.
Proseguire in Italia e in Europa lungo questa direzione, assecondando una pericolosa miscela di interessi, irrazionalità economica e miopia politica, potrebbe alla fine costar caro, per ragioni sia macroeconomiche che strutturali. Infatti, a fronte del sempre più probabile rallentamento della locomotiva americana, e in assenza di una svolta radicale della politica economica continentale verso l'obiettivo dichiarato della piena occupazione, i segnali di recessione potrebbero diffondersi a livello globale. Più in generale, poi, un indiscriminato, persistente ridimensionamento dell'intervento statale potrebbe aggravare l'attuale carenza di beni pubblici, di tipo infrastrutturale, tecnologico e soprattutto ambientale, la cui drammatica scarsità è evidenziata dai disastri ecologici che affliggono ormai periodicamente l'Europa e in particolare l'Italia.
Un altro primato italiano di ispirazione liberista è stato raggiunto nel campo delle privatizzazioni. Tra il 1990 e il 1998, lo Stato italiano ha ricavato dalla vendita del patrimonio pubblico quasi 64 miliardi di dollari, situandosi al primo posto tra i paesi OCSE in compagnia del Regno Unito. Ma questo programma di dismissioni non ha certo dato i frutti decantati dai fautori dello "Stato leggero". Le vendite hanno infatti principalmente riguardato società che già prima delle privatizzazioni generavano ampi utili, mentre le aziende in perdita sono rimaste di proprietà pubblica. Il passaggio ai privati, poi, non ha provocato gli attesi incrementi di efficienza e di produttività: la crescita dei profitti aziendali si è infatti verificata in seguito ad un aumento del divario tra ricavi e costi unitari generato il più delle volte dalla stagnazione salariale e da condizioni di mercato tutt'altro che concorrenziali: basti in tal senso osservare l'andamento dei prezzi che, contrariamente alle attese, si è spesso e volentieri orientato verso l'alto. Quanto agli incassi del Tesoro derivanti dalle privatizzazioni, non si può certo dire che il loro impatto sia stato rilevante ai fini del risanamento: un contributo del solo 5% alla riduzione del rapporto tra debito e Pil dimostra l'assoluta inconsistenza dell'obiettivo di "fare cassa" tramite le dismissioni.
Insomma, lavoratori, consumatori e contribuenti non hanno tratto alcun vantaggio dalla poderosa vendita del patrimonio pubblico italiano. Allo stato, possono ritenersi soddisfatti soltanto i primi acquirenti dei titoli messi in vendita, i quali hanno in generale goduto della crescita dei valori azionari rispetto ai prezzi di emissione. In compenso, il paese subisce oggi la totale assenza di una politica di programmazione dello sviluppo. Lo Stato senza proprietà, prodotto dalla tenace politica di dismissioni degli ultimi anni, risulta infatti fortemente vincolato nella capacità di orientare le dinamiche del tessuto industriale del paese. E la ragione è semplice: l'impresa privatizzata è mossa esclusivamente dalla ricerca del profitto, laddove l'impresa pubblica o a partecipazione statale può essere chiamata a perseguire delle combinazioni di obiettivi, non necessariamente o non immediatamente profittevoli: si pensi alla localizzazione in aree depresse, alla fornitura di servizi di pubblica utilità in condizioni di scarsa economicità, all'opportunità di intraprendere costosi piani di riconversione produttiva per fini di tutela ambientale, e soprattutto alla necessità di difendere e promuovere la presenza nazionale nei settori ad elevato valore aggiunto.
La letteratura specialistica ha ormai chiaramente evidenziato i danni derivanti da un sistema produttivo governato in via esclusiva dal movente dei profitti, e ha inoltre individuato le ragioni per le quali la proprietà pubblica risulta in molte circostanze assolutamente necessaria per garantire il conseguimento di determinati obiettivi, sia equitativi che di sviluppo. A conti fatti, la scelta italiana di preferire il radicalismo liberista britannico al mantenimento delle proprietà pubbliche deciso da Germania e Francia sta già rivelando il suo aspetto degenere, smentendo su tutti i fronti lo scomposto ottimismo dei primi anni 90.
Ovviamente, non sarà facile imprimere una svolta nell'orientamento che ha dominato negli ultimi anni: gli ostacoli sono molti, di natura tecnica, politica e culturale. Tuttavia, passata l'ubriacatura delle privatizzazioni, sussisteranno le condizioni per rilanciare proposte per una radicale alternativa agli indirizzi di politica industriale degli anni 90.
Sul versante dello Stato sociale, nel corso degli ultimi anni è stata avviata una vera e propria rivoluzione conservatrice, non semplicemente finalizzata a tagliare le spese, ma espressamente mirata a demolire il vecchio sistema universalistico, per sostituirlo con un mercato privato dei servizi. L'assoluta inadeguatezza dei servizi sociali italiani rispetto al resto d'Europa, particolarmente avvertita da bambini, anziani, disabili, verrebbe affrontata attraverso lo sviluppo incentivato di un sistema di imprese private, il cui obiettivo, stando a un recente Dpef del governo, "non è quello di garantire a tutti un certo servizio ma di sostenere la domanda di quanti effettivamente ne avvertono il bisogno e sono disposti a dedicarvi una parte delle proprie risorse". Questa linea, già sperimentata presso gli enti locali governati dal centrodestra, trova ulteriore sostegno negli esponenti del governo che affermano che la spesa sanitaria in Italia andrà in futuro ridimensionata. In un simile scenario, è ovviamente superfluo chiedersi cosa ne sarà di coloro che avvertono bisogni di assistenza sociale e sanitaria ma non dispongono di risorse sufficienti per pagarsela. Come testimoniano le esperienze di numerosi paesi, intraprendere la strada del "mercato" significherebbe danneggiare i più deboli, consentendo così che la forbice distributiva operi anche sul terreno dei servizi sociali.
Anche sul fronte della previdenza, l'ideologia dominante ha avuto un impatto notevole sulla politica economica italiana: l'allarmismo sulla spesa insostenibile e sul conflitto tra generazioni (teso a nascondere la vera posta in gioco, che consiste nella privatizzazione della gestione del risparmio), ha dato luogo a fortissime restrizioni, al punto che dopo la riforma Dini del 1995 e prima ancora delle ulteriori restrizioni del 1997, il nostro paese faceva registrare la crescita più lenta della spesa pensionistica tra i paesi europei. Un risultato, questo, scaturito da un durissimo cambiamento di regime previdenziale, che porterà in pochi anni all'abolizione della pensione d'anzianità e che secondo l'Inps provocherà a regime un impoverimento delle pensioni superiore al 35%.
Nonostante i colpi di scure già inferti al sistema, i liberisti lamentano tuttora un eccesso di spesa previdenziale rispetto agli altri paesi, ma è un dato di fatto che tale apparente "anomalia italiana" non fa che compensare la latitanza dello Stato sul più generale terreno della spesa sociale. Le pensioni italiane, insomma, compensano da sempre e in malo modo le carenze strutturali del nostro sistema assistenziale. Il basso livello totale della spesa sociale, già ricordato in precedenza, è reso del resto evidente dal fatto che, come rilevato dall'Istat, le pensioni costituiscono un'irrinunciabile ancora di salvataggio per milioni di italiani prossimi alle soglie di povertà. Ulteriori decurtazioni, oltre che eticamente inammissibili, potrebbero addirittura comprimere la crescita del Pil al punto da generare effetti contrari alle intenzioni. Quanto all'agitata panacea derivante dall'adozione dei fondi pensione e dei sistemi a capitalizzazione, l'unica evidenza disponibile verte sugli ingenti costi della transizione e sulla demolizione della solidarietà categoriale e generazionale che tale cambiamento porta con sé.
Non a caso, è proprio lo slogan liberista del conflitto generazionale a costituire una delle barriere più rilevanti al dialogo tra gli esponenti della sinistra e i giovani. Il punto è che troppo spesso si confondono casi specifici di spreco e privilegio nelle modalità di assegnazione dei benefici previdenziali con lo stato generale del sistema pensionistico. La verità è che la bandiera dello scontro tra generazioni rappresenta un altro, sofisticato espediente per occultare lo scontro tra le classi sociali. A tal fine si concentra l'attenzione sul solo rapporto crescente tra pensionati ed attivi, mentre si trascura il fatto che gran parte dei problemi deriva dalla scarsità di attivi causata dalla disoccupazione, nonché dai bassi livelli delle retribuzioni lorde (che vengono poi ripartite tra salari e contributi previdenziali). A tal proposito va rilevato che se nel corso dell'ultimo decennio gli aumenti di produttività fossero andati più a beneficio delle retribuzioni lorde e meno ai profitti, lo stato del sistema pensionistico risulterebbe oggi di gran lunga migliore.
I problemi reali sul fronte previdenziale riguardano invece, come era prevedibile, il crescente numero di lavoratori saltuari. Questi ultimi, data l'attuale normativa, godono di una copertura pensionistica molto limitata, non superiore al 36% del reddito. Tale ennesimo effetto perverso della precarizzazione del lavoro rende evidente la necessità di sostanziali correzioni di rotta, non solo sul fronte della previdenza ma anche su quello dei rapporti di lavoro.
2.3 L'impatto di genere del "neoliberismo ultraconservatore"
In un contesto di storiche e persistenti asimmetrie tra uomini e donne sul piano delle situazioni socioeconomiche e del condizionamento culturale, si rende necessaria un'indagine sugli effetti "di genere" della politica degli anni 90, per verificare se essa abbia contribuito a contrastare oppure ad alimentare quelle asimmetrie. I risultati emergono, in quest'ambito, ancor più limpidi ed inquietanti che altrove. Nell'impatto sui generi, infatti, e in particolare sulle condizioni di vita delle donne, il neoliberismo mette in piena luce il profondo conservatorismo che da sempre lo plasma e lo accompagna. Le politiche neoliberiste operano chiaramente in simbiosi con una cultura retrograde, evidenziata ad esempio dai progetti di privatizzazione dello Stato sociale e dei relativi servizi. In assenza di un sistema universale di servizi, le donne rischiano infatti di accollarsi carichi aggiuntivi di lavoro non pagato, venendo così ricacciate nel vecchio ruolo di "angeli del focolare". Simili aggressioni si realizzano peraltro su un tessuto già fortemente discriminante da un punto di vista di genere, come testimonia il persistente divario della partecipazione femminile al lavoro in Italia rispetto al resto d'Europa. Del resto, che in Italia le donne subiscano più che negli altri paesi europei gli effetti dell'arretramento culturale e politico degli anni 90, è rilevato dagli indici sulla disparità di genere: nelle classifiche internazionali il nostro paese si colloca in posizioni inaccettabili, anche peggiori di quelle rilevate nelle classifiche ambientali, e spesso al di sotto di paesi economicamente molto meno progrediti del nostro.
L'attuale profilo delle politiche sociali, insomma, risospinge le donne nell'ambito domestico, limitandone scelte, opportunità, autonomia economica, libertà; le costringe a farsi carico in maniera crescente di un doppio lavoro, in casa e fuori, svalorizzando entrambi; ripropone sul piano pratico e simbolico l'accettabilità del patto iniquo tra i generi che presiede all'economia familiare, e dunque l'accettabilità che meccanismi analoghi funzionino più in generale nella società, e non solo nei rapporti tra i generi. Nell'idea che le donne per funzione "naturale" debbano farsi carico della cura altrui c'è infatti il germe di una cultura dell'ineguaglianza e della sopraffazione: la disparità all'interno della famiglia, così evidente e nello stesso tempo cosi occultata nella divisione sessuale del lavoro, è in se stessa un elemento importantissimo di formazione culturale perché il significato sociale del sesso è uno dei fattori di maggiore incidenza sui nostri percorsi di rappresentazione del mondo e sulle nostre opportunità nella vita.
Il salto indietro nel tempo risulta oltretutto alimentato dalla crescente perdita di laicità dello Stato di fronte all'ingerenza della Chiesa di Roma e alla sua pretesa di detenere il monopolio dell'etica. Un'ingerenza che si manifesta ogni giorno, nelle più svariate iniziative politiche: quelle che svalorizzano la libertà e la responsabilità di donne e di uomini nelle loro scelte di relazioni affettive, progetti di vita in comune, scelta di maternità e paternità, in quanto prescrive e ripropone le regole auree della "famiglia legale" da difendere ideologicamente e tutelare in caso di bisogno economico.
Quelle che tentano di ricondurre all'ordine (ordine patriarcale) il corpo delle donne, mettendo sotto tiro la responsabilità e l'autonomia femminile attraverso un linguaggio reazionario, che fa dell'embrione un principio di vita, dell'aborto un assassinio, del calo demografico un sintomo dell'irresponsabilità femminile, della fecondazione artificiale un'occasione per l'egoismo femminile.
Contro questa mescolanza di liberismo e cultura reazionaria occorre intervenire rimettendo la questione di genere, dopo anni di oscurantismo, al centro del dibattito politico.
2.4 Liberi di distruggere l'ambiente
Ma è forse sul tema dell'ambiente che si può rilevare con maggiore evidenza l'insostenibilità del paradigma neoliberista e delle relative politiche. La questione ambientale è parte fondamentale delle contraddizioni e della crisi dell'attuale modello di sviluppo e di società. Il riproporsi del caro petrolio a 30 anni di distanza dal primo shock petrolifero mostra come sia stato ricostruito un dominio capitalistico che, non solo non ha risolto i problemi, ma li ha addirittura esasperati. Possiamo dire in tal senso che ci sono due grandi crisi ambientali che si intrecciano tra loro: quella climatica e quella energetica. Tutti gli esperti concordano sugli effetti dirompenti dell'innalzamento termico dovuto ai "gas serra". Le misure di Kyoto rappresentano un pallido palliativo; esse, peraltro, sono state sconfessate dal vertice dell'Aia, dall'irresponsabile retromarcia americana sui temi ambientali e, ancora più concretamente, dalla realtà che vede crescere, invece che ridursi, le emissioni. Oltretutto il dato di fondo è che c'è un rapporto perverso tra crescita del Pil e produzione di effetto serra mentre, al contrario, il Pil si è disaccoppiato dalla produzione di benessere sociale: un fenomeno evidente nel nostro paese, che da quinta potenza mondiale in assoluto e quindicesima in termini di reddito procapite, vede sistematicamente cadere la propria posizione nelle classifiche basate su indici che tengano esplicitamente conto della salute delle persone e dello stato dell'ambiente. Possiamo dire, dunque, che oggi sono in discussione il significato stesso di sviluppo e i parametri tradizionalmente adoperati per misurarlo.
L'insicurezza ambientale coinvolge ormai la generalità delle persone. In Italia rappresenta un nodo di fondo. Il nostro è un Paese dove il rapporto tra natura e cultura è stato elemento cardine della civilizzazione. La nostra natura è preziosa ma costituzionalmente fragile. Questo secolo ha visto le classi dominanti infrangere sciaguratamente l'equilibrio. Il Paese rischia di spezzarsi a metà tra Nord e Sud per gli effetti dei cambiamenti climatici, è del tutto dissestato dalla cementificazione selvaggia e dagli scempi territoriali, ha conosciuto scelte produttive ed infrastrutturali dissennate, in un contesto di dilagante irresponsabilità politica. Quest'ultima è resa particolarmente evidente dalla crisi energetica, che si riflette ogni giorno nell'ormai insostenibile inquinamento prodotto dall'uso indiscriminato di combustibili fossili da un lato, e nell'incremento concomitante dei prezzi degli stessi, espressione di un potere monopolistico ma anche sintomo della esauribilità di tali risorse in tempi storicamente ravvicinati. Escluso giustamente il ricorso al nucleare per la sua insostenibilità si rende necessario l'avvio concreto della transizione verso le fonti alternative. La questione è che, come accade per la crisi climatica, non c'è nessun governo reale della crisi energetica. Solo per citare alcuni esempi di latitanza politica, basti pensare che nel corso degli anni 90, in assenza degli opportuni incentivi, l'Italia si è prima fatta raggiungere e poi largamente superare dagli altri paesi europei nell'impiego di numerose fonti energetiche alternative. In assenza di una politica di programmazione, l'Italia ha inoltre accentuato rispetto al resto d'Europa la propria dipendenza dal trasporto su gomma, aumentato negli ultimi tempi a ritmi superiori al 5% annuo. A tutto ciò si aggiunga infine il paradosso che, in un'epoca di forte inasprimento della pressione fiscale (soprattutto sul lavoro), la tassazione ambientale ha invece mostrato un netto declino, piombando dal 13% delle entrate al 9,4%: un esempio di inquietante miopia politica, questo, che si è ripresentato con le indecisioni relative alla piena applicazione di uno strumento peraltro limitato come la carbon tax.
Il punto, insomma, è che nella migliore delle ipotesi la politica ha abdicato, e che tutto è stato affidato al mercato e all'impresa. Che mercato ed impresa hanno ricostruito un dominio nei processi che abbiamo chiamato di globalizzazione. Che questi processi hanno accresciuto i fattori distorsivi ed entropici oltreché le disuguaglianze e le ingiustizie: inseguendo ambiente e lavoro al loro più basso costo, determinando esternalizzazioni e irrazionalità (si pensi agli spostamenti sempre più vorticosi di merci effettuati solo per massimizzare i profitti, e ai relativi costi). L'elemento profitto ha travolto ogni altro rendendo massima l'insicurezza. Ne è un esempio, in tal senso, il fenomeno della mucca pazza e della degenerazione alimentare, conseguenza di una esasperata trasformazione dei processi produttivi, tutta finalizzata alla massimizzazione dei rendimenti. Crisi energetica, crisi climatica, crisi idrica e alimentare. Un mondo così vede a rischio la democrazia.
2.5 Un conflitto di classe, altro che generazionale
Si è fatto in questi mesi un gran parlare di disagio giovanile, avanzando le ipotesi più disparate e scomposte per interpretare le crescenti difficoltà di comunicazione tra le generazioni. Emblematicamente, tra tutte le chiavi di lettura fornite, quella del lavoro sembra non aver trovato spazio per emergere. Eppure, rispetto a vent'anni fa, l'impatto dei giovani con il mondo del lavoro è diventato molto più duro. I giovani hanno rappresentato in un certo senso le cavie, i prototipi per una società globalmente regolata dal paradigma liberista, avendo subito per primi l'impatto della flessibilità, del precariato, di un modello nel quale ai lavoratori è praticamente negata la possibilità di risparmiare. La nuova realtà dei rapporti di lavoro ha reso la difesa sindacale una mera chimera agli occhi dei giovani. E la demagogia liberista sul sindacato degli "insiders", i cosiddetti garantiti, sulle pensioni e sui relativi conflitti generazionali (da noi discussa in precedenza) ha teso ad accrescere lo spartiacque esistente tra lavoratori giovani ed anziani. In un simile contesto, non deve meravigliare la diffusa diffidenza dei giovani nei confronti della difesa dei diritti, della lotta politica e sindacale. Piuttosto, occorre dimostrare loro che l'attuale andazzo di contratti perennemente a termine, di lavoro nero, insicuro e dequalificato non costituisce affatto la risultante di una legge economica ineludibile, ma rappresenta il riflesso dei rapporti sociali correnti, rapporti che possono essere modificati. La consapevolezza della effettiva possibilità di riprogettare la composizione e la distribuzione del reddito, i tempi e le modalità di vita, di studio e di lavoro, è questo il tassello mancante tra le giovani generazioni. Riappropriandosi di una simile, concreta speranza, si può star certi che i giovani sapranno riappropriarsi del ruolo che gli spetta: quello di cambiare il mondo.
Il divario tra gli slogan della retorica neoliberista e i risultati raggiunti dalle politiche che essa ha ispirato è dunque ormai evidente, ma questa non è l'unica lezione che si può trarre dagli anni 90. Le decisioni intraprese nel corso del decennio hanno confermato un altro, inquietante segno dei tempi: il ritiro della politica dall'ambizione di guidare gli eventi socioeconomici anziché limitarsi ad assecondarli. Rassegnati ad inseguire le dinamiche dei mercati e gli umori di interessi tanto particolari quanto influenti, i governi hanno finito per contribuire alla radicalizzazione, in Italia e in Europa, delle ingiustizie e dei paradossi del capitalismo rampante di fine secolo.
Per avere un'idea dei drammatici mutamenti avvenuti, basterà ricordare che in Europa, nel corso dell'ultimo ventennio, il numero dei poveri è cresciuto senza interruzioni, passando da circa 35 milioni ad oltre 57 milioni di persone. Un dato inglorioso, questo, rispetto al quale l'Italia ha mantenuto posizioni di vertice, in compagnia di Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo. Alle indagini sulla diffusione della povertà si aggiungono poi i dati sulla disuguaglianza, i cui indicatori, tra il 1989 e il 1999, sono aumentati in tutto il continente: in Italia, in particolare, la quota di persone con un reddito inferiore alla metà del valore mediano è cresciuta dal 9,2% al 14,4%. Gran parte delle divaricazioni registrate si spiega, naturalmente, con lo scarto crescente tra redditi da capitale e redditi da lavoro, come dimostrano i seguenti fatti: negli ultimi dieci anni le retribuzioni nette mensili sono diminuite dell'8,7%, e i lavoratori a bassa retribuzione sono aumentati del 10%; al tempo stesso, la quota dei profitti e delle rendite sul reddito lordo distribuito è aumentata di oltre sei punti percentuali. Questo ennesimo primato italiano nel già impresentabile scenario europeo si spiega dal lato dei profitti con una dinamica salariale che, affannandosi nel cercare di rincorrere il solo andamento dei prezzi non ha goduto nemmeno in minima parte degli incrementi di produttività, andati praticamente tutti a beneficio delle imprese. Sul fronte delle rendite, poi, troppo spesso si è dimenticato che l'atteso e decantato abbattimento dell'inflazione ha dato luogo a un tale incremento dei tassi d'interesse reali da generare uno straordinario trasferimento di ricchezza a favore dei creditori, del quale i recenti scontri tra associazioni bancarie e mutuatari costituiscono l'inevitabile riflesso.
Il quadro che emerge dall'analisi della distribuzione dei redditi rivela in definitiva preoccupanti fenomeni di regresso: le crescenti similitudini tra l'attuale ripartizione delle ricchezze e quella che caratterizzava gli anni 50 rappresentano una tipica testimonianza dei passi del gambero compiuti negli ultimi tempi. L'arretramento risulta peraltro confermato da numerosi altri fattori, di natura sociologica e culturale, come il progressivo degrado delle competenze alfabetiche della popolazione; la crescita troppo lenta della partecipazione femminile al lavoro e il perdurare di divari retributivi tra donne e uomini con pari competenze; infine, la persistente tendenza all'immobilità sociale, segno ulteriore questo dell'ipocrisia insita nei proclami liberisti dedicati all'avvento della "società delle opportunità".
Al termine di questa allarmante carrellata sulle iniquità favorite dalle politiche di orientamento liberista è legittimo domandarsi se, almeno sui versanti dell'efficienza e della competitività, tali politiche abbiano raggiunto qualche risultato di rilievo. Ma anche su questo fronte il liberismo degli anni 90 sembra meritare una condanna senza appello. Basterà in tal senso fare riferimento solo ad alcune delle principali lacune del sistema economico italiano. La prima lacuna consiste nella tendenza sempre più marcata alla specializzazione verso produzioni tradizionali: in assenza di un coordinamento pubblico, la classe imprenditoriale italiana ha lasciato che i beni a scarso contenuto tecnologico diventassero il fulcro del sistema produttivo italiano: ne è una dimostrazione il fatto che i profitti accumulati nel corso del decennio, anziché essere reinvestiti nell'innovazione produttiva, hanno assunto la forma di rendite finanziarie, partecipando in tal modo alla insensata espansione della bolla speculativa sui mercati mondiali. Senza una drastica ripresa delle redini della politica industriale, nella divisione internazionale del lavoro prossima ventura l'Italia rischierà di trovarsi nella insostenibile posizione di un paese ad elevato tenore di vita condizionato sempre più dalla concorrenza dei paesi emergenti da un lato e dalla pressione delle multinazionali estere dall'altro.
Una seconda lacuna del sistema economico italiano, aggravata dall'orientamento neoliberista degli ultimi anni, è l'assoluta carenza di beni pubblici, ovvero di tutte le attività che, garantendo benefici collettivi ma non profitti privati, possono essere efficientemente prodotte soltanto dallo Stato: il riferimento, tra l'altro, è alle esigue risorse destinate alla ricerca di base, o all'insufficiente e irrazionale opera di contrasto nei confronti del degrado ambientale, peraltro causato in molte circostanze dall'opera corrosiva di interessi privati del tutto fuori controllo.
Infine, tra le debolezze del sistema produttivo italiano, occorre denunciare il totale abbandono del Mezzogiorno, il cui reddito procapite si è ormai ridotto a poco più della metà di quello del Centro-Nord. Considerando l'ostinazione con cui il Sud continua a mostrare segni fragili ma spontanei di vitalità economica, il crescente divario con il resto del paese deve essere chiaramente imputato alla paralisi della politica nazionale ed europea nei confronti delle periferie depresse dell'Unione, sempre meno sostenute rispetto alle aree ad elevato sviluppo. A dimostrazione dell'assenza di una concreta volontà politica di perequazione territoriale, a livello nazionale va denunciato l'impiego di un'imposta fortemente sperequativa come l'Irap per il finanziamento della spesa delle regioni. Questa imposta, applicata sul valore aggiunto delle attività produttive locali, darà luogo a gettiti profondamente diversi tra le regioni, e quindi a un divario sempre più ampio nelle prestazioni pubbliche erogate. Più in generale, è opportuno richiamare il fatto che nel 1998, per la prima volta in assoluto, la spesa pubblica per abitante è risultata più alta nel Centro-Nord che nel Mezzogiorno. Se a ciò si aggiunge che a livello europeo i fondi strutturali previsti per Agenda 2000 si sono ridotti da 32 a 29 miliardi di euro e che a partire dal 2006 il Mezzogiorno uscirà probabilmente dalla zona obiettivo 1 dell'Ue, si comprende che, al di là dei proclami, le politiche nazionali e sovranazionali di sviluppo delle aree depresse hanno assunto un profilo pressoché velleitario, e quindi inaccettabile.
In tutti i casi menzionati si tratta comunque di conseguenze tipiche della rinuncia a qualsiasi politica di programmazione dello sviluppo. La crescente e alimentata disaffezione nei confronti delle politiche pubbliche ha dato luogo ad una irresponsabile confusione tra il cosiddetto "assistenzialismo" e il necessario ruolo di coordinamento dei processi economici da parte dello Stato. A quest'ultimo si è finito per attribuire il pur importante ma insufficiente compito della regolamentazione. Il risultato è che, sotto la spinta di vecchi poteri particolari e nuove anarchie, il sistema economico si è ulteriormente deteriorato. In un certo senso, il successo della parabola "meno Stato più mercato", tanto di moda fino a poco tempo fa, non poteva avere effetti più grandi e disastrosi.
2.7 L'offensiva neoliberista non è finita
Dopo aver passato in rassegna gli effetti delle principali politiche di stampo liberista degli ultimi anni, e dopo aver dato una scorsa più generale ai mutamenti nei rapporti di forza e nelle condizioni di vita di italiani ed europei, verrebbe da chiedersi se, nonostante l'ammasso di fallimenti politici accumulati, esista ancora margine di manovra per l'ideologia dominante. E la risposta, purtroppo, è affermativa. Rilevato un certo affanno nei vecchi slogan sulla liberalizzazione del mercato del lavoro e sui benefici delle privatizzazioni, i liberisti si sono rifugiati nella demagogica richiesta di abbattimento delle tasse.
Su questo tema è bene chiarire che l'Italia è caratterizzata da una quota di pressione fiscale sul Pil allineata alla media europea. E' vero tuttavia che tale livello è stato raggiunto solo negli ultimi anni, in modo rapido e piuttosto traumatico, a causa del sentiero restrittivo della politica di bilancio. L'aumento dell'avanzo primario è stato infatti realizzato tramite un generale incremento delle entrate tributarie, con un'incidenza particolare su pensioni e redditi da lavoro dipendente, nonostante il fatto che già da tempo il 75% dell'imposta sul reddito gravasse esclusivamente su di essi. Come conseguenza, dal 1992 al 2000 il potere d'acquisto di lavoratori e pensionati ha subito drastiche decurtazioni, dalle 270 mila lire annue fino al milione e seicentomila!
Ma gli aspetti politicamente più significativi della politica tributaria del decennio si ritrovano nella fase appena avviata, volta alla riduzione della pressione fiscale. La crescente forza contrattuale del mondo imprenditoriale, le sempre maggiori riluttanze e difficoltà nell'impedire l'evasione fiscale e la fuga dei capitali, hanno indotto il legislatore ad una radicale riforma del sistema tributario basata su aliquote basse e decrescenti per i patrimoni e i redditi d'impresa. Come ammesso dalle stesse associazioni imprenditoriali la riforma sta rapidamente dando i suoi frutti: grazie all'introduzione della Dual Income Tax (Dit) e alle sue generose correzioni, le aliquote medie Irpeg dovrebbero presto stabilizzarsi al di sotto del 25%, un livello assolutamente competitivo in Europa. Inoltre, riguardo all'Irap, la sua introduzione ha comportato non soltanto rilevanti sgravi impositivi sulle imprese (oltre 13.000 miliardi nel 1998), ma anche effetti perversi in termini di tecniche di elusione e soprattutto fenomeni sperequativi tra le regioni, che persino il Fondo Monetario Internazionale ha giudicato alla lunga insostenibili. Nel complesso, considerando le ultime due finanziarie, tra abbattimento delle tasse e riduzione dei contributi, le imprese hanno ottenuto sgravi per oltre 35.000 miliardi all'anno.
Tali evidenze sollevano enormi perplessità sulla conduzione della politica tributaria italiana degli ultimi anni. E' pur vero che esiste, in materia, un problema di competizione internazionale, e che in assenza di un coordinamento europeo sulle politiche di tassazione si correrà il serio rischio di non riuscire ad imporre un pavimento alla caduta delle aliquote su rendite e profitti. Ma in generale le tendenze in corso riflettono un chiaro asservimento della politica ai gruppi d'interesse più forti. Lo dimostra ad esempio il fatto che, al di là dei privilegi conferiti alle imprese, il governo si è pure impegnato in una discutibile riduzione dell'imposta di successione. Pubblicizzata come riforma atta a favorire il trasferimento dei piccoli patrimoni all'interno della famiglia, essa sembra piuttosto voler sostenere il puro movente dell'accumulazione: si pensi che, con essa, due eredi estranei alla famiglia del defunto che ricevessero un patrimonio del valore di 1.500 milioni arriverebbero a risparmiare ben 235 milioni di tasse, mentre un figlio che ricevesse un patrimonio di 500 milioni otterrebbe uno sgravio di appena 16 milioni.
A fronte di questa iniqua pioggia di agevolazioni, non si vedono invece all'orizzonte serie proposte di abbattimento delle aliquote per lavoratori dipendenti e pensionati, nonostante i livelli chiaramente superiori alla media europea. Al contrario, i principali schemi di riforma dell'Irpef avanzati dagli esponenti dei due Poli comporterebbero aggravi ulteriori per le due categorie (è il caso della paventata riforma Visco) ed effetti distributivi assolutamente inaccettabili (è il caso della cosiddetta "rivoluzione" fiscale del centrodestra). Anche sul versante della politica fiscale, quindi, il "meno tasse per tutti" e gli altri slogan di facciata della politica liberista mirano in realtà a nascondere i veri interessi che la muovono e le ulteriori sperequazioni che da essa deriverebbero.
L'appiattimento della campagna elettorale sulla questione dell'abbattimento delle tasse è un caso esemplare di subalternità della politica ai ristretti orizzonti dei gruppi di interesse dominanti, e di totale incapacità nell'intraprendere un sentiero di politica economica e sociale alternativo. Eppure dovrebbe essere evidente che, tirate le somme degli anni 90, sarà difficile riproporre agli elettori la foglia di fico liberista per giustificare la compiacenza delle istituzioni nei confronti delle drammatiche trasformazioni socioeconomiche in atto. Il rischio maggiore, in tal senso, è che nonostante il declino dei consensi si procederà ugualmente, per inerzia, lungo il sentiero tracciato dall'ideologia dominante. Segnali di comportamento gattopardesco, volto a cambiare le forme della politica per lasciarne immutata la sostanza, sono del resto sotto gli occhi di tutti: basti pensare alla diffusione di definizioni incerte quanto suggestive, come il "conservatorismo compassionevole", "l'economia sociale di mercato", o la stessa "Terza via" di Blair; termini, questi, volti in un certo senso ad affermare il principio che nell'economia "moderna e globalizzata" è al più concessa solo l'elemosina, mentre la rivendicazione e la partecipazione sono ormai bandite quali obsoleti fardelli del passato. Ma in Italia, come nel resto d'Europa, l'indifferenza della politica nei confronti del diffondersi dei segnali di malessere e delle ingiustizie non ha mai dato buoni frutti. Il disincanto dei cittadini nei confronti della partecipazione democratica si è man mano trasformato in crescente disattenzione, come dimostra la generale insensibilità nei confronti degli enormi conflitti d'interesse che affliggono la politica corrente. Quel disincanto si è inoltre tradotto in un diffuso cinismo, che tra i ceti più ricchi si manifesta nella parossistica esaltazione dell'individualismo, e che invece nelle aree di emarginazione trova sbocco nella violenza e nella xenofobia, come dimostra la crescita esponenziale dei reati a sfondo razziale in Europa. Il gattopardo liberista, insomma, è in piena attività. E' necessario stanarlo, prima che la degenerazione del tessuto sociale e politico pregiudichi la sopravvivenza dei fondamentali principi di libertà e democrazia.
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