L'ambiente non è soltanto una questione "trasversale". E' anche un tema che viene prima. E' la terra su cui posiamo i piedi, l'aria che respiriamo, l'acqua che beviamo (e che dovremmo bere senza avvelenarci), la fonte di tutte le risorse di cui viviamo. Dell'ambiente non ce ne possiamo ricordare dopo: fare prima tutte le altre scelte e poi vedere casomai se collimano con le sue esigenze. Il procedimento giusto è diametralmente opposto: capire e stabilire quel che occorre fare e non fare (soprattutto, non fare), per continuare a vivere decentemente su questa Terra, e poi dopo subordinare a queste necessità le altre scelte.
La questione ambientale può essere affrontata solo in una diversa concezione dell'economia e della società. Non si tratta infatti di ricercare solo una qualche forma di "compatibilità" tra ambiente e sviluppo e neanche è sufficiente un'altra idea dello sviluppo. Serve una vera e propria alternativa di modello sociale, di concezione e ruolo dell'economia, di rapporto tra uomo e natura.
Questa nostra idea si sostanzia in alcune grandi opzioni di fondo con relativi terreni di pratica politico programmatica.
Queste generali affermazioni di principio possono e debbono sostanziarsi in concreti punti di programma.
Per quanto riguarda l'economia del ripristino facciamo alcuni esempi.
Clima: la questione è già stata affrontata internazionalmente con il protocollo di Kyoto, irresponsabilmente non ratificato all'Aia. Noi proponiamo: a) l'assunzione, anche unilaterale, degli impegni di Kyoto; b) la definizione di un piano concreto articolato per settori e di tempi certi di realizzazione di questo impegno; c) l'assunzione di un impegno ulteriore di riduzione stabile e continuata delle emissioni serra dell'1% l'anno; d) la definizione di misure economiche (occupazionali e produttive) capaci di supportare questo piano.
Energia. Come abbiamo detto in premessa il tema è quello di passare alle fonti rinnovabili e di frenare i consumi. Noi proponiamo: a) il raddoppio annuo delle fonti alternative (naturalmente con esclusione di nucleare e incenerimento di rifiuti); b) un programma di risparmio energetico che preveda riduzioni del consumo di almeno l'1% annuo, definito per settori; c) l'uso a tal fine di una carbon tax fondata sulle distorsioni produttive.
Acqua. Proponiamo un grande piano di risanamento e di gestione alternativa delle risorse idriche che a) preveda un loro uso plurimo e appropriato; b) intervenga sulla qualità dei corpi idrici risanandoli; b) promuova l'uso appropriato, a partire dal rifacimento delle reti idriche che sono causa di grandi dispersioni, dalla separazione tra usi civili e produttivi, dal riciclaggio sistematico delle acque stesse.
Suolo. Il dissesto territoriale va affrontato intervenendo sulle sue cause. Proponiamo: a) l'attuazione della legge 183 di difesa del suolo, con l'occupazione di 300 mila giovani e tecnici in opere di ripristino, manutenzione, rinaturalizzazione, riforestazione, sulla base dei piani di bacino previsti dalla legge; b) un freno alla cementificazione selvaggia, stabilendo che ci debba essere un saldo zero tra urbanizzazioni e rinaturalizzazioni e che le politiche edilizie e infrastrutturali debbano fondarsi sul recupero abitativo, e sul riequilibrio e sulla qualità ambientale e sociale.
Merci. Sviluppare un sistema di riciclaggio sempre più sistematico delle merci o delle loro componenti (tendendo idealmente verso una economia "a rifiuto zero"), allo scopo di ridurre drasticamente impatti ambientali nocivi e prelievi di materie prime. Essa richiede una nuova intelligenza produttiva nella progettazione stessa delle merci e un controllo sociale sull'economia.
Gli esempi relativi a un'economia che recuperi un rapporto col territorio possono essere molteplici. a) nel campo agricolo e alimentare si dovrebbero favorire le produzioni locali e biologiche, fino a promuovere, ove possibile, forme di autosufficienza alimentare delle varie aree, ricostruendo un nesso tra città e campagna; b) in generale, vanno sostenute, attraverso un sistema di incentivi e disincentivi, le attività produttive che non si traducono in esternalità nocive, non producono entropia territoriale, mantengono un forte rapporto con il loro insediamento; c) avere standard minimi certi che garantiscono ai vari territori servizi, accessi e qualità per limitare le esigenze di spostamento.
L'ambiente richiede una trasformazione radicale nelle finalità e nei modi d'essere del processo lavorativo, che siano alternative rispetto a un'economia e a una crescita che producono inquinamento ed entropia e si reggono sulla promozione costosa, artificiale e illimitata di consumi inquinanti, superflui e insostenibili.
Attraverso un'azione coordinata tutti gli organismi pubblici devono con gli strumenti a loro disposizione promuovere una progressiva, radicale riconversione del sistema produttivo. Alle attività produttrici di esternalità negative sulla collettività andranno in modo sempre più integrale imputati i loro effettivi costi, attraverso una più razionale politica fiscale. Tutte le attività economiche che migliorano e ripristinano la condizione dei circoli ambientali, riducono prelievi, non producono esternalità negative, si realizzano in forme immateriali e soddisfano bisogni immateriali, e che sono finalizzate a prodotti di qualità, "territorializzati", a risparmio di materie prime e di energia dovranno invece essere sostenute attraverso la loro diretta promozione pubblica o indirettamente, tramite sostegni fiscali, crediti agevolati, costruzione di servizi, sviluppo della ricerca, e domanda pubblica.
La nostra proposta centrale per il lavoro è quella di un grande esercito di lavoro ambientale per: a) la difesa del suolo; b) lo sviluppo del risparmio energetico e delle fonti alternative; c) la promozione di economie territorializzate; d) la progettazione e la realizzazione di prodotti innovativi di alta qualità ambientale.
Il PIL deve essere sostituito da altri parametri, molti dei quali già disponibili nelle riflessioni internazionali. In particolare proponiamo un parametro di carico ed uno di ripristino. Più, parametri sociali (occupazione, salute, ecc.).
Ma le politiche ambientali richiedono anche una serie di provvedimenti e di iniziative su temi specifici. Ne proponiamo alcuni, tra i più urgenti.
Elettrosmog: dopo la legge quadro, occorre varare a tutti livelli i decreti e le norme attuativi fondati sui principi di precauzione, di minimizzazione, di sovranità degli enti locali sulle installazioni, di partecipazione e controllo democratico; in particolare, vista la tendenza dello sviluppo dei servizi a usufruire di infrastrutture di rete senza cavo, che produrranno nei prossimi anni incrementi ancora più alti di irraggiamento elettromagnetico del suolo.
Rifiuti: occorre procedere in avanti rispetto alla legge n. 22, al fine di ampliare al massimo le quote di riduzione della produzione di rifiuti, la raccolta differenziata, il riciclaggio, lavorando in prospettiva in direzione di un'economia "a rifiuti zero" che eviti discariche e inceneritori.
Difesa del suolo: occorrono tempi certi di realizzazione dai piani previsti.
Valutazione di impatto ambientale: deve essere introdotto come strumento di integrazione della programmazione e non semplicemente come valutazione delle singole opere. Deve prevedere esplicitamente l'opzione zero (cioè l'eventualità di non realizzare l'opera) e consentire la piena partecipazione dei cittadini.
Parchi: occorre far decollare i piani di sviluppo dei parchi, che vanno intesi come una grande occasione di lavoro in forme alternative.
Riconversioni industriali: è necessario un quadro legislativo e operativo che consenta di affrontare bonifiche, delocalizzazioni, riconversioni parziali o generali con l'intervento e la direzione del pubblico e, sul modello di quanto fatto nelle Ruhr tedesca, promuovere un'agenzia nazionale per la riqualificazione ambientale delle attività industriali.
3.2.2 Per un nuovo sviluppo economico del Mezzogiorno
Per affrontare la contraddizione meridionale e lo storico divario Nord-Sud è necessario un mutamento profondo degli indirizzi di politica economica e sociale nazionali.
La "devolution" invocata dalle regioni ricche del Nord, governate dalle destre, mira in realtà a spezzare il paese. La rottura dell'assetto statuale unitario avverrebbe di fatto attraverso la gestione regionale dell'economia, della fiscalità, della sicurezza e di funzioni strategiche come la scuola e la sanità. Questa politica annuncia, non l'autogoverno democratico del proprio territorio, ma la separazione, la secessione delle regioni più forti da quelle più in difficoltà.
Si intende seppellire così la storica, mai risolta, "questione" del nostro Mezzogiorno, abbandonando le regioni meridionali a se stesse, aumentando la loro marginalità e accentuando al loro interno i già pesanti squilibri sociali. Il Prc è nettamente contrario a questa logica propugnata dalle destre, e che il centro sinistra non ha contrastato con decisione, rimanendovi invece influenzato. Una logica in cui le regioni più ricche vanno avanti e si agganciano ai processi economici europei e quelle più povere regrediscono.
Il Prc propone una nuova grande stagione di intervento pubblico per il Mezzogiorno che trasferisca nel Sud le condizioni di uno sviluppo di qualità, duraturo e ambientalmente compatibile. Una vera economia produttiva che non operi solo sui segmenti più poveri e dequalificati, e attrezzi l'economia meridionale, in direzione dell'Europa, a stare dentro una competizione sulla qualità; e, in direzione del bacino del Mediterraneo, a ricercare una nuova funzione e nuovi sbocchi in una visione di cooperazione allo sviluppo.
Al Mezzogiorno d'Italia viene oggi, dai gruppi dominanti, assegnata nuovamente all'interno dello sviluppo duale una funzione dipendente come fu per il passato. Funzione dipendente a cui si aggiunge la costruzione di un modello sociale devastante, sempre più centrato sulla precarietà e sulla flessibilità selvaggia del lavoro, e reso ancor più duro in conseguenza dell'interrompersi del flusso di spesa pubblica. Un Meridione che ridiventa funzionale alla spinta di ristrutturazione economica del Nord, drenando in quella direzione risorse che dovrebbero essere destinate al Mezzogiorno e anche risorse rastrellate direttamente al Sud, come il risparmio e la manodopera. Un territorio in cui si impoverisce la qualità sociale e la civiltà e in cui si insedia nuovamente, con rinnovata capacità di egemonia sociale, il potere criminale.
Un'Agenzia per lo sviluppo e l'occupazione nel Mezzogiorno.
Il Prc propone il varo di un'Agenzia per lo sviluppo e l'occupazione del Mezzogiorno. Una struttura con funzioni di progettazione e di gestione nei seguenti campi:
Va ribadito anche in questo ambito, che una leva straordinaria per un incremento e una distribuzione dell'occupazione è costituita dalla riduzione dell'orario di lavoro a pari salario. Essa può costituire uno strumento ulteriore per favorire lo spostamento di risorse e produzioni verso il Sud.
Per una vocazione mediterranea del Mezzogiorno d'Italia.
Una politica meridionalistica che voglia fino in fondo valorizzare vocazione e risorse storiche e geografiche del Mezzogiorno si sviluppa naturalmente in un orizzonte euromediterraneo.
Il processo cosiddetto di Barcellona che la Comunità ha avviato nel 1995 si è rapidamente bloccato per le sue contraddizioni interne, che nascono dalla subalternità a un disegno neoliberista e quindi dall'incapacità di concepire un rapporto egualitario fra le due sponde del Mediterraneo, nonché dal deficit politico-democratico dell'attuale costruzione europea che le impedisce di svolgere un ruolo attivo e coraggioso nel perseguire una politica di pace rispetto ai tre o quattro focolai di crisi dell'area mediterranea: questione palestinese, kurda e algerina e (per la sua vicinanza geografica) anche questione irachena.
Ciononostante, conformemente ai voti delle forze progressiste dell'area, è necessario spendersi da sinistra per l'avvio di un reale processo d'integrazione fra Europa e paesi africani e asiatici del Mediterraneo, concepito non come mera area di libero scambio a beneficio dei prodotti industriali europeo, ma anche come valorizzazione della specificità e del patrimonio economico e culturale dei paesi associati, con tutta l'attenzione necessaria per evitare il sorgere di contraddizioni in seno ai popoli delle nazioni e delle regioni "meno sviluppate" (tra i paesi del mediterraneo e quelle dell'Europa meridionale, o tra processo euromediterraneo e integrazione tra Europa occidentale ed Europa orientale).
Tutti questi processi vanno visti non solo nella loro dimensione economica ma anche in quella politica nelle due facce di promozione della democratizzazione e promozione della pace. Uno dei terreni su cui sperimentare questa linea potrebbe essere quella di un rapporto privilegiato fra Europa e forze democratiche del Maghreb.
Di fronte alla funzione dipendente cui viene nuovamente destinato il Sud, occorre invece ripensare proprio al modello di fondo del suo sviluppo. Un nuovo asse di sviluppo deve essere creato, valorizzando la vocazione mediterranea del Mezzogiorno d'Italia e facendo crescere sinergie produttive tra le diverse sponde del Mediterraneo. Una vera e propria rete mediterranea da collocare dentro il processo di integrazione europea, come critica pratica all'Europa mercantile.
A tale proposito il Prc propone di allocare nel Mezzogiorno una sede della struttura di sicurezza alimentare per valorizzare ricerca e produzioni agricole meridionali in un rapporto permanente con i paesi del bacino Mediterraneo.
Crisi meridionale e salario sociale.
Nel quadro sociale assai critico del Mezzogiorno odierno, ai nodi storici si intrecciano le conseguenze più recenti delle politiche seguite dai governi in questo decennio, che hanno dato impulso alle privatizzazioni e alla deregolamentazione del mercato del lavoro, e la forte crisi produttiva che ha spazzato via i pochi poli dell'industria pubblica, senza offrire alternative occupazionali, nel terziario come altrove. In questo quadro, caratterizzato anche da aree estesissime di lavoro nero, il Prc propone per i giovani inoccupati e per i disoccupati di lunga durata un salario sociale. Una retribuzione sociale di un milione mensile, esentasse, per un periodo di 36 o 48 mesi collegato ad un pacchetto di servizi gratuiti messi a disposizione dalle amministrazioni pubbliche locali. Alle imprese, anziché i tanti incentivi a fondo perduto elargiti in questi anni, andrà, in caso di assunzione, il 50% dell'assegno. Trascorso il periodo previsto, senza assunzione, sarà lo Stato a dover garantire un lavoro minimo garantito nel campo dei lavori di pubblica utilità, per interventi nell'ambiente e nella manutenzione del territorio.
Sarà impegno prioritario del Prc aprire una nuova grande stagione di meridionalismo democratico e di classe che rimetta al centro il tema della lotta alla disoccupazione e di un diverso modello di sviluppo del Mezzogiorno e del Paese. Un nuovo paradigma culturale che assuma l'ambiente e il territorio non come vincoli ma come risorse capaci di creare nuova occupazione. Per uno sviluppo qualificato, per costruire nuovi modelli di produzione, di consumo e di vita. Uno sviluppo che metta in un rapporto di coesione crescita economica, benessere sociale e ripristino ambientale.
3.2.3 Per una nuova politica di intervento pubblico
L'Italia ha guadagnato nel corso dello scorso decennio un triste primato mondiale nel campo delle privatizzazioni, per la loro entità, rapidità e diffusione. Il Prc ha contrastato in tutti questi anni questa tenace politica di dismissioni, avvenuta sotto la spinta dei poteri forti internazionali e sull'onda di una campagna ideologica, dietro la quale hanno agito corposi interessi privati nel nostro paese.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Si sono privatizzati settori nevralgici (come il credito, l'energia, le telecomunicazioni) e infrastrutture (autostrade, aeroporti, reti); si sono privatizzate e svendute imprese strategiche (come Telecom, Eni, Enel) ed estremamente redditizie. Avanzate con la pretesa di fornire servizi più efficienti e a prezzi più bassi, le politiche di privatizzazione e liberalizzazione hanno invece creato nel nostro paese numerose sacche di monopolio privato ed evidenti comportamenti collusivi e di cartello (si pensi a quanto accaduto, per esempio, nel settore assicurativo, bancario o petrolifero). In tal modo, anziché affrontare il nodo reale dell'efficienza del nostro sistema di servizi, si sono generate sacche di rendita privata, a scapito dell'occupazione e dei lavoratori e dei cittadini, in quanto utenti e consumatori.
Ma il paese ha sofferto del generale ridimensionamento dell'intervento dello Stato sotto molti altri aspetti. Nel corso del decennio sono caduti verticalmente gli investimenti pubblici in ogni ambito. Il sistema della ricerca scientifica ha subito un'ulteriore drastica contrazione. Nell'ambito della politica industriale, poi, lo Stato ha semplicemente abbandonato il campo. Al di là delle privatizzazioni, ogni scelta nel campo della produzione, delle sue finalità e delle modalità del suo svolgimento, è stata completamente subordinata alla massimizzazione del profitto delle imprese, sulla base del presupposto che queste avrebbero poi realizzato i necessari investimenti. Ogni strumento è stato piegato a questa logica: nel campo della politica fiscale e di bilancio dello Stato, riducendo il carico fiscale sui profitti; nel sistema della concertazione, comprimendo salari e costo del lavoro; nel mercato del lavoro, liberalizzandolo; nel campo delle sovvenzioni, dove l'Italia, come ci rimprovera l'Ue, è il paese che al contempo più sovvenziona l'industria (32000 miliardi nel 1999) e meno pone condizioni e controlli su tali finanziamenti.
Il risultato di queste politiche è stato semplicemente un'imponente ridistribuzione del reddito a favore dei profitti. I profitti sono infatti aumentati, costantemente nel corso di tutto il decennio, e in alcuni anni in modo formidabile; ma anziché essere reinvestiti nell'innovazione produttiva e in nuove occasioni di lavoro, hanno assunto la forma di rendite finanziarie, partecipando in tal modo alla insensata espansione della bolla speculativa sui mercati mondiali, impoverendo anche il paese di fondamentali risorse (dal 1990 circa 200 mila miliardi sono fuoriusciti dall'Italia). Gli investimenti, invece, sono caduti verticalmente (l'Italia ha registrato nel decennio un tasso di crescita negativo nell'accumulazione di capitale fisso: -0,2% come media complessiva negli anni 90).
Abbandonato alle forze del "mercato" e della nostrana classe imprenditoriale, privo di ogni reale disegno strategico, il sistema produttivo del paese, è dunque evoluto verso una logica finanziaria e priva di prospettive. Appesantito, da un lato, da sacche crescenti di parassitismo monopolistico, esso si caratterizza per essere sempre più marginale e dipendente dai grandi oligopoli internazionali nei settori tecnologicamente ed economicamente strategici e innovativi (chimica, farmaceutica, informatica, telecomunicazioni, aerospaziale, nuovi materiali, agroalimentare, ecc.); rigidamente specializzato in settori maturi e in segmenti della produzione strutturalmente esposti alla concorrenza dei paesi a basso costo del lavoro; fondato su un reticolo di piccole e piccolissime imprese, spesso semplici subfornitrici, dotate di scarsa autonomia dalle grandi imprese appaltatrici e dai grandi monopoli interni e internazionali, e costrette a perseguire una strategia di continua riduzione dei costi. Un sistema, dunque, strutturalmente incapace di produrre una domanda di lavoro adeguata alle possibilità e alle necessità del paese, sul piano quantitativo e qualitativo.
Nel complesso gli anni 90 ci consegnano una situazione dell'occupazione deteriorata, con un tasso di disoccupazione ancora a due cifre e tra i più alti in Europa; una crescita del lavoro nero e in generale del lavoro povero, precario e privo di tutele; un tasso di occupazione della popolazione in età lavorative tra le più basse tra tutti i paesi industrialmente avanzati, che penalizza soprattutto le donne (il cui tasso di partecipazione al mercato del lavoro in Italia supera di poco il 34%), i giovani e le popolazioni meridionali.
Nasce da qui, da questa esperienza concreta, dai pericoli e dai guasti che ci consegna, la necessità di perseguire una linea nettamente diversa dalle scelte compiute in questi anni, di privatizzazione di ogni spazio pubblico e di deregolamentazione di ogni settore.
Alcune scelte e alcune soluzioni nel campo della politica industriale e degli assetti proprietari non possono che essere affrontate a livello internazionale e, in primo luogo, a livello europeo. Noi riteniamo, d'altra parte, che in Europa si pongano problematiche in ampia misura simili a quelle che abbiamo denunciato nel nostro paese; e un'uguale necessità di una radicale alternativa rispetto agli indirizzi che sono prevalsi negli anni 90. In un caso e nell'altro si tratta, in definitiva, di democratizzare le grandi scelte inerenti la vita economica; di creare un nuovo spazio pubblico con poteri di determinazione e orientamento sulle grandi decisioni produttive.
Altrove affrontiamo altre questioni relative alla necessaria revisione dei trattati europei e ai mezzi anche immediatamente disponibili per rilanciare un nuovo intervento pubblico su scala europea. Nell'ambito di tale revisione del processo di unificazione è comunque per noi imprescindibile una profonda revisione dell'intero complesso di normative nazionali ed europee che attualmente regolano materie come: la deregolamentazione e la privatizzazione nei settori strategici e nei servizi pubblici essenziali, i movimenti di capitale, gli investimenti diretti all'estero, le acquisizioni e le fusioni, il decentramento produttivo, il commercio estero. La libertà pressoché assoluta concessa al capitale nega infatti in radice la possibilità di un governo democratico delle trasformazioni in corso.
Non si tratta di negare la crisi - e la degenerazione - delle precedenti forme di intervento pubblico. Si tratta di opporsi all'irresponsabile e interessata confusione istituita tra politiche pubbliche, corruzione e "assistenzialismo". Si tratta di affermare la possibilità di dare risposte nuove e diverse a quella crisi: riformando profondamente l'insieme degli apparati pubblici, potenziandone il carattere democratico, in modo da garantirne modalità di funzionamento efficaci, trasparenti e da consentire in essi una diffusa partecipazione e un reale controllo collettivo. Si tratta soprattutto di riaffermare il diritto e il dovere da parte dei poteri pubblici di intervenire in tutte le attività economiche e le scelte produttive nelle quali l'interesse privato impedisce il perseguimento di fondamentali finalità pubbliche.
Nell'immediato, sarà perciò un nostro compito far vivere e crescere tra i lavoratori e i cittadini un grande movimento di opinione e di interessi che contrasti i paventati, ulteriori programmi di privatizzazione di aziende e infrastrutture pubbliche, proposti tanto dal centrodestra che dal centrosinistra, per promuovere finalmente un ampio e libero dibattito democratico sulla radicale e regressiva rivoluzione degli assetti proprietari in corso.
Nell'ambito delle attività già privatizzate, il governo e tutte le autorità preposte vanno richiamate al loro dovere di esercitare a pieno e con fermezza i propri poteri di regolazione e controllo in materia di tariffe e di disciplina anti-monopolistica, sanzionando con durezza gli abusi e i comportamenti monopolistici e collusivi. Per garantire ciò, l'attività delle autorità di vigilanza e regolamentazione deve essere riportata sotto il controllo del Parlamento (e non dell'esecutivo o di poteri tecnocratici) e resa realmente trasparente; e in esse deve essere garantita la presenza di rappresentanze dei consumatori-utenti e dei lavoratori delle società interessate.
Il Prc ha anche presentato nella passata legislatura un disegno di legge che dispone l'utilizzo dei ricavi delle privatizzazioni per finanziare, invece che mere esigenze di cassa, progetti di ricerca e di sviluppo di prodotti innovativi, fino allo stadio "precompetitivo" (come consentito anche dai trattati europei); e l'istituzione di un comitato che definisca i criteri e gli obiettivi di interesse generale cui si devono attenere i membri dei consigli di amministrazione espressione della residua proprietà pubblica in società privatizzate (come Eni, Enel, Telecom), per porre fine alla loro acquiescenza verso una conduzione dell'impresa volta unicamente alla realizzazione del massimo profitto, a scapito del lavoro, dei consumatori e delle prospettive future del paese.
Fermo restando che, in certi casi, è comunque più che ragionevole ritenere necessaria la predispozione di piani di riacquisto di ciò che è stato privatizzato: in primo luogo, nell'ambito delle infrastrutture, che costituiscono in molti casi monopoli naturali illegittimamente privatizzati. Senza proprietà pubblica è infatti più difficile il perseguimento di obiettivi sociali e di interesse collettivo, non necessariamente o non immediatamente profittevoli, come ad esempio, la localizzazione di attività in aree depresse, la fornitura di servizi in condizioni di scarsa economicità, la scelta di intraprendere costosi piani di riconversione produttiva per fini di tutela ambientale, la promozione di settori ad elevato valore aggiunto o a redditività differita o indiretta.
Tuttavia, anche prescindendo dalla proprietà pubblica, lo Stato detiene comunque un insieme di leve norme e poteri di regolazione, fisco, domanda pubblica, spese in formazione, servizi e ricerca pubblica - che possono essere utilizzate per incidere con efficacia sull'intero sistema, soprattutto se esse vengono finalizzate in modo coerente al perseguimento di obiettivi chiaramente identificati e collettivamente condivisi.
Questi strumenti vanno utilizzati per sostenere un nuovo piano generale di trasformazione e innovazione del nostro sistema produttivo. Una nuova azione programmatrice pubblica, da determinarsi e realizzarsi anche con il concorso dei privati, ma soprattutto democraticamente, anche in forme decentrate sul territorio, e che abbia al suo centro, in primo luogo, un grande impegno pluridecennale di riconversione ambientale.
L'Italia ha assoluta necessità di identificare alcuni assi di sviluppo innovativi, per sottrarsi a uno sviluppo sempre meno autonomo e sempre più incentrato sulla ricerca di una competitività di costi, che sospinge il paese verso un imbarbarimento progressivo dei rapporti sociali, e che è insostenibile nel medio periodo: sul piano economico, sociale, territoriale e ambientale.
Dall'individuazione di questi nuovi assi di sviluppo dipenderà perciò tanta parte del carattere della nostra futura società e anche, interamente, per il nostro paese la possibilità di sviluppare una presenza qualificata a livello internazionale in settori innovativi, ad alto contenuto tecnologico e di sapere, e dunque un'occupazione nuova e di qualità.
Noi riteniamo che tra questi vi siano i campi connessi alla salute e al benessere della popolazione, alla cura delle persone, ai risanamenti ambientali, al risparmio energetico e allo sviluppo delle fonti energetiche alternative, alle produzioni pulite, al risanamento del territorio e alla riqualificazione del tessuto urbano, alla valorizzazione e allo sviluppo del patrimonio artistico e culturale. Intrecciati a questi, altri settori, come il sistema dei trasporti, il complesso delle telecomunicazioni e lo stesso comparto agroalimentare, hanno anch'essi forti potenziali innovativi, capaci di introdurre modificazioni qualitative sull'intero sviluppo sociale.
In questi ambiti devono essere concentrate risorse e capacità, per sviluppare un complesso di saperi, capacità professionali, servizi, tecnologie; e attorno a queste sostenere lo sviluppo di un nuovo sistema di attività produttive e una nuova occupazione.
Una componente centrale delle politiche pubbliche di trasformazione e innovazione del nostro sistema produttivo non può che riguardare il campo dei saperi, delle nuove tecnologie e la formazione umana, nel senso più ricco e moderno del termine.
La pervasività della conoscenza nel nuovo paradigma produttivo (dal complesso tecnico-scientifico alla raccolta-elaborazione-gestione di informazioni/dati) mostra come il sistema dei saperi e della ricerca scientifica abbiano assunto una centralità sempre maggiore nel determinare caratteristiche decisive del futuro delle nostre società.
La rivoluzione tecnologica in corso, in forme sempre più accelerate, sta modificando la base stessa della vita degli individui, e i rapporti tra classi, società, popoli, attività economiche e istituzioni.
I nuovi saperi, le nuove tecnologie sono strumenti contraddittori. Lo sperimentiamo ogni giorno. La loro crescita può aprire nuove opportunità, contribuire ad alleviare o eliminare sofferenze prodotte dalle malattie o dalla povertà; e in parte ciò è avvenuto, se pure nel prevalente interesse di ceti e Paesi privilegiati. Il loro sviluppo potrebbe anche ridurre il tempo di lavoro necessario e la sua fatica e aprire nuove libertà nel lavoro e dal lavoro. Ma nel loro tipo attuale di sviluppo e applicazioni, che sfugge largamente al controllo democratico e riproduce su altra scala il disastro della spoliazione capitalistica di interi continenti avvenuta nei secoli scorsi, esse stanno anche creando nuovi pericoli, nuove miserie, nuove forme di analfabetismo e di esclusione, nuove gerarchie sociali.
La tecnologia bellica assorbe enormi risorse, rivoluzionando i sistemi di difesa e offesa, e contribuisce all'imbarbarimento della società e dei rapporti tra nazioni e popoli. L'espansione del campo delle biotecnologie, con le manipolazioni genetiche sul vivente, costituisce un esempio, anche se forse il più impressionante, del carattere estremo di nuova frontiera che viene assumendo la ricerca scientifica. La volontà di sussumere questa regione del sapere e della tecnica sotto il dominio prevalente della proprietà privata e del mercato rappresenta, invece, una delle manifestazioni più evidenti delle aberrazioni prodotte dal sistema capitalistico contemporaneo e dei pericoli e delle irrazionalità che possono essere insite nello stesso sviluppo tecnico-scientifico, se esso non viene sottratto alla logica totalitaria della mercificazione e della privatizzazione di ogni ambito della vita.
Sul controllo, lo sviluppo e l'utilizzazione dei nuovi saperi e delle nuove tecnologie va perciò aperta nel nostro paese, come in tutto il mondo, una grande battaglia democratica, per riportare la ricerca la sua promozione, il suo finanziamento, la sua gestione sotto il controllo di poteri pubblici democratici, sopranazionali e nazionali.
In questo contesto, il primo compito di uno Stato democratico è quello di potenziare il sistema dell'istruzione e della formazione pubblica, per dotare ogni cittadino di un ampio sistema di saperi e strumenti critici che facilitino il suo approccio alla valutazione delle novità tecnico-scientifiche. A questo scopo sarebbe necessario avviare una vera e propria campagna di democratizzazione delle conoscenze, anche orientando i media a una pratica di informazione meno spettacolare e più critica, più volta a preparare la collettività all'uso degli strumenti di partecipazione che è necessario costruire.
Il secondo compito di uno Stato responsabile è quello di potenziare la ricerca pubblica. Il carattere pubblico della ricerca risulta in diversi settori fondamentale e imprescindibile, come ad esempio nella ricerca di base. Il carattere pubblico della ricerca è anche un forte antidoto all'appropriazione privata del sapere, in molti casi illegittima e comunque socialmente irrazionale. Il carattere pubblico della ricerca costituisce inoltre uno strumento fondamentale di orientamento nello sviluppo sociale complessivo del paese. Dall'entità, dalla qualità e soprattutto dalla finalizzazione della ricerca dipenderà, infatti, in modo determinante tanta parte del futuro del paese e delle sue prospettive di riforma e cambiamento in campo economico, sociale, ambientale, e ovviamente, culturale.
L'Italia, viceversa, riduce sistematicamente da anni l'entità delle risorse destinate alla ricerca, in assoluto e in rapporto agli altri paesi industrializzati (spendiamo in ricerca la metà della media dei paesi Ocse: l'1,02% del Pil, la media europea è al 2,4%); mortifica i nostri ricercatori o li costringe a emigrare per poter continuare a coltivare la propria attività; tende sempre più a subordinare la ricerca alle sollecitazioni provenienti dall'attuale sistema di imprese, piegando questa leva strategica dello sviluppo del paese al servizio di interessi di parte.
Affermare la necessità di un controllo democratico sulla ricerca, non vuol dire naturalmente mettere in discussione il principio fondamentale della libertà della ricerca. Tuttavia, la politica ha il ruolo di esigere dai ricercatori che, nella loro libertà di ricerca, la loro autonomia sia temperata dal senso di responsabilità. La ricerca stessa e la sua applicazione, in alcuni campi può determinare pericoli per la salute o per altri diritti delle persone. In questi casi la politica non può abdicare alla responsabilità di indicare limiti e scelte e di sforzarsi di acquisire previsioni sulle conseguenze della ricerca stessa; e nella valutazione di utilità e rischi va comunque applicato il principio di precauzione. Naturalmente, quando la ricerca è finanziata da privati, essa deve comunque sottomettersi a verifiche di compatibilità.
La libertà di ricerca, affermata in linea di principio, è d'altra parte messa in discussione di fatto dalla crescente subordinazione a interessi privati, che è pratica corrente, anche nelle stesse strutture pubbliche, in seguito a precise direttive del Governo. La committenza privata comporta un orientamento ad applicazioni commerciali, spesso limitanti e non compatibili con l'interesse della società e con la esigenza di equo accesso ai risultati. Inoltre, oltre che sbagliato in radice, il sistema ha funzionato in maniera stentata, perché le commesse sono in realtà scarse, essendo l'industria italiana notoriamente impegnata ad affrontare la competizione internazionale più con i bassi salari che con l'innovazione.
Controllo democratico, vuol dire anche promuovere una partecipazione democratica, in uno scambio tra comunità scientifiche e società civile, per discutere quali ambiti siano portatori di un connotato socialmente e ambientalmente progressivo e dunque meritevoli di essere privilegiati. Sta al sistema politico di creare, nel raccordo tra istituzioni politiche, culturali e rappresentanze di movimenti ed associazioni che esprimono istanze rilevanti nella società, in primo luogo quelle legate alla questione di genere, uno spazio pubblico di dibattito e decisione, al quale siano sottoposte anche le ricerche private o finanziate dal privato.
Nel finanziare e promuovere la ricerca, la politica deve valutare le priorità. Noi riteniamo che tra queste vi siano i campi connessi alla salute e al benessere della popolazione, alla cura delle persone, ai settori di sviluppo individuati nell'ambito di coerenti politiche industriali e sociali, al risanamento ambientale, al risparmio energetico, alle produzioni pulite. In ogni ambito, ma in questi in particolare, deve essere garantita un'equa possibilità di accesso ai risultati.
Occorre dunque potenziare e qualificare il sistema di ricerca pubblico. A tal fine è necessario che: a) vi siano finanziamenti adeguati, certi, continuativi e non si debba rincorrere, come istituti e come singoli ricercatori, a committenze private; b) sia creato un sistema a rete capace, pur nel mantenimento delle varie strutture, di favorire lo scambio e l'accesso a dati e conoscenze (e perciò bisogna intervenire sull'attuale frammentazione e incomunicabilità tra strutture e ricercatori che è alimentata anche da veri e propri conflitti di interesse fra gruppi di potere); c) vi sia un potenziamento degli organici, il riassorbimento delle figure precarie, e una sostanziale uniformità di condizioni, con apertura di percorsi d'interscambio tra istituzioni di ricerca e università , in un regime contrattuale relativo al comparto ricerca che garantisca ai ricercatori nelle strutture pubbliche: status pubblico, assetti, funzioni; e introduca regole democratiche di funzionamento, adatte allo specifico lavoro delle comunità scientifiche.
Siamo altresì convinti che vada garantito uno spazio per la manifestazione e la soddisfazione di esigenze del territorio. Vanno per questo superate le attuali forme centralistiche di governo della ricerca, per pervenire alla costruzione di efficienti organismi rappresentativi di area, che sappiano individuare e perseguire le finalità sociali e ambientali espresse a livello locale e regionale, allo scopo di inserirle efficacemente nel contesto nazionale, europeo e internazionale.
Il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), in particolare, rappresenta, unitamente a vari altri enti di ricerca, un importante patrimonio che va difeso e ulteriormente valorizzato e sviluppato sulla base di tali principi, pervenendo a una sua strutturazione che esalti l'autonomia degli organi decentrati di ricerca e preveda al tempo stesso le idonee sedi di coordinamento disciplinare ed interdisciplinare.
Non possiamo non denunciare, d'altro lato, la grave situazione in cui si trova ormai da molti anni l'Ente per le Nuove tecnologie, l'Energia e l'Ambiente (Enea), il secondo ente pubblico di ricerca italiano. L'attuale situazione dell'Enea rispecchia la più generale situazione della ricerca pubblica in Italia, caratterizzata da un'estrema scarsità di finanziamenti pubblici e incertezza sui programmi e sulle strategie di fondo, che fanno della ricerca pubblica italiana la cenerentola nell'ambito dei paesi sviluppati. Per anni l'Enea ha potuto contare su un finanziamento statale annuo di 450 miliardi (contro i 1000 di 15 anni fa), sufficienti solo agli stipendi e al funzionamento "a vuoto" dei centri e delle sedi. Si è accentuata, in tal modo, la sua subordinazione agli interessi dell'industria privata, la sua "aziendalizzazione" e privatizzazione strisciante, che si manifestano, oltre che nella scelta degli argomenti di ricerca imposti dalle commesse, anche con partnerships industriali, joint-ventures, società miste. Il recente finanziamento di 200 miliardi stanziato dal governo per ricerche sulla tecnologia dell'idrogeno, sul solare fotovoltaico e altre tecnologie solari è un primo passo nella direzione giusta, per non disperdere e mortificare il patrimonio, inestimabile per il nostro paese, di capacità professionali e di risorse presente nell'Enea nel campo delle ricerche tecnologiche, ambientali, climatiche, energetiche, biomediche, bioagricole. Preservare e rilanciare l'Enea, metterlo al servizio del paese, significa dotarlo di un piano coerente e di finanziamenti pubblici certi. Significa altresì rivedere profondamente l'organizzazione del lavoro, eliminando la precarietà, e permettendo al personale di ricerca di avere certezza nella continuità del proprio lavoro, unica garanzia al mantenimento delle conoscenze e delle competenze scientifiche.
La situazione dei trasporti nel nostro paese è sotto gli occhi di tutti. Non a caso numerosi sondaggi indicano i trasporti come il primo problema degli italiani. In effetti tutti i giorni, lavorativi o feriali, gli automobilisti di auto e camion sono coinvolti in code sempre più lunghe, mentre gli utenti del trasporto collettivo subiscono disservizi, inefficienze, aumenti di tariffe.
Questo modello di trasporto inquina, sfrutta e distrugge l'ambiente, scarica la sua nocività sui cittadini, è consentito da salari sempre più bassi e sempre meno diritti per i lavoratori del settore. Questo tipo di trasporto scarica sulla collettività morti, incidenti, inquinamento acustico ed ambientale, congestione: costo totale oltre 200.000 miliardi l'anno. Novemila sono i morti sulle strade e 250.000 i feriti. Poco meno della metà di costoro muoiono o hanno incidenti mentre lavorano sulle strade, si recano o tornano dal lavoro. L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha recentemente stimato che in Italia, causa inquinamento da traffico muoiono prematuramente 3500 persone l'anno.
Il paradosso è che questi fatti negativi muovono soldi nella contabilità nazionale, vengono conteggiati come crescita del Pil. E il Pil rappresenterebbe la ricchezza ed il benessere del paese!
La situazione dei trasporti è peggiorata e tende a peggiorare da quando negli ultimi lustri si sta impiantando la nuova economia liberista, basata sulla diffusione nel territorio delle attività di produzione, nella trasformazione del camion in magazzino viaggiante, nella diffusione dei grandi centri commerciali, nella diffusione su tutto l'arco del giorno e della notte della produzione e consumo di merci e di servizi e quindi anche del lavoro. Il trasporto aumenta di varie volte l'aumento dell'attività economiche. Il paese dunque corre verso il collasso.
A fronte di questa situazione il centro destra ed il centro sinistra propongono grosso modo gli stessi programmi: le logiche di mercato devono sostituire in toto la programmazione perché il mercato consentirebbe a parer loro un cambiamento positivo del sistema dei trasporti; bisogna rincorre l'aumento della domanda di trasporto costruendo massicciamente nuove autostrade o ferrovie ad Alta velocità. In realtà il mercato favorisce il vettore che costa di meno perché scarica i costi sull'ambiente e la collettività: l'auto e i Tir. Non si avranno mai finanziamenti sufficienti per rincorrere la domanda di trasporto ed il nostro territorio è ormai saturo di infrastrutture: inoltre le infrastrutture da costruire non sono mai quelle più utili, ma quelle più costose, perché le scelte non le fanno gli utenti ma gli affaristi del cemento.
Questa del centro destra e del centro sinistra sono politiche irrealistiche, costose e che alla fine portano comunque i trasporti del nostro paese al collasso.
Il Prc ha presentato e ripresenterà nella prossima legislatura un proposta di legge per un Piano Generale dei Trasporti basato sulla politica di programmazione con le seguente finalità:
Applicare al mercato elettrico, meccanicamente, modelli di funzionamento ed assetti che derivano da altri mercati, trattando l'energia come una merce qualunque è profondamente irrazionale, per ragioni economiche, ambientali e sociali.
L'energia è un bene essenziale e strategico. Il servizio elettrico nazionale deve perciò rimanere sotto il controllo dello Stato. Solo attraverso il mantenimento della sua fisionomia pubblica può essere garantita l'unitarietà e la corretta ed efficace articolazione sul territorio. Solo in tal modo sarà salvaguardata l'autonomia del paese in questo settore così nevralgico e potranno essere predisposti e resi efficaci i necessari e urgenti nuovi strumenti di programmazione in campo energetico, a cominciare dall'assunzione concreta degli impegni di Kyoto relativi alla riduzione delle "emissioni serra". Dopo i molteplici fallimenti già verificati in altri ambiti (credito, assicurazioni, telecomunicazioni, agroalimentare, infrastrutture), sarebbe del tutto irrazionale ed estremamente grave procedere sulla strada intrapresa di privatizzazione, liberalizzazione e deregolamentazione del settore. Il Prc ribadisce altresì la propria netta opposizione a qualsiasi ipotesi di frammentazione del sistema in una molteplicità di soggetti che producano, trasportino e distribuiscano l'energia elettrica, che rischierebbe di rendere ingovernabile il sistema con gravi cadute di qualità nel servizio reso ai cittadini/utenti (basti vedere quanto sta accadendo in California dove la "deregulation" avviata nel settore elettrico è miseramente fallita imponendo un ripensamento sul rilancio del ruolo pubblico).
Per questa ragione, occorre, in primo luogo, arrestare il processo di svendita di Enel, riaffermandone il carattere pubblico e il ruolo di gestore nazionale del servizio elettrico; definire un piano industriale, che miri a ricostruire una struttura operativa unica, nazionale, verticalmente integrata, che salvaguardi l'occupazione nel settore, riavviando una politica di investimenti, che privilegi il parco delle centrali di produzione esistenti, con l'obiettivo di migliorarne la capacità produttiva riducendo l'impatto ambientale; riaffermare il principio della tariffa unica nazionale, salvaguardando l'esistenza di una "fascia sociale protetta" con tariffe contenute.
Occorre oltre a ciò definire un piano energetico nazionale che privilegi il risparmio, l'uso razionale dell'energia, l'impiego di energie rinnovabili; rilanci conseguentemente gli investimenti e la ricerca; ribadisca il rifiuto di fondo all'uso dell'energia nucleare; favorisca la scelta di combustibili meno inquinanti, come il metano, per far fronte alle trasformazioni, riconversioni ed ottimizzazioni degli impianti esistenti.
Nel nuovo quadro programmatorio, si dovrà inoltre promuovere e realizzare la gestione integrata dei servizi energetico ambientali su scala territoriale ampia (elettricità, gas, ciclo acque e rifiuti etc.), salvaguardandone la gestione pubblica, favorendo una collaborazione ed integrazione tra le aziende esistenti, puntando all'estensione di strutture efficienti e all'ampliamento e miglioramento dei servizi e dell'occupazione anche nel sud del Paese.
Proprio i settori innovativi (quelli, cioè, caratterizzati da una collocazione strategica per il futuro industriale di un paese) necessitano di un "governo" che non è possibile ridurre alla semplice sommatoria degli interessi delle singole strategie aziendali. È per questo motivo che l'intervento dello Stato non può limitarsi, soprattutto in questi settori, al semplice ruolo di garante della "libera" competizione.
La scelta di mettere in concorrenza lo sviluppo delle infrastrutture di rete, ben lungi dal produrre una diminuzione sostanziale del costo d'accesso, ha prodotto un'irrazionalità della progettazione delle risorse. Aree ad alta redditività hanno pagato in primo luogo in termini di inquinamento tale concorrenza, mentre aree a bassa redditività sono fornite di un servizio scarso ed inefficiente. Tale scelta ha prodotto, inoltre, livelli di concentrazione, in poche mani private, di beni che tecnicamente dovrebbero essere considerati indisponibili al profitto privato (si pensi all'utilizzo delle radiofrequenze che, con tali scelte, sono divenute di proprietà di soggetti a volta a controllo estero). Tutto questo rafforza i pericoli derivanti dalla possibilità di controllo di quella infrastruttura primaria di un paese rappresentata dal sistema di comunicazione. Per questi motivi avevamo proposto che almeno una delle licenze della telefonia della terza generazione (Umts) fosse destinata alla comunicazione no profit attraverso lo sviluppo di un settore svincolato da diretti interessi commerciali.
Inoltre, i temi del controllo della infrastruttura di rete da parte delle aziende, richiamano quello più generale del controllo sulla comunicazione effettuato dalle strutture di intelligence dei vari paesi. In questi anni è arrivata alla cronaca la vicenda relativa al sistema Echelon, ma strutture ancora più sofisticate sono già in funzione e sono in grado di registrare ogni nostra conversazione, ogni nostro spostamento (attraverso le cellule del telefonino). Il tema del controllo, nella società dell'informazione, diviene sempre più centrale per definire il grado di libertà di una società.
Nei prossimi anni, ad esempio, nel settore delle Tlc si determinerà un aumento dei livelli di discriminazione nell'accesso. I nuovi servizi, in assenza di una politica attiva e di una strategia pubblica, amplieranno il divario esistente, sia per censo, sia per mancata alfabetizzazione. Basta analizzare cosa accade, già oggi, intorno all'introduzione di Internet e cosa potrà prevedibilmente accadere con i servizi Umts e Wll. Le stesse infrastrutture di rete, necessarie a garantire la concorrenza nel quadro dei processi di liberalizzazione, sta producendo un forte sviluppo dell'inquinamento elettromagnetico. Invertire la rotta, attraverso un processo di riacquisizione delle frequenze e delle reti da parte di un'azienda pubblica, potrebbe garantire un forte contenimento dell'inquinamento e, quindi, dei rischi per la salute. Accanto a ciò, si potrebbero sviluppare sinergie di rete che la competizione aziendale impedisce, con un miglioramento delle prestazioni delle infrastrutture e un servizio a minor costo. Per il settore dell'Umts, ad esempio, Rifondazione Comunista aveva indicato l'affidamento di una delle licenze, messe all'asta nei mesi scorsi, per lo sviluppo di un settore no-profit legato ai nuovi servizi e ritiene ancora valida tale scelta.
Tutto il settore della produzione impiantistica, inoltre, potrebbe essere caratterizzato da una fase di consolidamento e di sviluppo, proprio per la scelta di far sviluppare la ricerca sui servizi a valore aggiunto italiani, direttamente sul nostro territorio. Tutto ciò, potrebbe essere collegato alla effettiva possibilità di utilizzo delle bande di frequenza da parte delle aziende.
L'Italia, inoltre, ha l'urgente necessità di una ricollocazione in un settore, come quello informatico, che lasciato alla libera concorrenza è rapidamente stato soffocato dai processi di concentrazione mondiale. Oggi, quasi tutto il software circolante è straniero e in mano a pochissime aziende. Per questo, è necessario aprire una fase nuova, partendo proprio dai bisogni di software della amministrazione pubblica, che potrebbe utilizzare e incentivare l'uso e la produzione di software "non proprietari". Intorno ad una tale scelta potrebbero prodursi spinte sufficienti a ravvivare un processo di re-industrializzazione nel campo informatico. È necessario, inoltre, invertire la scelta che permette la gestione dei dati informatici sulla fiscalità e l'Iva ad aziende private. Questi dati, non solo per la loro riservatezza, devono rimanere di diretta gestione dei ministeri competenti.
Per questi motivi, è necessario che il Parlamento sia chiamato a compiere una scelta di fondo sulla natura dell'industria della convergenza tecnologica nel nostro paese. I settori dell'informatica, delle telecomunicazioni, della produzione di contenuti (siano essi pure informazioni scritte o messaggi audiovisuali o, addirittura, multimediali) stanno producendo un nuovo e complesso settore nel quale finalità produttive, professionalità e merci, si ridisegnano in maniera incessante. In questo settore occorre scegliere quale ruolo il nostro paese può e deve svolgere.
Il tema dello sviluppo democratico della società dell'informazione, è legato alla possibilità che essa non produca effetti devastanti per la società del futuro. Infatti, il pericolo legato al suo sviluppo rimane duplice: da un lato i temi della esclusione dalle informazioni ricche e avanzate per la larga parte della popolazione e, dall'altro, quello della circolazione di contenuti sviluppati solo all'interno di interessi e logiche mercantili. Questi due limiti di uno sviluppo, che sono ben individuabili nelle modalità di affermazione di questa nuova rivoluzione industriale, riaffermano la centralità di un servizio pubblico. Proprio per ciò, occorre dotare la presenza pubblica di risorse certe e sufficienti per la missione affidatagli, come pure di un quadro normativo stabile e sicuro. Il nuovo servizio pubblico comunicativo, nella società dell'informazione, deve essere collocato proprio sulla frontiera fondamentale di garanzia del diritto a comunicare. Questo diritto, infatti, diviene sempre più collettivo oltre che individuale e, accanto a quello ad essere informati, costituisce una delle pre-condizioni per le garanzie democratiche nelle società del futuro. Proprio la rivoluzione digitale, del resto, impone tali diritti al centro di una nuova cittadinanza elettronica che deve essere ri-pensata come sviluppo democratico e di autogoverno.
La Tv pubblica non può essere schiacciata sul modello di puro intrattenimento di tipo commerciale. Occorre saper ri-progettare un suo ruolo nella società attraverso la consapevolezza della forte dimensione "diadattica", di "orientamento" e di "formazione" del mezzo radiotelevisivo. Per questo occorre un ruolo pubblico che sappia sviluppare elementi di criticità nella lettura della realtà.
La Rai, dunque, deve restare pubblica e occupare un posto centrale nella sfera produttiva di contenuti. Il servizio pubblico deve garantire la possibilità di rappresentazione della realtà sociale e lo sviluppo di contenuti non direttamente mercantili. Televisione, radio, cinematografia, nuovi media, sono i campi nei quali il servizio pubblico deve garantire l'effettivo superamento dei vincoli all'accesso e alla produzione di informazioni e contenuti che il sistema delle aziende produce concretamente nel suo operare.
Tutto ciò deve aprire la strada alla definizione di un nuovo statuto dei diritti della società dell'informazione, che non possono essere definiti solo dagli ambiti mercantili. Struttura e natura del servizio pubblico radiotelevisivo, allora, devono rimarcare tale scelta.
Ma la società dell'informazione pone altri e nuovi terreni di ri-definizione dei vecchi diritti. Sarebbe sufficiente accennare al problema della riproducibilità tecnica delle prove di colpevolezza nei processi. Oggi, spesso, si arriva a determinare la colpevolezza di un imputato in base alla lista delle sue telefonate, dall'ora, dal luogo di provenienza. Tutte queste informazioni sono, in realtà, un "file" ri-costruibile attraverso tecniche semplicissime e, in ogni caso, in mano ad aziende private che non possono essere depositarie di tale potere/diritto. Si pone cioè un problema gigantesco, aperto dai processi di digitalizzazione dell'informazione e, quindi, dalla loro ri-producibilità tecnica.
Il mondo dell'editoria è attraversato da una profonda necessità di ristrutturazione, sia sotto il profilo delle merci, sia sotto il profilo delle professionalità legate alla loro produzione. A tutto ciò è legata la qualità informativa del sistema nazionale del futuro, il suo pluralismo, la sua democraticità. Non va dimenticato, infatti, che a questa finalità non riducibile a merce sono legate le necessità sociali della informazione. In questo settore, allora, andrebbe chiusa una stagione aperta nel 1981 con la vecchia legge 416. Occorre, cioè, stabilire un nuovo principio: l'intervento pubblico deve garantire il pluralismo politico culturale e non assistere le aziende che producono profitti. Troppe risorse, infatti, ancora oggi garantiscono alti profitti a poche aziende e impediscono la sopravvivenza di testate che potrebbero rappresentare un salto in avanti sul terreno della rappresentazione culturale e sociale della realtà italiana.
Siamo, ormai, nel pieno di una crisi alimentare senza precedenti. Le tante emergenze in corso sono il manifestarsi in forma concreta degli effetti dell'impazzimento del sistema di mercato imposto all'agricoltura. Si mostrano in tutta la loro evidenza, così, gli esiti di scelte che, in nome del primato neoliberista, hanno voluto anche la produzione del cibo asservita alla logica del massimo sfruttamento delle risorse sacrificando a essa qualsiasi altro interesse: quello dell'ambiente, della salute, del lavoro.
Quello agroalimentare è uno dei settori sui quali ha un maggiore impatto l'attuale modello di sviluppo capitalistico: l'elevatissimo tasso di concentrazione nella produzione e nella distribuzione, acquisito dalle grandi multinazionali del settore, è stato realizzato a spese del contenuto di lavoro, cultura e socialità che ha tradizionalmente caratterizzato la produzione alimentare, per ottenere un prodotto dalle caratteristiche standardizzate al servizio del massimo profitto sul mercato.
E' stata così imposta un'idea di agricoltura finalizzata alla produzione per le esportazioni, da realizzarsi sui mercati ricchi; e che si svincola dalla relazione con il territorio e con la storia, con i processi secolari che hanno prodotto i cibi in relazione con i consumi espressi dalle culture territoriali. Un'agricoltura piegata alle esigenze dell'impresa che, in nome dell'assoluta preminenza del "mercato", riconosce all'intervento pubblico soltanto il compito di elargire incentivi e finanziamenti, magari da conquistarsi a ogni calamità o a ogni congiuntura sfavorevole, senza riconoscere alcuna responsabilità sociale all'attività privata e, quindi, senza controlli: fuori da ogni primato dell'interesse collettivo alla salute e alla qualità del lavoro.
E' questa, in una parola, l'agricoltura, voluta da questa forma del capitalismo mondializzato, che utilizza le stesse crisi che produce per rafforzare e concentrare ulteriormente il suo sistema di potere.
La crisi legata alla Bse, ad esempio, tocca particolarmente la condizione dei consumatori, perché agisce in un sistema di consumi alimentari già profondamente modificato, piegato all'uso pesante di proteine animali, e funzionale agli interessi dell'agricoltura continentale europea, cioè della produzione agricola senza terra e ad alto profilo industriale. L'allevamento, in questo caso, è stato reso uguale a una qualsiasi catena di produzione industriale. La produzione animale europea è ormai essenzialmente industria di trasformazione di materie prime importate: gli animali sono spinti a rese esagerate e innaturali: le proteine vegetali per la loro alimentazione non bastano più e si ricorre all'uso di quelle animali per aumentare la resa di bovini, maiali, polli, etc; l'allevamento è stato totalmente slegato dalla terra. La crisi attuale non è che è una delle tante, che si annunciano ricorrenti e hanno la forma del lungo periodo: si pensi a ciò che stanno determinando la mancata redditività delle produzioni ortofrutticole mediterranee e l'indebitamento delle aziende agricole meridionale. Essa avviene inoltre in un vuoto di rappresentanza dei soggetti che operano nel settore, che è legata alla sostanziale condivisione della competitività come caratteristica del governo del settore; e mette a nudo la mancanza reale di un progetto alternativo capace di darle sbocco fuori dalla contingenza e oltre la semplice rivendicazione dello stato di crisi. Anzi sembra prevalere, in questo quadro, la via che ancora una volta sceglie il mercato: quella di farne pagare i costi ai soggetti più deboli: le famiglie, i lavoratori, gli agricoltori.
Si riprodurrebbe, così, la regola dell'organizzazione del mercato agroalimentare che accumula in alto (mangimifici, multinazionali agroalimentari, grandi concentrazioni commerciali, ecc.) i profitti dell'intera filiera della produzione; e scarica in basso rischi e costi.
Si può agire in questa crisi lavorando per ricomporre una vasta platea di soggetti e interessi, che fino ad ieri sono stati divisi e frammentati, denunciando il fallimento del modello agricolo neoliberista e chiamando gli agricoltori, i tecnici, i lavoratori della filiera allargata, gli operatori della ricerca, i cittadini a rivendicare un'agricoltura fuori dall'attuale sistema di dominio agroalimentare, ripartendo dal territorio, dal lavoro, dalla qualità degli alimenti. Si può agire nella crisi di rappresentanza del mondo agricolo ponendo insieme il generale avanzamento dei salari e dei redditi agricoli, con il fine di valorizzare la funzione realmente produttiva contro i processi di finanziarizzazione o l'accumulazione destinata alla rendita. Si può farlo assumendo il primato dell'interesse collettivo, a partire dalla certezza della sicurezza alimentare e dalla conservazione del territorio; in definitiva rivendicando un'altra agricoltura fatta non per i sudditi del mercato ma per un altro sviluppo socialmente riconosciuto: che preveda una diversa distribuzione della terra (invertendo l'attuale tendenza alla concentrazione proprietaria), un governo dell'offerta, il rispetto dei cicli naturali, forme di conduzione basate sulla valorizzazione e la qualità del lavoro e non sul profitto.
Per arrivare a questo occorre però fissare alcuni punti, fondamentali per un nuovo modello della produzione del cibo, della sua distribuzione e del suo consumo e per una riforma della politica agricola che realizzi la "coesistenza pacifica" delle agricolture del pianeta, riaffermando, in contrasto radicale con la logica della globalizzazione, il principio della sovranità alimentare.
Questo principio può essere perseguito solamente attraverso la reintroduzione della possibilità di porre vincoli alle importazioni. Ciò vale soprattutto per i paesi meno avanzati e per i prodotti alimentari di base. Poiché, infatti, il sostegno al reddito è un privilegio dei paesi più avanzati, attraverso l'apertura forzata dei mercati alle importazioni si determina una inevitabile ed insostenibile pressione sui prezzi dei prodotti locali, e quindi sui redditi dei produttori. Le disparità di sviluppo possono dunque essere colmate solo attraverso una necessaria protezione del mercato e della produzione interni, che consente anche di ricostruire l'intero ciclo del prodotto alimentare e, quindi, di controllarne la qualità. Il conseguente riequilibrio dei prezzi, e di conseguenza dei redditi, permette inoltre una migliore distribuzione interna delle risorse a favore delle zone svantaggiate e di cicli produttivi multifunzionali utili all'ambiente ed all'occupazione.
In definitiva l'agricoltura deve essere mantenuta fuori dalle logiche liberiste dell'Organizzazione mondiale del commercio (Omc o Wto), per promuovere, al contrario, la sovranità alimentare dei territori.
Per questo oggi è fondamentale rispondere all'emergenza originata dalla Bse, fuori dalla logica dei due tempi e in modo da costruire le condizioni per un nuovo corso.
Per fare ciò è necessario definire alcuni punti su cui è possibile costruire un percorso unitario per uscire dalla crisi e per riformare radicalmente la politica agricola.
Introdurre un radicale cambiamento nelle politiche agricole europee.
La spesa agricola europea è orientata attualmente a finanziare l'agricoltura industriale, a rafforzare così il modello continentale e a spostare fuori dall'Europa le produzioni mediterranee. L'effetto previsto è quello di espellere entro il 2005 un milione e duecentomila aziende agricole nell'area dell'Europa del Sud (settecentomila addetti in Italia). Il cambiamento radicale degli orientamenti della spesa può essere utilizzato come leva per modificare l'impianto imposto a Maastricht e i suoi effetti in agricoltura. La spesa deve essere ridistribuita destinandola: per un terzo al lavoro (introducendo un parametro che consideri e valorizzi le unità di lavoro per unità di prodotto), favorendo così le attività agricole realmente produttive; per un terzo alla qualità, premiando gli standard di sicurezza e il raggiungimento di una qualità media delle produzioni; per un terzo al territorio, riconoscendo il ruolo decisivo dell'azienda agricola nel lavoro di manutenzione e cura del territorio e nella salvaguardia dell'ambiente, anche in aree non competitive.
Riaffermare il primato dell'interesse pubblico su quello del mercato.
Ciò significa affermare la prevalenza dell'interesse collettivo su quello dell'iniziativa privata che, anzi, deve assumere un criterio di responsabilità di fronte ai cittadini, da realizzarsi con l'adozione del principio di precauzione nei processi di produzione degli alimenti in qualsiasi segmento della filiera agroalimentare. Il principio di precauzione deve improntare le scelte conseguenti: di moratoria delle produzioni transgeniche, di massima cautela nell'offerta di cibi al mercato, di controllo rigoroso, includendo criteri di "tracciabilità" certa del'intero ciclo dei prodotti (cartellini effettivamente descrittivi, etc.). Il riconoscimento di un ruolo pubblico di orientamento e controllo deve avvenire attraverso la creazione di un'Agenzia Nazionale per la sicurezza alimentare (realizzazione dell'anagrafe bovina, ecc.). Deve inoltre essere realizzato un piano straordinario per la forestazione produttiva e per lavori di pubblica utilità finalizzati alla conservazione di contesti ambientali, uniti alla realizzazione di attività agricole in aree interne e alla riqualificazione ambientale nelle aree a sfruttamento intensivo compromesse dall'uso massiccio di prodotti chimici e di processi industriali.
Valorizzare il rapporto con il territorio.
Il cibo non è una merce: per questo l'agricoltura deve rimanere fuori dall'Omc (o Wto), come chiedono tutte le organizzazioni contadine dei Sud del mondo. Per questo va contrastato il modello che impone a questi paesi di produrre per le esportazioni e per i mercati ricchi, inseguendo il massimo profitto su scala mondiale e una standardizzazione estrema della produzione nel pianeta. Va invece affermata la scelta di un'agricoltura legata alla stagionalità dei prodotti, al ciclo corto ed al circuito corto (qui produco qui consumo, vera garanzia di qualità), favorendo i processi di filiera integrati nel territorio, i marchi di tipicità e il circuito di distribuzione che ne valorizza le caratteristiche.
L'acquisizione di clausole sociali sul lavoro.
Ovvero la realizzazione di misure e interventi che premino la qualità di lavoro (sia autonomo che dipendente) in tutte le parti della filiera collegata all'agricoltura, favorendo il rilancio dei salari e dei redditi agricoli, della qualità e delle garanzie del lavoro, per restituire ruolo ai protagonisti principali del processo agricolo e costruire un'alleanza con i consumatori. A questo fine si deve superare la logica dei contratti di riallineamento per i braccianti e delle politiche di esternalizzazione, di subcommessa e di precarizzazione nelle aziende di lavorazione agroalimentare. Fare ciò vuol dire puntare al consolidamento ed alla qualificazione del valore lavoro; e può permettere di costruire una rivendicazione comune agli agricoltori e ai dipendenti e di intervenire per l'adeguamento degli altri costi produttivi (sementi, materie prime, servizi, etc.) e per l'abbattimento di quelli improduttivi (rendite finanziarie, transazioni, etc.).
Misure per uscire dalla crisi della Bse.
Di fronte all'ampiezza della crisi, alla straordinarietà degli effetti che produce sul ciclo produttivo, in tutte le parti della filiera, e sulla condizione dei cittadini, va dichiarato con urgenza lo stato di crisi, per predisporre strumenti adeguati alle necessità di intervento. L'intervento finanziario, che va realizzato chiedendo la massima assunzione di responsabilità dall'Unione europea, ma, anche, intervenendo con adeguate risorse nazionali, deve essere condizionato a sostenere i soggetti produttivi più deboli nella loro necessità di recuperare autonomia e capacità produttiva; ad assicurare la certezza della sicurezza delle qualità prodotte; a prefigurare la fuoriuscita dalla deregolamentazione del settore e la definizione di un modello per il settore zootecnico alternativo a quello intensivo di tipo industriale. In questo senso le erogazioni devono contenere il vincolo dell'impegno a garantire nuove modalità di produzione in tutta la filiera, prima che essere orientate a compensare la mancata produzione. In particolare va difesa la condizione degli allevatori, che con il loro lavoro fisico sono prima garanzia di presidio nella filiera, sostenendone la necessaria riconversione verso una pratica zootecnica che ripristini il giusto equilibrio nel rapporto fra terra e quantità di capi allevati e ne difenda l'autonomia verso il settore industriale. Occorre sostenere gli allevatori per aiutarli a uscire da una sudditanza verso il settore industriale che nei fatti, e in un clima generale di deregolamentazione, attualmente finisce con l'imporre le proprie regole, costringendo la condizione agricola in una posizione subalterna e cercando di scaricare su di essa i costi.
Punti da assicurare sono: la certezza del contenuto dei cartellini che accompagnano i mangimi in maniera che sia chiara l'intera serie dei componenti e delle quantità percentuali; l'eliminazione totale e definitiva degli elementi di origine animale e di quelli vegetali con componenti transgenici nelle diete alimentari per animali da allevamento; la realizzazione urgente dell'anagrafe bovina in modo da consentire la realizzazione del piano di abbattimento previsto dalle norme comunitarie e nazionali (altrimenti impraticabile per l'impossibilità di realizzare i contributi previsti) e come base indispensabile per assicurare l'effettiva "tracciabilità" dei prodotti alimentari; la realizzazione di misure economiche integrative al contributo comunitario previsto per l'abbattimento, orientate alla riconversione verso metodi di tipo non industriale e alla ricostruzione del patrimonio zootecnico da realizzarsi con il recupero delle razze autoctone; il superamento del regime delle quote latte, fino a raggiungere l'autoapproviggionamento, in modo da garantire la ridistribuzione sull'intero territorio nazionale della pratica dell'allevamento bovino, contribuendo, così, a realizzare il corretto equilibrio fra quantità di animali allevati e terra utilizzata e una gestione corretta di intere aree montane e interne adesso inutilizzate.
Gli incentivi ed il sostegno alle altre parti della filiera, in particolare a quella di trasformazione, devono essere erogati in modo che: sia escluso da ogni provvidenza pubblica chi non abbia rispettato leggi e contratti, provocando la non trasparenza delle retribuzioni e ricorrendo al lavoro nero; si realizzi la fuoriuscita dai processi di destrutturazione avvenuti in questi anni con le pratiche dell'esternalizzazione e degli appalti illeciti, che hanno prodotto concorrenza sleale fra le imprese e disarticolazione del sistema di tutele e di diritti (contrattuali e di legge) dei lavoratori occupati; sia assicurato il funzionamento e il potenziamento della funzione della rete dei macelli pubblici per combattere le pratiche illegali o legate a scarsi controlli e, al tempo stesso, sia agevolato il processo di contrasto alla polverizzazione della macellazione potenziando la funzionalità e le garanzie di quelli già operanti; siano assicurate ai lavoratori, che rischiano per gli effetti della crisi la propria condizione di lavoro, misure di protezione.
In definitiva, puntare a realizzare trasparenza nei processi economici produttivi e un modello di agricoltura alternativo è la garanzia vera per la tutela della salute dei cittadini cui va assicurato, ad ogni modo, la certezza del potenziamento dei controlli sul piano sanitario e di un'organizzazione della produzione che garantisca, non come misura straordinaria ma come normale pratica, la tracciabilità dei prodotti e la sicurezza e la qualità degli alimenti.
Le catastrofi ripetute degli ultimi anni e mesi, prodotti dell'intervento umano nell'alterazione dell'ecosfera e nella trasformazione selvaggia del territorio, il disordine urbano ed edilizio, la gerarchizzazione classista dell'organizzazione delle città rendono necessaria una disciplina organica e rigorosa del governo del territorio, in aperto contrasto con le deregolamentazioni che si sono affermate in questi anni di liberismo.
La gerarchizzazione classista, dal centro alla periferia, delle città si è aggravata e si è allargato il divario tra chi dispone di tutti i servizi e chi non ne ha nessuno. Le città mostrano con evidenza tutte le forme di emarginazione che coinvolgono gli uomini e, insieme, altre specie viventi e, in particolare gli animali d'affezione.
L'urbanistica deve perciò assumere, più compiutamente, il compito di dettare norme, criteri e canoni di assetto del territorio a partire dal recupero, dalla manutenzione, riqualificazione e riuso delle sue parti compromesse, di quelle edificate prive di requisiti di qualità, vivibilità e fruibilità.
Per questo Rifondazione Comunista propone una riforma urbanistica che non si fermi al necessario rigore delle procedure ma che affronti i nodi del rapporto tra città e ambiente, tra uomo e natura in un'ottica di ricostruzione del nesso tra soddisfazione dei bisogni primari, come la casa, e domande più ricche che esprimono il bisogno di qualità nelle relazioni tra gli uomini, fra le funzioni produttive e quelle culturali e sociali, e tra tutte queste e l'ambiente naturale ed i viventi che lo animano. Per questo, anche in questo campo, occorre porre un freno ai processi di mercificazione, che ormai invadono anche la sfera della natura vivente, per recuperare e porre al centro i valori d'uso insiti nell'organizzazione sociale, culturale e produttiva delle relazioni tra l'uomo e il suo habitat naturale o costruito.
Nel rispetto delle funzioni trasferite alle Regioni, e nella valorizzazione della loro autonomia, la normativa nazionale deve definire con rigore e certezza i limiti, i tempi ed i modi degli interventi necessari e/o possibili, di trasformazione urbanistica, nonché regolare l'esercizio di poteri sostitutivi in caso di inottemperanza da parte dei Comuni e delle Regioni agli obblighi di corretto governo del territorio e uso dell'ambiente.
Elemento centrale di una moderna normativa nazionale è una nuova legge sul regime dei suoli che deve prevedere l'immediata disponibilità delle aree destinate agli interventi e alle trasformazioni, mediante forme di acquisizione pubblica rapide e certe. Si tratta liberare le scelte di sviluppo delle città dal condizionamento della rendita fondiaria. Questo è possibile attraverso l'esproprio, con una normativa chiara e di facile applicazione; ma anche attraverso il riconoscimento del valore catastale delle aree e il loro conferimento al patrimonio delle Società per la Trasformazione Urbana a controllo pubblico. La valorizzazione di dette aree potrà remunerare i soggetti economici che proporranno e attueranno le trasformazioni, i proprietari conferenti e consentire il finanziamento delle opere di urbanizzazione, nonché la realizzazione degli standard di qualità salvaguardia e ripristino di zone verdi, di aree di verde attrezzato, e creazione di servizi. In ogni caso, è indispensabile separare e distinguere la valorizzazione delle aree determinata dalla trasformazione urbanistica dall'acquisizione della rendita per rompere il meccanismo per cui la proprietà delle aree determina la gerarchia nelle città.
La legge nazionale deve fissare i limiti cui debbono attenersi le Regioni ed i Comuni nella definizione degli strumenti urbanistici di rispettiva competenza stabilendo che in nessun caso è possibile derogare alle norme di tutela ambientale e paesistica fissata dai piani e dalle leggi. A questa normativa dovranno uniformarsi tutti gli strumenti e gli istituti di programmazione negoziata, dai Contratti d'area, ai Patti Territoriali, ai Programmi di Recupero, ai Prusst (programmi di riqualificazione urbana per lo sviluppo sostenibile e territoriale).
La legge deve prevedere l'istituzione di un Osservatorio sul Governo del Territorio, con la partecipazione delle Regioni, che raccolga e fornisca elementi di conoscenza e indicazioni per la messa in sicurezza del territorio e per la definizione di misure che innalzino la qualità della vita nel territorio urbanizzato e in quello agricolo e naturale.
La legge deve fissare i parametri cui le Regioni ed i Comuni debbono attenersi nelle previsioni di crescita e nel dimensionamento del piano, in modo che tendenzialmente risulti soddisfatta la domanda quantitativa e qualitativa di abitazioni e la piena utilizzazione del patrimonio edificato. La completa accessibilità e fruibilità della città in tutte le sue strutture e funzioni, da parte di tutte e di tutti, è requisito indispensabile per la validità di ogni piano urbanistico.
La legge deve prevedere misure di incentivazione per la bonifica, il recupero e il riuso degli immobili compromessi aree e edifici specie nelle zone industriali dismesse anche attraverso la realizzazione di specifici consorzi di competenza delle Regioni.
Le legge deve prevedere il finanziamento dell'Edilizia Residenziale Pubblica con modalità che incentivino le Regioni a prevedere Istituti anche a partecipazione privata capaci di soddisfare la domanda sociale di alloggi in locazione per le fasce più deboli. A canone sociale per redditi annui pari al triplo delle pensioni minime e a canone convenzionale (non superiore al 5% del costo di realizzazione) per quelli non superiori a 80 milioni. La ricostituzione di un mercato pubblico delle locazioni è elemento fondamentale della costruzione di una città accogliente, capace di garantire parità di diritti e di condizione abitativa a tutti i suoi abitanti.
Le previsioni di aree, cubature e servizi per rispondere a tali esigenze sono comprese negli strumenti di piano ordinari e nei loro periodici aggiornamenti, superando la normativa della vecchia legge 167 e i piani Erp (Edilizia residenziale pubblica), che costituiscono attualmente isole spesso separate e dequalificate delle città. E' necessario fissare criteri e procedure cui le Regioni e Comuni debbano attenersi nel programmare piani di ristrutturazione urbana mediante piani di demolizione e ricostruzione di edifici, isolati e quartieri a basso livello di infrastrutturazione e servizi pubblici, in modo che i cittadini interessati siano partecipi e protagonisti e non oggetto passivo delle operazioni immobiliari e speculative, sui quartieri delle città, con conseguente emarginazione e snaturamento degli stessi.
Le procedure per le individuazione, definizione e approvazione dei piani urbanistici, di qualsiasi livello e natura, debbono essere assolutamente pubblicistiche e di competenza dei consigli comunali.
L'accelerazione delle procedure di elaborazione, approvazione e attuazione dei piani urbanistici deve derivare dall'ordinarietà e unicità degli strumenti di pianificazione e non dalla derogabilità delle procedure o dei vincoli.
La legge deve affermare che ciascun livello istituzionale è autonomo nel definire e approvare gli strumenti urbanistici di propria competenza, previa verifica di conformità alle normative e ai vincoli di competenza superiore e di compatibilità con gli strumenti analoghi delle istituzioni territoriali confinanti.
Le Conferenze di pianificazione debbono costituire la prassi ordinaria delle relazioni istituzionali. Lo Stato esclude dai finanziamenti pubblici, a qualsiasi titolo erogati, le Amministrazioni non dotate di strumenti urbanistici di governo del territorio conformi ed esercita i poteri sostitutivi per la loro definizione. Le Regioni operano analogamente verso le amministrazioni locali di competenza.
Le Regioni debbono costituire lo snodo centrale della pianificazione territoriale ed urbanistica nel rispetto delle norme di tutela ambientale, paesistica, storica, archeologica, idrogeologica. Le Regioni dettano le norme di governo del territorio di loro competenza in autonomia e nel rispetto reciproco con le Regioni confinanti.
La legge nazionale indica quali trasformazioni sono di competenza statale e devono essere definite attraverso i piani e con procedure alternative che coinvolgano, comunque, le Regioni interessate.
3.2.10 Piccole imprese e lavoro autonomo
Milioni di piccoli imprenditori e lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, agricoltori, e lavoratori autonomi nel terziario) che rispettano leggi e contratti di lavoro ed operano nella legalità sono costretti a pagare tasse e oneri sociali altissimi per colpa di chi abusa del lavoro nero e dell'economia sommersa.
In Italia, ogni anno, l'economia sommersa e il lavoro nero sottrae 500 mila miliardi all'economia legale; questo dato incide per il 27% sul PIL (la media Europea è del 12%). La Pubblica Amministrazione con la sua gigantesca burocrazia si accanisce quasi sempre in modo insopportabile contro questo mondo (quello regolare) mentre chiude occhi, orecchie e bocca nei confronti delle illegalità diffuse in tutti i settori dal nord al sud del paese. Le politiche realizzate sul terreno della lotta all'economia sommersa e lavoro nero è stata quasi sempre improntata a pratiche di condono e riduzione delle sanzioni che hanno sostanzialmente "incentivato" l'economia sommersa, anche nell'ultima legge finanziaria sono stati adottati provvedimenti in questa direzione e questo incentiva e aumenta le opportunità di ricorso al lavoro nero e sommerso. Queste politiche provocano una reazione negativa nel comportamento imprenditoriale e dei lavoratori autonomi perché minano alla radice l'etica della legalità favorendo la cultura della "concorrenza sleale".
Tutto questo si realizza in un contesto esasperante di una pratica "liberista" che a parole sembra corrispondere alle necessità di questo significativo comparto economico e sociale del paese ma che in realtà produce guasti e un'instabilità permanente che non consente un salto qualitativo adeguato e la crescita dei livelli dimensionali delle piccole imprese rispetto alle medie europee.
Queste pratiche creano le basi per una competizione in negativo sia sul piano europeo che internazionale, esaspera una contraddizione che la mette in crisi perché si basa sul principio di "invitare l'economia e gli uomini ad arricchirsi senza etica e regole", fino a far esplodere una guerra autodistruttiva nel sistema, che produce fenomeni giganteschi di illegalità che ne rendono impossibile il governo e che favoriscono la diffusione della penetrazione di varie forme di criminalità.
L'esempio della struttura economica e produttiva del sud rappresenta da questo punto di vista il risultato più eloquente; e non avendone invertito la tendenza, essa alimenta un analogo processo degenerativo anche al centro e al nord del paese.
Per rilanciare, con un programma riformatore alternativo, lo sviluppo su nuove basi, Rifondazione Comunista propone una strategia generale di intervento legislativo, programmato per uscire da questo circolo vizioso.
Una lotta senza quartiere contro l'economia sommersa e il lavoro nero, che reprima in modo efficace questo fenomeno e inasprisca le sanzioni; l'esatto contrario di quello che la destra liberista e la Confindustria intendono fare. Per ottenere ciò occorre potenziare i servizi ispettivi attuali assolutamente insufficienti (Guardia di Finanza, Ispettorati del Ministero del Lavoro, Inps, Inail), sperimentando anche forme di controllo sociale "di massa e dal basso": attribuendo funzioni specifiche anche ai poteri locali (Comuni), riconoscendo loro quote parziali ma significative delle risorse finanziarie recuperate con l'azione repressiva delle attività economiche e produttive illegali; ed elevando l'esigibilità dei diritti, sia collettivi che individuali, da parte degli stessi lavoratori dipendenti, fino a prevedere forme consistenti di risarcimento per il danno subito a causa del rapporto di lavoro irregolare. I comuni potrebbero prevedere la costituzione di fondi locali dove far confluire le risorse recuperate dalle attività sanzionatorie e di concerto con le rappresentanze sociali dei settori interessati deciderne l'uso locale a favore dello stesso mondo economico delle piccole imprese e del lavoro autonomo. Occorre quindi una nuove legislazione che tolga di mezzo la "convenienza" a praticare l'illegalità nell'economia e nel lavoro con provvedimenti efficaci sul piano della deterrenza nella lotta a questi fenomeni.
Una forte riduzione della pressione fiscale e degli oneri sociali per le piccole imprese che pagano correttamente le tasse e le retribuzioni ai lavoratori, destinando a questo obbiettivo le risorse recuperate dall'economia sommersa. Programmando un "rientro" graduale, quinquennale nella media Europea (dal 27% al 12%) dell'economia sommersa, le risorse aggiuntive nel bilancio dello Stato potrebbero superare i 100 mila miliardi annui. Tali risorse dovrebbero essere destinate per intero alla riduzione della pressione fiscale e dei contributi sociali; modulando tali interventi sulla base dei trend di recupero è possibile ipotizzarne una riduzione intorno al cinque-sei per cento.
La promozione di politiche efficaci e di servizi per le piccole imprese. Le piccole imprese e i lavoratori autonomi sono costretti a ricorrere troppo spesso a costosissime consulenze e ad assistenze di vario genere, che in molti casi hanno non pochi limiti qualitativi. Aiutare la nascita e la diffusione di consorzi misti, pubblici-privati, da costruire con il concorso delle rappresentanze sociali territoriali per offrire a questo mondo servizi di alto livello a costi contenuti è un obbiettivo realistico e credibile. Una legge quadro nazionale che assegna su queste problematiche risorse e funzioni importanti alle regioni e agli enti locali minori può rappresentare lo stimolo decisivo per avviare la realizzazione di una rete di questi servizi in tutti territori del paese.
Una formazione professionale e politiche salariali adeguate per garantire alle piccole imprese manodopera qualificata. In Italia la formazione professionale di manodopera qualificata e specializzata ha evidenziato limiti gravissimi. In varie parti del paese la piccola impresa ha serie difficoltà a reperire questo tipo di manodopera. Hanno pesato in tal senso, determinando un punto di crisi molto serio, da un lato, le politiche di bassi salari praticate negli anni ottanta e novanta e dall'altro, centri di formazione che non formano i giovani in rapporto alle esigenze specifiche professionali del mondo della piccola impresa. Una riforma generale della formazione professionale è urgente e necessaria; collegare le politiche formative a un reddito adeguato dei giovani che svolgono tali attività, sia nei centri di formazione professionale che nel processo lavorativo, è vitale per costruire le future generazioni di lavoratrici e lavoratori specializzati. Compito dello Stato e delle forze sociali interessate è quello di costruire un progetto credibile in questa direzione, abbandonando il metodo "usa e getta" verso la forza lavoro (occupata e inoccupata), soprattutto quella giovanile. Le risorse investite in questa direzione sia a livello nazionale che regionale dovranno essere molto più consistenti e soggette soprattutto a "verifica dei risultati concreti" in fase di bilancio di queste attività, responsabilizzando tutti i soggetti che concorrono alla realizzazione dei programmi; in questo senso va aggiornata sia la legislazione nazionale che regionale.
Certezza di accesso al credito agevolato e non, riformando in profondità il sistema creditizio per sottrarre il mondo della piccola impresa ai continui ricatti vessatori delle banche e combattere di conseguenza con più efficacia il fenomeno dei prestiti usurai, che piccoli imprenditori e lavoratori autonomi sono costretti a subire a causa della politica, fondata su "eccessive rigidità ed esasperanti garanzie", imposta loro dalle banche. A questo proposito proponiamo la creazione di un sistema creditizio specifico pubblico articolato a livello regionale, per sostenere la domanda creditizia delle piccole imprese, sia sul piano quantitativo che qualitativo, attraverso anche una semplificazione per l'accesso al credito.
Sburocratizzazzione degli adempimenti, attraverso l'attivazione degli "sportelli unici" su tutto il territorio nazionale, sostitutivi rispetto agli attuali servizi burocratici fortemente polverizzati e che costringono chi intende aprire o cambiare attività a defatiganti e costose procedure.
Regole contrattuali e legislative di tutela per le piccole imprese contoterziste nei confronti delle aziende committenti, consolidando ed estendendo i contenuti della legge sulla subfornitura che Rifondazione Comunista è riuscita a far approvare nella legislatura che si sta concludendo.
Una carta dei diritti per i piccoli imprenditori e il lavoro autonomo che dia a tutti i lavoratori autonomi e ai piccoli imprenditori certezze sulla esigibilità di diritti minimi sociali universali, a partire dalla realizzazione di una legge che dia certezza dei diritti al "popolo delle partite Iva" e alle prestazioni lavorative coordinate e continuative in ritenuta d'acconto.
Interventi sul mercato del lavoro per combattere il lavoro nero e semplificare le procedure burocratiche. E' necessario un intervento legislativo che modifichi le attuali normative che consentono surrettiziamente la pratica del lavoro nero, senza conseguenze sanzionatorie di particolare rilievo, a partire dalla abolizione dell'obbligo nella regolarizzazione del rapporto di lavoro entro "i cinque giorni dall'inizio della prestazione lavorativa": sostituendolo con "un obbligo immediato di regolarizzazione del rapporto all'atto dell'inizio della prestazione lavorativa", perché l'attuale normativa annulla di fatto ogni efficacia alla repressione dei comportamenti illeciti degli imprenditori scorretti, annullando di fatto l'efficacia degli interventi ispettivi degli organi competenti. Unitamente a questo tipo di intervento, è utile anche introdurre innovazioni sul terreno della sburocratizzazzione in materia di comunicazione delle assunzioni o cessazioni del rapporto di lavoro con una semplificazione delle procedure, prevedendo un unico ente di riferimento e controllo, rispetto alle attuali sedi multiple di riferimento (Inps, Ufficio per l'impiego, Inail, ecc.). In sintesi si tratta di eliminare le molteplici procedure burocratiche che consentono, incentivano o facilitano il lavoro nero.
Quale premessa alle proposte programmatiche sui temi monetari e creditizi, il Prc ribadisce un giudizio fortemente negativo sulle direttrici di fondo che hanno caratterizzato il processo di unificazione monetaria europea. L'unificazione monetaria europea, così come è stata concepita nel Trattato di Maastricht e sta concretamente realizzandosi, è stata incentrata su alcuni principi di evidente impronta monetarista e liberista. I paesi membri della Ume hanno, non solo rinunciato - per il rispetto dei famosi "parametri" - a una politica fiscale di sostegno della domanda e dell'occupazione, ma hanno abdicato anche la politica monetaria alla Banca Centrale Europea, la quale la esercita esclusivamente in funzione della stabilità del livello dei prezzi. Ciò significa che anche la politica monetaria, e in particolare la manovra del tasso ufficiale di sconto, viene esercitata prescindendo del tutto dai livelli di occupazione, oltre che dalle dinamiche distributive. Si tratta di una "filosofia" di politica economica la quale implicitamente assume che il mercato sappia trovare da sé la strada per lo sviluppo e che nega un ruolo significativo all'intervento regolatore dello Stato; e che ha mostrato in questo decennio - come già più volte, e drammaticamente, nella storia - il proprio fallimento.
L'impostazione monetarista del processo di unificazione ha inoltre pesantemente condizionato l'ampia ristrutturazione del sistema finanziario italiano. L'evoluzione conosciuta dal sistema bancario e assicurativo italiano costituisce uno dei casi più gravi ed eclatanti degli effetti distorsivi delle politiche di deregolamentazione e privatizzazione che hanno caratterizzato gli anni novanta.
La ristrutturazione del sistema finanziario e dei suoi assetti proprietari sono stati pesantemente condizionati da presupposti ideologici e coperti da questi - dai concreti interessi del grande capitale nazionale ed europeo. In tal modo, è stato consegnato al "mercato" ed ai "privati" il primato assoluto nel controllo e nella gestione di questo settore così nevralgico, negando, di fatto, un ruolo significativo a qualunque soggetto che sia (o possa essere) portatore di un interesse pubblico-collettivo e che non abbia, quindi, come propria esclusiva funzione-obiettivo la massimizzazione del profitto.
Nell'arco di un decennio è stata pressoché cancellata ogni proprietà pubblica. La funzione sociale del credito e della gestione del risparmio sono state annacquate, se non esplicitamente annullate. A questo riguardo, è da rilevare tanto l'ambiguità della funzione attualmente svolta dalle fondazioni di matrice bancaria quanto il "triste" ruolo che si sono ritagliate le autorità pubbliche italiane, attive solo come mero elemento di sostegno di questa o quella cordata imprenditoriale.
La disintegrazione della proprietà pubblica ha anche aperto il nostro sistema a gravi rischi di "colonizzazione". La ristrutturazione che ne è seguita, anche per questa ragione, è venuta caratterizzandosi come una corsa al raggiungimento di una dimensione media ritenuta idonea a ridurre il rischio di contendibilità del controllo da parte di operatori stranieri. Il processo di intense concentrazioni che ne è derivato, esclusivamente affidato ai meccanismi di mercato, sta generando una serie di "distorsioni" che non vengono denunciate da nessuna forza politica e spesso non sono note all'opinione pubblica.
Da un lato l'incremento della dimensione media delle banche ha generato un maggiore tasso di concentrazione e dunque una riduzione del grado di concorrenza, cioè un maggior potere di monopolio delle banche (risultato: la concorrenza si è intensificata solo sui segmenti "ricchi" della clientela; mentre per tutti gli altri c'è stato un generale appesantimento dei costi dei prodotti/servizi). Dall'altro i processi di concentrazione hanno anche determinato una perdita di contatto delle banche dalle realtà locali, che ha contribuito a disperdere un patrimonio professionale e a rendere sempre più difficile, costoso e razionato l'accesso al credito, soprattutto per le imprese medio-piccole.
L'effetto complessivo è stata una crescita del costo del denaro per tutte le fasce di utenza più deboli (piccole e medie imprese, lavoratori autonomi, famiglie), mentre sul piano generale è quantomeno dubbio il fatto che le concentrazioni stiano generando una crescita degli indici di produttività e redditività bancaria. In ogni caso, quello che è certo è che la ricerca dell'incremento della redditività è stata affidata, non tanto alla introduzione di innovazioni tecnologiche, quanto, piuttosto da un lato, al peggioramento delle condizioni imposte alle fasce popolari di utenza (la recente vicenda mutui rappresenta solo una delle manifestazioni più eclatanti, e non necessariamente la più grave, dello strapotere che le istituzioni finanziarie hanno nei confronti della clientela di massa e di ciò che significa affidare alle sole "regole del mercato" aspetti quali l'accesso al credito o la gestione del risparmio - finanziario, previdenziale, assicurativo); dall'altro, a una pressione sul salario e sulle condizioni di lavoro (nei rapporti di lavoro sono stati ridotti i livelli occupazionali, si sono intensificate le "esternalizzazioni" e sono peggiorate le condizioni normative e salariali, in particolare per i nuovi e i futuri assunti).
Anche sul piano territoriale il processo di ristrutturazione del capitale finanziario sta dispiegando effetti nefasti. La prova più evidente è la situazione sempre più grave in cui versa il sistema bancario del Mezzogiorno, divenuto pressoché interamente dipendente dai centri di potere del resto del paese. E' infatti proprio qui - dove dovrebbe essere concentrato ogni sforzo per sostenere lo sviluppo - che maggiormente è cresciuto il costo del credito, e il suo razionamento, per le imprese medio-piccole.
Da ultimo, il passaggio da un sistema bancario articolato e prevalentemente pubblico a un sistema concentrato e deregolamentato ha determinato una crescita del "rischio sistemico". Si tratta di una possibilità consistente, in particolare se si tiene conto, da un lato, dei complicati intrecci nelle proprietà azionarie, tra banche (e assicurazioni) e nei rapporti tra banche e imprese e, dall'altro, della crescita del ruolo giocato dal mercato finanziario e, in esso, della speculazione.
In conclusione, l'evoluzione del nostro sistema bancario sta determinando politiche monetarie restrittive, tentativi di incremento dei margini di profitto a scapito dei lavoratori e della clientela, razionamento del credito alle imprese medio-piccole e alle nuove imprese, ulteriore ritardo del sistema produttivo meridionale, crescita del rischio sistemico.
Questo processo va arrestato e letteralmente invertito, in tutti i suoi aspetti.
Altrove affrontiamo il tema complessivo di un generale ripensamento del processo di integrazione europea. Qui ci limitiamo ad affermare che, in questo ambito, è fondamentale che si affermi la necessità che le autorità di politica monetaria assumano, come prioritari, obiettivi di sviluppo e pieno impiego (anziché obiettivi antinflazionistici e di cambio) e che operino conseguentemente mediante la riduzione del costo del credito e l'allargamento della base monetaria. Ugualmente necessario è che si rafforzino gli ambiti di autonomia già riconosciuti alle banche centrali nazionali all'interno del sistema della Banca centrale europea (attraverso normative nazionali e proposte a livello comunitario).
Sul piano nazionale andranno, comunque, ridefiniti, potenziati e rinnovati gli strumenti pubblici d'indirizzo, controllo e intervento sul sistema finanziario, creditizio ed assicurativo, allo scopo di garantire un più equo e democratico sviluppo del settore finanziario, di correggere le distorsioni presenti nei processi di selezione e destinazione del credito e di riaffermare la sua fondamentale funzione sociale.
In merito ai processi di ristrutturazione e consolidamento essi andranno valutati sulla base degli interessi del paese, delle collettività locali, dei lavoratori e dell'utenza; e sottratti a una logica che risponde soltanto agli interessi del grande capitale, della speculazione finanziaria, di ristretti gruppi dirigenti. Vanno impediti quando producano un eccessivo grado di concentrazione (anche mediante efficaci normative antitrust) e/o pesanti ricadute occupazionali; comportino un ulteriore drenaggio di risorse dalle aree più deboli del paese (ed in primo luogo dal Mezzogiorno) verso quelle più forti; o determino un'internazionalizzazione del settore (pure necessaria) puramente passiva e subalterna.
Politiche di accesso agevolato al credito devono essere sviluppate, in collegamento con il rilancio di un piano d'investimenti pubblici, in particolar modo nei nuovi settori individuati nell'ambito delle politiche industriali (settoriali e/o territoriali).
La creazione di nuove imprese e di nuova occupazione andrà promossa attraverso un adeguato rifinanziamento di tutti gli esistenti strumenti legislativi ed operativi già esistenti e attivando nuovi strumenti sia finanziari (tassi agevolati) che operativi (servizi e garanzie). In particolare devono essere sostenute società cooperative, imprese no-profit, imprenditoria giovanile e femminile, piccole imprese e lavoro autonomo.
Altre misure di democratizzazione dell'accesso al credito possono essere introdotte favorendo il ricorso a prestiti a medio-lungo termine e creando le condizioni affinché il credito venga concesso basando le valutazioni, non solo sulle garanzie reali, ma anche e soprattutto sulla validità dei progetti d'investimento finalizzati allo sviluppo economico e sociale del territorio.
Nell'ambito delle politiche di tutela della clientela deve essere garantita la massima oggettività e trasparenza nel sistema dei controlli. In particolare, al fine di tutelare le fasce di utenza più deboli (piccole imprese, artigiani, famiglie), vanno ampliate le normative atte a colmare le asimmetrie informative ed operative fra banche e clientela.
Oltre a rafforzare e a rendere rigorose e trasparenti le attività delle autorità di vigilanza (Banca d'Italia e Isvap), deve essere prevista l'istituzione di un Osservatorio pubblico sul costo e la qualità dei servizi finanziari, con poteri sanzionatori e di controllo. In esso devono trovare adeguata rappresentanza, oltre all'Abi, rappresentanze dei consumatori, dei lavoratori, delle piccole e medie imprese, dei lavoratori autonomi. Compiti dell'Osservatorio dovranno essere, tra gli altri: il monitoraggio dei costi dei vari prodotti/servizi finanziari; la definizione di standard minimi di efficienza e di costi massimi per l'utenza relativamente all'erogazione di servizi "sociali e pubblici". Nel campo d'indagine dell'Osservatorio devono essere ricomprese anche le attività del Bancoposta; e a questo riguardo è necessario definire una strategia complessiva per le attività finanziarie dell'operatore Poste (Bancoposta) che non risponda solo a logiche aziendali ma a finalità di interesse generale, garantendone ovviamente il mantenimento del controllo nell'area pubblica. Particolare attenzione andrà dedicata anche alla regolamentazione di un settore in forte espansione, quale l'e-banking (vendita on line di prodotti finanziari), in modo tale che le opportunità di sviluppo non vadano ad esclusivo vantaggio degli operatori finanziari e non introducano ulteriori disparità di trattamento e distorsioni nel processo di allocazione del credito e di gestione del risparmio.
Per evitare, in futuro, il riproporsi della vicenda "mutui", la legge deve prevedere l'obbligo di rinegoziazione automatica delle condizioni (a costi ridotti e prefissati) qualora il tasso concordato alla firma del contratto venga a trovarsi al di sopra della soglia "usuraria".
Il processo di liberalizzazione delle tariffe (RC Auto) deve essere attentamente monitorato e finalizzato a calmierare i costi per l'utenza. Vanno pesantemente sanzionati i cartelli tra società ed impediti aumenti delle tariffe superiori al tasso d'inflazione programmato.
Per quanto attiene al risparmio previdenziale, il Prc ribadisce un giudizio estremamente negativo sulla "controriforma" del sistema previdenziale pubblico e sulla legge istitutiva dei Fondi Pensione. In ogni caso, in tale contesto, va per lo meno affermato il principio che, non necessariamente, le forme di risparmio previdenziale complementare "a capitalizzazione" debbano essere gestite da privati e secondo logiche strettamente di mercato. Proponiamo, pertanto, l'istituzione presso l'Inps (o altro ente pubblico) di un Fondo per la Previdenza Complementare, connotato da precisi indirizzi gestionali, al quale possano liberamente aderire lavoratori di ogni categoria.
Anche nel settore delle esattorie, come più volte denunciato dal Prc, la riforma che ha, di fatto, privatizzato la riscossione delle imposte sta producendo gravi danni sia agli utenti che all'erario, determinando nel contempo una pesante caduta del controllo pubblico sull'attività esattoriale. Le macroscopiche disfunzioni dell'attuale sistema (con commissioni di riscossione fino al 30%) costituiscono evidenti prove dei guasti derivanti dalla dissennata privatizzazione della raccolta di denaro pubblico. E' necessario, quindi, rivedere profondamente la legge di riforma e richiedere, da subito, un serio controllo sui Concessionari attraverso il recupero delle finalità che caratterizzano la legge istitutiva del Consorzio nazionale concessionarie e contrastando il depauperamento del patrimonio tecnico-funzionale di questa azienda.
Per tutelare i lavoratori del settore, è necessaria la revisione della legislazione che regola cessioni di attività/rami d'azienda (e in particolare l'art. 47 della Legge 428 del 29/12/90), che viene utilizzata per sospingere i lavoratori coinvolti in tali processi verso uno strutturale peggioramento del loro trattamento normativo e salariale e/o la perdita dei diritti sindacali, nel caso di trasferimento in aziende con meno di quindici dipendenti. Sono queste, naturalmente, esigenze di carattere generale ma che, in questi anni, acquisiscono una particolare rilevanza proprio con riferimento ai processi di ristrutturazione in atto nel settore creditizio ed assicurativo. Processi che vengono attivati da soggetti che, in genere, presentano bilanci floridissimi, che sono stati, nel recente passato, "assistiti" con denaro pubblico e che hanno l'esplicito scopo di diminuire il costo del lavoro. Per le società appartenenti a gruppi bancari ed assicurativi che abbiano significativamente diminuito i propri livelli occupazionali attraverso cessioni di attività/rami d'azienda e/o ricorrendo al "Fondo esuberi bancari" (o ad ammortizzatori sociali a carico dello Stato) va inibita, per tre anni, la possibilità di ricorrere a forme di assunzione attraverso "contratti atipici" beneficiando delle relative agevolazioni contributive pubbliche. Occorre inoltre ricomprendere i rischi per le lavoratrici ed i lavoratori, derivanti da fatti criminosi svoltisi all'interno dei luoghi di lavoro (rapina), tra le materie disciplinate dalla legge 626.
Infine, deve essere attentamente seguita l'evoluzione del sistema bancario - tanto in relazione alla crescita della dimensione media delle banche quanto alle relazioni tra di esse - e del mercato finanziario per scongiurare una crescita significativa del rischio sistemico. A questo riguardo, deve essere proposta, su scala Europea, l'introduzione di una Tobin tax.
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