Sul terreno dello stato sociale, lo stato italiano fornisce una quantità e qualità dei servizi del tutto inadeguata rispetto ai bisogni sociali, in particolare con riferimento ai bambini, agli anziani e ai disabili.
La politica praticata dal centro sinistra che non è altro che una variante moderata dell'ipotesi di stato minimo avanzata dalle destre - consiste nell'affiancare una politica dei tagli dei servizi ad una politica di vera e propria ristrutturazione del ruolo e delle funzioni dello stato.
Questa ristrutturazione - che potremo definire un passaggio dal welfare al workfare - non è quindi caratterizzata solo da un elemento quantitativo (la riduzione dei servizi) ma si connota come una modifica qualitativa, di ridisegno complessivo del ruolo dello stato nell'accumulazione capitalistica e cioè nell'intreccio tra produzione e riproduzione sociale.
Il punto fondamentale di questo passaggio è l'intreccio tra le politiche di precarizzazione del lavoro e la riduzione dei diritti certi ed esigibili sul terreno dei servizi.
Le leve di questa ristrutturazione sono le seguenti:
Questa operazione di ridisegno del ruolo dello stato secondo i dettami del neo liberismo imperante vede il terreno dei servizi come un terreno privilegiato, con l'obiettivo dichiarato della costruzione ex novo di un mercato dei servizi. Si tratta di una operazione strutturale in cui scompare lo stato sociale in quanto tale - per come storicamente si è costituito - per passare ad uno stato minimo, garante del funzionamento di un mercato dei servizi.
Il punto di fondo di queste politiche è la tesi secondo cui l'inefficienza e la rigidità dello stato possono essere superati attraverso il ricorso alle virtù terapeutiche della concorrenza e del mercato da un lato e alla vitalità dei corpi sociali intermedi (famiglia, cooperative, volontariato, carità pubblica, ecc.) dall'altra. Questa tesi cioè svapora il ruolo dello stato da un lato fornendo opportunità di profitto al mercato e dall'altro scaricando i costi sulla società, in particolare sul lavoro di riproduzione e di cura gratuitamente assolto dalle donne in famiglia. E' l'aggiornamento della antica ipotesi stato-mercato.
Gli effetti di questo progetto sono destinati a intervenire in profondità e a cambiare il terreno del confronto politico. Su questa base, infatti, i cittadini da soggetti titolari di diritti diventano clienti sovvenzionati di un mercato dei servizi cui devono apportare risorse proprie. Lo stato interviene nel sostegno della domanda sul mercato dei servizi in modi che prefigurano e determineranno una ulteriore frantumazione sociale. Per la fasce più ricche della popolazione si incentiva l'acquisto di servizi di qualità, attraverso detrazioni fiscali. Per il lavoro dipendente stabile si stimola la creazione di "mutue volontarie", il cui moltiplicarsi aumenterà le disuguaglianze nell'accesso ai servizi. Per le fasce più povere si prevede i meccanismo dei buoni servizio, degli aiuti alla famiglia per acquistare servizi poveri da una parte del terzo settore e soprattutto per riattivare pesantemente il lavoro non pagato delle donne all'interno della famiglia. Avremo così tanti sistemi pensionistici, tanti sistemi sanitari, tanti sistemi assistenziali, tanti sistemi educativi, diversi da luogo a luogo e da categoria a categoria. La stesa nozione di cittadinanza viene così a perdere di significato, in quanto non dà più luogo a una eguaglianza, almeno teorica, di diritti.
Noi riteniamo invece che la razionalità dello stato sociale non si ricostruisce nel confronto con le leggi di mercato ma nel confronto con i soggetti portatori dei bisogni sociali e con i lavoratori impegnati nella produzione dei servizi, per una estensione dei servizi medesimi e contro la logica dei trasferimenti monetari. Puntiamo cioè a coniugare l'aumento della spesa pubblica e il mantenimento di una responsabilità integralmente pubblica e statale nella garanzia dei diritti sociali - che si realizza attraverso la progressività delle aliquote sul piano fiscale - con forme estese di autogestione del lavoro nei servizi e di controllo sociale degli utenti sui funzionamento dei servizi medesimi. Vogliamo quindi raccogliere fino in fondo il protagonismo che esprime la società civile, ma non nella forma del mercato, che determina lavoro servile o per scaricare sulla società i costi della riproduzione sociale, bensì per attuare una effettiva socializzazione dello stato sociale.
In questo modo vogliamo superare il Welfare che storicamente abbiamo conosciuto in una direzione che da un lato rende certa l'esigibilità dei servizi e dall'altro risponda all'esigenza della personalizzazione della prestazione, alla domanda di "presa in carico" che i cittadini rivolgono ai servizi pubblici.
Il servizio sanitario nazionale ha incisivamente migliorato le condizioni di salute della popolazione, che sono superiori alla media dei paesi industrializzati, nonostante un'incidenza della spesa sanitaria sul Pil inferiore alla media. Tuttavia, il progressivo contenimento della spesa pubblica ha indotto gravi e pesanti disuguaglianze sociali, che senza un'inversione di tendenza sono destinate ad approfondirsi. Mentre è significativamente aumentata la speranza di vita media della popolazione, l'operaio torinese vive mediamente un anno di meno che dieci anni fa. Inoltre, è dimostrato che è la media e alta borghesia a usufruire in maniera più intensiva e diversificata dei servizi pubblici più qualificati (istruzione superiore, medicina specialistica, servizi per la promozione e il benessere e la qualità della vita), mentre i ceti popolari fanno un uso dei servizi pubblici tendenzialmente limitato all'assistenza, ai servizi di base e all'emergenza (istruzione dell'obbligo, medico di base, pronto soccorso, medicina generica), polarizzandosi intorno ai servizi a offerta universale non sottoposti a tasse o ticket o costi aggiuntivi.
Questa condizione, comune a tutti i paesi industrializzati, non può restare confinata nelle "serie" delle rilevazioni statistiche: richiede azioni e interventi tempestivi e coordinati, a partire dalla messa in sicurezza degli ambienti di vita e di lavoro e dalla rimozione delle diseguaglianze nell'accesso ai servizi sia sanitari che sociali.
La riduzione ai minimi termini dei servizi a offerta universale colpisce non solo i ceti sociali più deboli ma la particolarità delle condizioni, la peculiarità delle infermità e delle disabilità, la specificità dei territori.
Tutte queste condizioni sono attraversate da ulteriori, profonde, disuguaglianze di genere, in cui proprio il diverso ruolo sociale, in particolare la responsabilità, che ricade spesso sulle donne, dell'assistenza ai familiari, conviventi, amici e vicini, e le limitazioni dell'autonomia economica e personale che caratterizza spesso ancora la loro condizione, concorrono a penalizzarne il reddito, la salute, la qualità della vita; in particolare delle donne nelle fasce sociali più deboli, con effetti particolarmente vistosi nell'età più avanzata.
Queste disuguaglianze si accentuano e assumono connotazioni particolari in relazione alla cittadinanza d'origine. In assenza di servizi di mediazione culturale la parificazione degli immigrati e delle immigrate ai cittadini e cittadine italiani nell'accesso ai servizi sanitari sociali è del tutto formale. Inoltre, viene riconosciuta solamente se la presenza in Italia è correlata a motivi di lavoro e corredata da permesso di soggiorno in regola o in corso di regolarizzazione, ed è subordinata a regolamentazione regionale. Un' idea, insomma, di cittadinanza come corollario del lavoro, che trascende l'esistenza materiale delle persone.
Per altro verso, un'idea di cittadinanza centrata non sulla persona ma sulla famiglia e sul reddito del nucleo familiare di convivenza anziché della persona che, comportando un'esclusione di massa dall'accesso a servizi universali e gratuiti, colpisce direttamente tutta l'area del lavoro dipendente.
Non basta perciò affermare il principio astratto dell'universalismo dei diritti, bisogna rimuovere le disuguaglianze, indirizzando le risposte sui bisogni della persona e definendo una sfera di diritti individuali certi ed esigibili.
Questo obiettivo si scontra con la tendenza, di nuovo prevalente in medicina e nella scienza, ad espropriare le persone malate e più in generale tutta la popolazione dalle decisioni individuali e collettive che li riguardano. La rivendicazione di libertà della ricerca da parte di scienziate e scienziati che tornano a ritenersi "neutrali" condiziona ormai la sfera politica istituzionale, riuscendo a circoscriverla nell'amministrazione tecnica e tecnicistica dell'esistente. Ricerca ed evoluzione tecnologica vengono così sottratte alla partecipazione e al controllo della collettività e presentate come miracolistiche, risolutrici di qualsiasi rischio o forma morbosa, trascurando lo spazio culturale, per proiettarsi tutte sulla dimensione economica e ridurre la crisi della medicina e della sanità, più in generale la crisi del Welfare, a crisi economica, di inadeguatezza delle risorse e inefficienza degli interventi.
Proprio su questa base si è giustificata l'introduzione del sistema di rimborso delle prestazioni a tariffa (DRG) nel rapporto tra ente pubblico e amministrazione ospedaliera. Un sistema che ha spinto le aziende, ma in primo luogo i privati convenzionati, a indurre bisogni, e quindi richieste di prestazioni, indipendentemente dalla dimostrazione della loro efficacia diagnostica e terapeutica, facendo lievitare la spesa sanitaria senza corrispettivi di salute.
Se la recente riforma sanitaria ha posto un argine a questa tendenza, non si è certo esaurita la spinta dissolutrice del sistema sanitario pubblico a offerta universale rappresentata da un sistema di retribuzione dei servizi, mutuato dai sistemi assicurativi volontari e privati vigenti negli U.S.A. e in altri paesi europei, che costituiscono, tra l'altro, con i fondi pensionistici, una delle principali fonti di approvvigionamento per le grandi speculazioni finanziarie internazionali.
La battaglia per la riqualificazione e il rafforzamento del servizio sanitario pubblico e per l'allargamento dei servizi pubblici sociali non sarà perciò facile, sottoposta com'è all'onda d'urto dei processi di privatizzazione realizzati dalle destre, con i tagli dei fondi sanitari regionali e l'accreditamento generalizzato e indistinto di soggetti e strutture private.
Nella corsa alla privatizzazione dei servizi sanitari e sociali il principio di sussidiarietà orizzontale è un punto di snodo del processo di smantellamento del Welfare. Su questo terreno la legge di riordino dei servizi sociali, recentemente approvata sulla base di un accordo tra il Centrosinistra e il Polo, ha ridefinito il ruolo dello Stato in un quadro generalizzato di deregolamentazione dei diritti: lo stato interviene solo sui bisogni che non possono essere soddisfatti dal mercato, dai corpi sociali intermedi, dalla beneficenza pubblica, dalle donne in famiglia. Il fatto che, in attuazione di questa legge, gli assessori regionali ai servizi sociali abbiano concordato un travaso del 10% delle risorse dal fondo sanitario a quello sociale e attivato le procedure per la privatizzazione delle Ipab (Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza), il cui patrimonio residuo ammonta a oltre 40 mila miliardi, conferma la critica radicale e di impianto che ne ha fatto Rifondazione Comunista. La legge, sprovvista di finanziamento, dopo aver derubricato il diritto all'assistenza sociale a generica "priorità" degli interventi a favore delle fasce sociali più deboli, è ora lo strumento attraverso cui le destre aggrediscono il diritto universale alla salute. Essa ha posto le premesse culturali e politiche, prima ancora che giuridico-formali, per il trasferimento delle persone anziane con malattie croniche e mentali dalla sanità (diritto alle cure gratuite a carico del fondo sanitario nazionale) all'assistenza (nessun diritto certo ed esigibile).
Emerge qui in tutta evidenza il limite interno alle politiche sociali del centrosinistra, che ha contribuito a costruire questo scenario, circoscrivendo l'esigibilità dei diritti sociali fondamentali all'interno di considerazioni di natura economicista: la potestà di disporre del fondo sanitario e sociale è stata attribuita alle Regioni senza che le stesse fossero dotate di risorse adeguate agli obiettivi della legislazione nazionale.
Il primo obiettivo deve essere perciò l'aumento del fondo sanitario nazionale e l'allineamento della spesa sanitaria ai livelli europei. Su questo terreno, l'eliminazione dei ticket sanitari sui farmaci e su alcune prestazioni diagnostiche è un risultato significativo proprio perché è stata garantita attraverso un rifinanziamento del fondo sanitario nazionale, ed è questa la strada per loro totale e definitiva soppressione. I ticket rappresentano una distorsione del principio solidale e ridistribuivo del sistema sanitario pubblico finanziato attraverso la fiscalità generale; la loro soppressione rappresenta una garanzia per l'universalità dei servizi sanitari e un primo passo per il rafforzamento e il rilancio del servizio sanitario nazionale, invertendo la rotta rispetto alla privatizzazione della sanità.
Al contrario, il sistema sanitario pubblico deve essere potenziato, riorientandolo intorno alla centralità della salute anziché della malattia, a partire dalla prevenzione, che deve essere assunta come questione politica generale e non come semplice questione medica, rendendo operativa la destinazione in questa direzione del 5% del fondo sanitario. Non è solo questione di diagnosi precoce, che pure può essere garantita solo dal servizio pubblico a offerta universale e gratuita, come dimostra il divario del Mezzogiorno - afflitto da croniche carenze strutturali del sistema sanitario pubblico - nella diagnosi tempestiva delle malattie oncologiche e dei tumori femminili, in termini di mortalità evitabile. E' anche questione della sicurezza degli alimenti e degli ambienti di vita e di lavoro. Il morbo della "mucca pazza", come già la vicenda dei "polli alla diossina", rimandano a un problema di fondo, connesso con l'industrializzazione dell'alimentazione e con il ricorso alla chimica in agricoltura e la conseguente diffusione di allergie correlate alla presenza di additivi nella filiera alimentare, nonché con gli organismi geneticamente modificati, di cui deve essere impedita la commercializzazione, potenziando e riqualificando i servizi ispettivi e garantendo il diritto all'informazione dell'utente.
Allo stesso tempo, bisogna fermare la recrudescenza degli infortuni e delle malattie professionali, ricostruendo le condizioni per la piena attuazione delle norme sulla salute e sulla sicurezza sul lavoro e proseguendo la mobilitazione contro le produzioni di morte, dall'amianto al CVM (cloruro di vinile monomero). Occorre per questo superare la propensione emergenzialista sugli infortuni e sulle malattie professionali. Il rapporto tra condizione di lavoro e rischio di malattia e di infortunio deve essere indagato, riconosciuto e rimosso azienda per azienda, con una più forte attenzione alla specificità del corpo femminile. La mancata prevenzione degli infortuni e delle malattie del lavoro produce sofferenze umane incalcolabili e ha costi economici quantificati in non meno di 55 mila miliardi l'anno; e il vero risparmio, di vite umane in primo luogo, ma anche economico, si può conseguire solo aumentando la spesa per la prevenzione. Occorre per questo procedere alla riforma dell'Inail, che va trasformata da azienda che assicura l'impresa che produce infortuni in istituto per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali.
Così come occorre rendere effettiva, anche nei confronti del ricatto d'impresa, lautodeterminazione delle donne sul proprio corpo e sulle scelte procreative, colmare le inadempienze e le carenze dei servizi per la tutela della maternità e per l'interruzione volontaria della gravidanza, potenziare e riqualificare i consultori familiari, diffondendoli su tutto il territorio nazionale, dotandoli di risorse finanziarie e professionali adeguate e qualificate anche sul versante della mediazione culturale, riproponendo forme di partecipazione e di controllo dal basso.
Nel quadro più generale del diritto alle cure sanitarie deve essere definitivamente e positivamente riconosciuto il diritto alle cure sanitarie delle persone non autosufficienti, colpite da malattie croniche, mentali e da malattia di Alzheimer, che non possono essere dimesse dagli ospedali senza garanzia di prosecuzione delle cure a carico del servizio sanitario, attraverso il potenziamento e la diffusione dei servizi di assistenza domiciliare e di ospedalizzazione a domicilio, quando ci sono le condizioni e il consenso della persona interessata e della famiglia.
La soddisfazione di questo diritto richiede però di intervenire sul piano dell'organizzazione del sistema sanitario pubblico, per superare le situazioni di precariato, sia del personale infermieristico che medico, potenziando gli organici, affrontando l'emergenza infermieristica e definendo una chiara divisione tra il personale che lavora per il sistema pubblico e quello che sceglie la libera professione.
Per i casi in cui sia necessario il ricovero occorre comunque diffondere e potenziare le Residenze Sanitarie Assistenziali, anche attraverso la riconversione dei piccoli ospedali; e rimuovere le disuguaglianze nell'accesso. A tal fine occorre fissare un tetto alle rette richieste per il ricovero, commisurandole al reddito della persona malata, con esenzione per le pensioni sociali e i redditi equivalenti, ed escludendo ogni altra forma di prelievo nei confronti della persona interessata e dei suoi familiari.
Su questo terreno, occorre portare ad attuazione l'impegno preso con la mozione approvata all'unanimità nel corso della prima Conferenza nazionale sulla salute mentale. In particolare, deve essere garantito il diritto alla riabilitazione e alla cura a tutte le persone affette da disturbi psichiatrici, compresi i disturbi cronici e le non autosufficienze, a carico del servizio sanitario pubblico, senza partecipazione a qualunque tipo di spesa aggiuntiva, alberghiera o altro, né di loro stessi, né dei loro parenti, indipendentemente dalla loro provenienza (dal territorio o da ex ospedali psichiatrici). Il coinvolgimento e la partecipazione delle famiglia e della società deve essere sussidiario all'obbligo dello Stato di prevenzione, cura e riabilitazione della malattia in tutte le sue forme, conformemente al dettato dell'articolo 32 della Costituzione. A tal fine occorre attivare le strutture territoriali del dipartimento di salute mentale previste dal progetto "obiettivo tutela della salute mentale 1998-2000", e intervenire per evitare che le strutture residenziali e semiresidenziali necessarie non ripetano in forma ridotta situazioni ex manicomiali.
Ultimo, ma non meno importante obiettivo, è la costituzione, in ogni A-Usl, di Comitati di partecipazione composti da cittadini e cittadine, associazioni, operatori e operatrici dei servizi. La riforma della psichiatria e più in generale la riforma sanitaria devono infatti misurarsi con gli elementi di innovazione, autogestione e controllo dal basso rappresentati dai movimenti democratici, nell'incontro e nel confronto permanente tra associazioni, lavoratori e lavoratrici, popolazioni interessate, e "esperti": ricercatori, tecnici, medici.
Anche questa legislatura ha deluso la diffusa aspettativa di una legge di attuazione dell'articolo 38 della Costituzione, che eleva l'assistenza sociale al rango di diritto, mentre la nostra spesa assistenziale resta la più bassa d'Europa ed è in gran parte sostenuta dai bilanci degli enti locali. Restiamo convinti che il riconoscimento del diritto all'assistenza, all'integrazione sociale, all'autodeterminazione e all'autonomia economica delle persone con handicap e delle persone inabili al lavoro e sprovviste dei mezzi necessari per vivere sia un elemento di civiltà. Per questo, in primo luogo, la spesa assistenziale deve essere allineata alla media europea, e gli enti locali devono essere riconosciuti come enti sussidiati e non sussidiari dello Stato.
Per questo nella nuova legislatura ripresenteremo la proposta di legge quadro sull'assistenza sociale, chiamando il Centrosinistra e il Polo a riconoscere il diritto all'assistenza sociale come diritto concreto ed esigibile su tutto il territorio nazionale, non comprimibile entro i limiti dei bilanci degli enti locali, riaffermando, in coerenza con l'impianto costituzionale, l'unità della repubblica nell'articolazione delle autonomie regionali e locali, la laicità dello stato e il suo ruolo di garante dei diritti, l'uguaglianza sostanziale.
I principi e i criteri che ispirano la nostra piattaforma sulla riforma dell'assistenza sociale, sono i seguenti:
1) Individuare e finanziare le prestazioni e i servizi finalizzati a rimuovere le situazioni di svantaggio previste dagli articoli 2 e 3 della Costituzione.
Queste prestazioni e questi servizi devono essere sottratti all'accertamento del bisogno economico (il "redditometro"), perché sono finalizzati alla realizzazione di diritti universali della persona umana.
Rientrano in questo ambito:
a) i servizi e le prestazioni per l'integrazione sociale delle persone con handicap, come:
b) i servizi e le prestazioni di pronto intervento e di prima accoglienza per le condizioni ad alto rischio di esclusione, quali:
2) Individuare e finanziare le prestazioni e i servizi finalizzati a soddisfare il diritto all'assistenza sociale delle persone temporaneamente o definitivamente inabili al lavoro e sprovviste dei mezzi necessari per vivere.
Intendiamo perciò garantire per legge:
a) che alle persone temporaneamente o definitivamente inabili al lavoro che hanno un reddito inferiore alla pensione minima INPS per lavoratori dipendenti con 781 settimane di contributi settimanali (di cui comunque chiediamo un consistente aumento) sia riconosciuta la condizione di insufficienza dei mezzi necessari per vivere;
b) che per la determinazione dell'insufficienza dei mezzi necessari per vivere siano presi a riferimento il reddito e il patrimonio personali della sola persona temporaneamente o definitivamente inabile al lavoro e non anche quelli di conviventi e parenti;
c) che alle persone sprovviste dei mezzi necessari per vivere sia garantito un reddito vitale, composto da:
3) individuare e finanziare le prestazioni e i servizi sociali essenziali, che devono obbligatoriamente essere resi a parità di condizione di bisogno su tutto il territorio.
In particolare, devono essere assicurati:
4) definire criteri uniformi di esenzione parziale dalla partecipazione alla spesa, sulla base di fasce differenziate di reddito della famiglia anagrafica, non inferiori a quelle individuate per l'esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria, garantendo la relativa copertura finanziaria.
5) individuare e finanziare forme di gestione dei servizi sociali coerenti con la realizzazione di queste finalità, e perciò:
- Riaffermare la centralità della persona come titolare dei diritti sociali fondamentali, superando le logiche "custodialistiche" imposte dai processi di privatizzazione dei servizi al ribasso dei costi;
- Considerare la famiglia come una delle possibili forme relazionali tra le persone e non come soggetto cui riferire o da cui pretendere la produzione di servizi particolari;
- Introdurre forme di partecipazione e di controllo dal basso (Comitati di utenti e consulte delle associazioni di autotutela) sull'organizzazione e sulla gestione dei servizi;
- Mettere fine al processo di privatizzazione delle Ipab e alla conseguente dispersione dei loro redditi e patrimoni, di cui deve essere mantenuta la destinazione a interventi per il contrasto della povertà;
- Riaffermare il ruolo gestionale del pubblico come garanzia per la concreta esigibilità dei diritti sociali fondamentali e il carattere non imprenditoriale dei servizi sociali, la cui forma di gestione più idonea, tra quelle possibili per gli enti locali, è l'Istituzione, cioè una gestione improntata alla finalità sociale dei servizi prodotti, sottratta a criteri di pura economicità e a fini di lucro
Questo non significa negare l'elemento di innovazione e i contenuti di relazionalità che si esprimono nel Terzo settore, che deve essere valorizzato per le potenzialità di allargamento della sfera dei diritti fondamentali della persona garantiti dal pubblico. Ma non si può i trascurare che il Terzo settore non è un soggetto omogeneo, portatore di un unico progetto sociale. Al contrario, esso muove da ispirazioni diverse, a matrice laica piuttosto che religiosa, e molteplici sono le forme organizzative e gli approcci alla realtà che lo attraversano. Una cosa sono le organizzazioni che offrono servizi, altra quelle di utenza, di consumo e di tutela e autotutela dei diritti, per non parlare appunto delle differenze che esistono sul piano giuridico e delle finalità istituzionali tra cooperative sociali, associazionismo e volontariato. Inoltre, il Terzo settore non è distribuito omogeneamente sul territorio nazionale, e risulta meno presente e più debole proprio in quelle aree, come il Mezzogiorno, dove il disagio e l'esclusione sono maggiori, dimostrando con ciò che la sua crescita è complementare e integrativa all'offerta e al finanziamento pubblico di servizi sul territorio.
Ancora, il Terzo settore è costituito da realtà molto diverse: alcune a carattere nazionale altre solo locale, differenti per consistenza o qualità nei servizi erogati e modalità d'intervento. Accanto a tutte queste considerazioni, ne va fatta una specifica che riguarda la tendenza a servizi del terzo settore per il minor costo, e conseguentemente le minori tutele del lavoro in queste realtà, come più volte denunciato dalle organizzazioni sindacali. A questa diminuzione complessiva dei diritti dei lavoratori nel Terzo settore non sono estranee le scelte politiche degli anni novanta e l'estensione ai servizi sociali delle gare al massimo ribasso nell'assegnazione degli appalti, così come pesa la natura discrezionale dell'attribuzione dei fondi. Va, infine, sfatato il mito che il Terzo settore erogatore di servizi sia un ambito di espansione dell'occupazione. Nella realtà, l'esternalizzazione di servizi e prestazioni non è sempre frutto di una scelta autonoma di enti locali che puntano all'innovazione e alla promozione di forme di cooperazione e autoorganizzazione dell'utenza. Più spesso, si tratta di una scelta obbligata, imposta dall'alto attraverso i tagli della spesa e il blocco delle assunzioni nel settore pubblico, che ha come esito, nella maggioranza dei casi, la sostituzione di lavoro tutelato con lavoro precario.
E' perciò necessario mettere fine alla strumentalizzazione del Terzo settore per sostituire a basso costo i dipendenti pubblici e separare nettamente il volontariato dal lavoro Anche per questo occorre aumentare la spesa sociale: per superare la logica degli appalti al massimo ribasso nell'affidamento di servizi in convenzione a soggetti del Terzo settore, e per definire con chiarezza i criteri, gli indirizzi e i vincoli per l'affidamento di servizi in convenzione. In particolare, è necessario intervenire, anche per via legislativa, per superare l'attuale frammentazione contrattuale del lavoro nei servizi sociali, in particolare tra pubblico, privato e no-profit. A tal fine, è necessario definire, garantendone la copertura finanziaria, "convenzioni tipo" a valenza nazionale, fissando standard di tariffe omogenee, o almeno costi minimi per tipologie di servizi e prestazioni erogate (es. rimborsi per case-famiglia, costo del lavoro per tipologie di prestazione: assistenza domiciliare, formazione, ecc.), oltre a parametri ed indicatori di qualità per superare le attuali differenziazioni tra area e area. Contemporaneamente, le "convenzioni tipo" dovranno prevedere, da un lato, tempi certi di pagamento dei servizi resi da parte dell'ente pubblico e le relative sanzioni, e d'altro lato le inadempienza che comportano la revoca della convenzione e la decadenza dai contributi, ancorché già erogati, tra i quali il ricorso ai sub-appalti. Allo stesso modo, occorre attivare linee di finanziamento nazionale sufficienti a garantire in tutti i Comuni l'assegnazione in comodato, o in locazione a canoni calmierati, di edifici o locali di proprietà pubblica ad associazioni di autotutela o di difesa dei diritti sociali e di cittadinanza e per attivare interventi di promozione e di crescita dell'associazionismo.
Sul versante dell'utenza, occorre introdurre forme di partecipazione e di controllo dal basso (Comitati di utenti e di lavoratori e lavoratrici del settore) sull'efficacia dei servizi, connettendole con la verifica del rispetto degli obblighi stabiliti nelle convenzioni.
La capacità di una società di ricompensare e tutelare chi esce dal sistema produttivo dopo esserne stato protagonista e artefice rappresenta un importante indice di civiltà. Si può quindi affermare che in questi ultimi anni il nostro paese si è progressivamente incamminato verso un suo parziale imbarbarimento.
Il sistema pensionistico nell'ultimo decennio ha subito modifiche profonde e sostanziali. Non tanto e non solo per i tagli, che pure hanno prodotto una minor "spesa" (leggi più basse pensioni) per oltre 140.000 miliardi; ma per i cambiamenti strutturali introdotti quali: l'eliminazione delle pensioni di anzianità e del minimo di pensione, l'aumento dell'età di pensione, l'introduzione del sistema contributivo che lega la pensione rigidamente all'importo dei versamenti contributivi (conto economico di tipo privato). Frattanto la previdenza integrativa viene fortemente incentivata nella prospettiva di farla diventare in tempi brevi primaria e non complementare. Un situazione che mina profondamente la solidarietà categoriale, quella intercategoriale, quella tra lavoro privato e autonomo e, soprattutto, tra le generazioni.
Liquidando il sistema pensionistico pubblico e universale, rendendo "personale e soggettiva" la pensione si rompe ogni solidarietà, mettendo contemporaneamente a disposizione del mercato le migliaia di miliardi rastrellati con i fondi pensione.
L'attuale, e già ridimensionato, sistema previdenziale è sottoposto a continui pesanti e pressanti attacchi nel nome di una crisi ipotetica che dovrebbe cadere tra 25/30 anni. I motivi della crisi sarebbero la maggiore speranza di vita, la scarsa natalità e quindi un rapporto negativo tra occupati e pensionati con conseguente eccessivo e insopportabile costo delle pensioni. In realtà un maggior tasso di occupazione o un maggior aumento della produttività (prospettive possibili quanto auspicabili) porterebbero i conti più che in pareggio.
Ma l'attacco al sistema previdenziale non ha di mira soltanto le prospettive future del lavoratore, la sua vita da pensionato. Vi è inscritto anche un attacco diretto alla qualità della vita durante il medesimo periodo lavorativo. Il salario non si compone solo dalle voci iscritte in busta paga ma anche da quanto viene prelevato o accantonato per le tutele previdenziali e le pensioni. Come il costo da quanto è corrisposto al lavoratore in moneta e da quanto versano per la protezione sociale, altrettanto per il lavoratore la remunerazione reale non è solo il salario ma quanto viene accontonato pensione e TFR. Versamenti il cui utilizzo è differito nel tempo.
Ovviamente diminuire il "salario differito" ha un impatto immediato meno dirompente che diminuire quello corrente (orario, giornaliero, settimanale, mensile), ed è su quello differito che si sviluppa la pressione. Per impedire questo va recuperato e riaffermato l'elementare concetto di buon senso che è "salario" anche la pensione. Salario e pensione formano un tutt'uno articolato in vari momenti. Si parte da quando inizia il rapporto di lavoro, si ha una tappa nel "pensionamento", ed, in certi casi, si prosegue anche dopo la morte; con la reversibilità a favore del coniuge o figli minori.
Per queste ragioni, e giustamente, secondo le vecchie normative la pensione veniva rivalutata non solo in ragione del costo della vita ma in ragione anche degli aumenti salariali ribadendo così una continuità reale e tangibile con il rapporto di lavoro, e valorizzando il comune interesse tra lavoratore in attività e pensionato.
L'ultima legge finanziaria non ha fatto praticamente nulla per migliorare la situazione dei pensionati, e gli sbandierati provvedimenti si rivelano al'esame essenzialmente illusori.
La rimodulazione delle aliquote e l'allargamento della fascia esente (da 9.100.000 a 12 milioni) determina per tutti i contribuenti, un risparmio annuo. Esso sfiora £440.000 per un anziano che percepisca una pensione lorda di 20 milioni annui. Il risparmio è proporzionale e quindi crescente con l'aumentare dell'importo della pensione; ad esempio, il risparmio è di £1.500.000 per chi percepisce una pensione di 135 milioni annui. Ai pensionati con reddito inferire a £9.100.000 annui, esenti dal pagamento dell'irpef, è stato concesso un bonus, per l'anno 2000, di £200.000; £300.000 nel 2001. Ma non si deve dimenticare che dal 1995 al 2000 il prelievo fiscale sul monte pensione è passato dal 9,2% al 12%, cioè da 16mila a 26mila miliardi.
Si è concesso un aumento ai titolari di assegno sociale di £40.000 mensili, se di età superiore ai 75 anni, e di £25.000 se di età inferiore. I pensionati al minimo, che per la totale assenza di altri redditi hanno diritto alla maggiorazione sociale ricevono £20.000 in più se hanno meno di 65 anni; £80.000 con un'età tra i 65 e 75 anni; £100.000 se superano i 75 anni. Ricordiamo che la maggiorazione sociale non viene rivalutata annualmente e che il suo importo è fermo al 1988. Dunque l'aumento concesso non copre nemmeno l'erosione causata dall'inflazione in questi 12 anni.
C'è poi qualche novità sulla questione del cumulo pensioni/salari e pensioni di anzianità, questione estremamente complessa e che si presta ad usi perversi. Ora chi matura il diritto alla pensione di anzianità può rimanere a lavoro per altri due anni, senza subire trattenute contributive, cioè con un salario maggiorato di circa l'8%. Le aziende naturalmente risparmiano un bel 24%, in quanto anch'esse esenti dal pagamento della contribuzione. Riteniamo che la riduzione del limite di cumulo tra pensione e lavoro non contribuirà a far emergere il sommerso, così come l'incentivo a non andare in pensione certamente non contribuirà a far crescere l'occupazione. Anche se siamo convinti che i pensionati una gran parte per necessità (bassa pensione) - , ma anche per legittima volontà di protagonismo, per capacità ed esperienza debbano poter svolgere delle attività, ma questo deve avvenire senza sottrarre lavoro ai giovani e senza favorire le imprese. Proponiamo percorsi specifici e forme di occupazione parziale in supporto all'ente locale, alla scuola o nell'ambito di determinati servizi ed attività sociali.
A fronte di ciò niente si è fatto per combattere la vera grande piaga infetta del nostro sistema previdenziale, la vera anomalia italiana. Il nostro è l'unico paese in cui vengono sistematicamente evasi non meno di 50.000 miliardi l'anno di contributi previdenziali (stima dell'Inps). Di fronte a ciò la legge finanziaria rende più lievi pene e sanzioni per il reato di evasione contributiva e dilaziona all'infinito il pagamento di quanto evaso anche nel caso - remoto (la media è un controllo ogni 130 [sic] anni) che l'azienda che evade venga scoperta.
Si debbano fare delle proposte per invertire la rotta, altrimenti tra qualche anno genererà un disastro sociale di dimensioni difficilmente immaginabili. Basti pensare che cosa significherà vivere in città dove una gran massa di anziani, probabilmente circa la meta della popolazioni, dovrà arrangiarsi con pensioni al limite o sotto la soglia di sopravvivenza. Rivendicare un sistema pensionistico pubblico, universale e solidale non è questione su cui si esercita l'ideologia ma è questione di dignità di una società. Un sistema che possa di nuovo riunire l'intero mondo del lavoro e le generazioni.
Bisogna quindi puntare a ridurre il danno immediato e futuro, e ristabilite un minimo di equità. Ma contemporaneamente introdurre elementi rivolti ad attenuare gli effetti della generalizzata precarizzazione del lavoro. E questo sarà possibile solo innovando e rivoluzionando anche il modello di finanziamento generale del sistema previdenziale. Legando le entrate non solo al salario ma anche all'aumento della redditività del lavoro e all'aumento degli utili aziendali collegati all'innovazione tecnologica, allo scopo di ammortizzare, almeno parzialmente, l'effetto compressivo sulle entrate del sistema, causato dal decremento numerico della forza lavoro che proprio l'innovazione produce.
Bisogna ottenere un aumento immediato dei minimi di pensione di 200.000 mila lire, analogo aumento per le pensioni e gli assegni sociali, e per le indennità degli invalidi civili: gli attuali bassissimi importi sono intollerabili e immorali. Poi, il recupero, per tutte le pensioni, di quanto hanno perso in questi anni rispetto ai salari, e un sistema di rivalutazione annuale che tenga conto non solo del costo della vita ma anche degli aumenti salariali. Ed infine la revisione dei livelli di reddito a cui sono subordinate prestazioni quali l'invalidità civile, la reversibilità, il minimo di pensione, la pensione sociale. Tutte misure queste miranti a porre una diga al continuo impoverimento immediato dei pensionati.
Contestualmente bisogna insistere su proposte che attenuino gli effetti disastrosi della precarizzazione del lavoro sulle pensioni future. È necessaria la garanzia che ogni anno di contribuzione, indipendentemente dal valore dei contributi versati produca un minimo di pensione. Tale importo deve essere pari ad 1/15° del trattamento minimo: risposta necessaria alla situazione di precarietà e discontinuità lavorativa soprattutto dei giovani, e un correttivo forte al sistema di calcolo contributivo. Ci deve poi essere la garanzia di 5 anni di contribuzione figurativa valida per la pensione se si perde il lavoro, o se si è ancora disoccupati a partire dai 25 anni d'età.
Insieme a ciò proponiamo la parziale modifica delle modalità di finanziamento del sistema pensionistico. Il sistema viene alimentato attraverso i contributi versati dai lavoratori; sia la crescita della produttività del lavoro che l'innovazione tecnologica non hanno alcuna influenza sulle entrate del sistema previdenziale. Per far concorrere questi fattori (che aumentano i fatturati e i profitti delle imprese e riducono l'occupazione) alla previdenza pubblica, è necessario che le imprese (anche quelle senza lavoratori) versino una parte proporzionale del loro utile alle casse previdenziali.
Oltre a queste proposte Rifondazione Comunista ritiene che sia moralmente doveroso porre fine allo scandalo delle pensioni d'oro che sono un vero schiaffo a chi è costretto sotto la soglia di sopravivenza. Riteniamo dunque giusta la fissazione di un minimo e di un massimo di pensione e chiediamo che il rapporto tra minimi e massimi di pensione sia contenuto nel rapporto di 1/10. Se cioè la pensione minima e di £738.000 mensili, la pensione massima non dovrebbe eccedere £7.380.000 al mese. E che questo valga per tutti, anche per parlamentari, magistrati e ministri.
3.3.5 Per un'istruzione pubblica, gratuita, pluralista, di qualita'
L'intero sistema educativo rappresenta uno snodo fondamentale della società. Esso può essere, nel bene come nel male, un motore della trasformazione sociale. Per il Prc, le politiche pubbliche, nel campo dell'istruzione e della formazione si intrecciano profondamente con l'obiettivo di una piena occupazione, di qualità e orientata al soddisfacimento dei reali bisogni sociali e perciò costituiscono un autentico pilastro della nostra proposta di alternativa, economica e sociale.
La scuola pubblica infatti rappresenta una delle funzioni fondamentali dello Stato, poiché deve garantire, attraverso il pluralismo culturale e la libertà di insegnamento, la crescita culturale e civile dell'intera società e l'opportunità, per ognuno, di sviluppare le proprie potenzialità.
Per questo tutte le risorse destinate all'istruzione debbono essere riservate unicamente alla scuola pubblica,investendone una quota sostanziosa nell'edilizia scolastica (per rendere le strutture adeguate ad una permanenza piacevole e stimolante degli studenti e dei lavoratori nella scuola) e destinando fondi adeguati per rendere gratuiti trasporti, mense, libri di testo e tutti i servizi connessi all'attività scolastica.
Le autonomie locali devono pertanto essere dotate di mezzi per combattere con un massiccio impegno il fenomeno della dispersione scolastica, adeguando strutture e servizi, e per impostare un sistema organico per l'educazione anche degli adulti, in una prospettiva di educazione permanente.
Una consistente rivalutazione delle retribuzioni del personale della scuola deve essere considerata come una delle risorse da destinarle, prevedendo anche un programma di aggiornamento e di formazione con periodo di distacco dall'insegnamento.
Le scuole pubbliche per l'infanzia debbono essere istituite su tutto il territorio nazionale e potenziate dove risultino insufficienti.
I piani provinciali e regionali di dimensionamento debbono essere verificati e rivisti alla luce dell'utilità sociale del radicamento della scuola nel territorio, per cui va ripristinata la possibilità di mantenere istituzioni scolastiche al di sotto dei 500 alunni.
La riforma dei cicli, in via di attuazione, ma che incontra crescenti e giuste opposizioni da parte degli studenti, dei genitori, del corpo docente, va sospesa e va avviata nelle scuole, negli organismi territoriali, con le associazioni culturali, con le organizzazioni sindacali una consultazione di massa, per varare un nuovo assetto della scuola, che abbia come finalità per tutti il diritto allo studio e ad un sapere critico in grado di misurarsi con le sfide della globalizzazione e del progresso scientifico del nostro tempo.
Tale processo deve partire, innanzitutto, da una verifica dei risultati e delle esperienze dei vari ordini di scuola, introducendo da subito forme di scambio, di confronto e di collaborazione, In particolare scuola elementare e media devono sperimentare modalità di integrazione dei metodi e dei contenuti dei rispettivi cicli, seguendo rigorosamente i ritmi di crescita e i tempi dell'apprendimento dell'età evolutiva: va eliminata la riduzione di un anno del ciclo di base, prevista dall'attuale riforma.
L'obbligo scolastico deve essere portato fino a diciotto anni, e al suo interno non può essere prevista la formazione professionale, se non nella forma già attuata negli istituti professionali di Stato. Di conseguenza l'apprendistato non può essere effettuato prima del compimento del diciottesimo anno di età.
Deve essere introdotto da subito, nel ciclo superiore un biennio unico, che consenta un'ulteriore espansione e approfondimento della cultura generale offerta dal ciclo primario. Solo in questo modo la riforma del triennio potrà giovarsi di una base adeguata, dalla quale trarre indicazioni più puntuali.
Di fronte al tracollo culturale di questi ultimi anni, dovuto alla centralità del mercato e dell'impresa, a scapito dello sviluppo di tutta la società, bisogna intervenire a vari livelli, dalla singola scuola fino al Parlamento, per sostenere quello sviluppo delle capacità critiche, che passa attraverso un asse culturale dotato di nuclei forti, fondativi, strutturanti, che mettono in grado di esprimersi "sui saperi", che vincolino su tutto il territorio nazionale le scelte formative della scuola, anche per una ricomposizione della scuola della Repubblica.
La stessa questione dell'introduzione delle nuove tecnologie o delle multimedialità nelle scuole, semplicisticamente e acriticamente assunta da esperti, mass media e ministri come soluzione di buona parte dei problemi della didattica, va invece affrontata e discussa con la consapevolezza della "non neutralità" del mezzo informatico, che nel corso dei processi di apprendimento non solo diviene il messaggio, ma per le sue caratteristiche specifiche determina e costruisce l'intero ambiente di comunicazione, imponendo tempi, processi di ragionamento, linguaggi.
Per questo è centrale oggi il problema del linguaggio e della comunicazione, su cui non può che esserci un approccio sperimentale, da parte degli insegnanti, chiamati a ricostruire livelli di relazione più efficaci ed innovativi, stanti le modifiche subite dai giovani nei linguaggi, compreso quello del corpo.
Non si tratta di aggiungere ulteriori discipline, ma semmai di ricomporle in un sapere che metta in grado di selezionare le interpretazioni e selezionarle.
Il tempo-scuola acquista dunque grande importanza, non come generica permanenza a scuola, ma come stretta correlazione tra qualità e quantità nello studio.
Una indagine Eurostar rivela che lo studente italiano passa a scuola fino al 25% di tempo in più rispetto agli altri studenti europei, e collega questo dato con quel modello di sviluppo della condizione umana, per cui l'Italia si colloca al quinto posto: infatti la contrazione del tempo-scuola gioca a favore dei saperi strumentali e contro quelli cosiddetti disinteressati, gli unici che impongono processi analitici nell'apprendimento. gli unici che rivelano lo svantaggio e al tempo stesso ne consentono il recupero, perché permettono la costruzione di una relazione tra insegnante ed alunno, in un processo di ricostruzione di un sapere, che coinvolge ed arricchisce entrambi, non essendo fondato sulla trasmissione,ma sulla comunicazione.
Centrale è infine la questione dei tempi dell'attività degli insegnanti, che risultano sempre più indefiniti,e quella dell'organizzazione del lavoro, temi entrambi scomparsi nell'ultimo contratto, che pur propagandato come quello del lavoro per progetti, tuttavia non entra nel merito della collegialità, del suo orario e delle sue modalità, e perpetua l'abbandono della qualità dell'insegnamento al volontariato, impegnato com'è a ratificare l'ideologia della gerarchizzazione anche nella scuola.
L'autonomia scolastica deve essere ricondotta alla funzione di autogoverno delle scuole, per cui debbono essere introdotti tutti quei correttivi, che impediscano la frantumazione del sistema scolastica nazionale. A supporto di questa impostazione, gli organi collegiali debbono essere arricchiti da tutti quegli elementi che valorizzano la partecipazione e la collegialità delle decisioni.
Ad una nuova valorizzazione della collegialità può essere oggi affidata anche la libertà d'insegnamento, minacciata non soltanto dalla legge di parità, ma anche dall'applicazione della parte contabile dell'autonomia, che dietro la motivazione del reperimento di finanziamenti apre la strada all'imposizione di contenuti esterni alla scuola, che rispondono agli interessi di soggetti privati.
Rilanciare la scuola di tutti e per tutti è l'unica risposta al possibile ritorno della peggiore selezione di classe.
3.3.6 Formazione professionale
La Riforma dei cicli ha abbandonato un obiettivo storico e centrale nel dibattito della sinistra rinunciando all'innalzamento dell'obbligo scolastico a diciotto anni. L'escamotage usato è l'introduzione all'articolo 68 della legge 144/ 99 dell'obbligo di frequenza ad attività formative fino al diciottesimo anno di età, con il doppio canale: quello scolastico privilegiato e quello dell'apprendistato o della formazione professionale, per chi è costretto dalle condizioni materiali ad un inserimento nel lavoro precoce, precario e mal retribuito. Si ripristina quindi una discriminazione di classe, che rischia di consegnare al mondo padronale una mano d'opera giovanile a basso costo.
Occorre ridefinire i termini del rapporto tra diritto all'istruzione e diritto di cittadinanza; è irrinunciabile reinterpretare il nuovo istituto dell'obbligo formativo attraverso una lettura attenta della stessa Costituzione, alla luce degli obiettivi seguenti:
-è obbligo delle Istituzioni garantire ai cittadini un'offerta formativa che consenta loro di esercitare pienamente il diritto di cittadinanza; sono pertanto necessarie strutture stabili e continuative, cioè enti convenzionati e accreditati, che garantiscano un sistema serio, rigoroso e specializzato.
- è necessaria una forte iniziativa istituzionale, nell'ambito della conferenza Stato Regioni, che deve coinvolgere il Governo, le Regioni, gli Enti Locali e tutti gli operatori del settore, perché si definisca un sistema della formazione nazionale con regole univoche per tutte le regioni. L'efficacia del sistema non può prescindere da una definizione, a livello nazionale, di standard condivisi e da criteri certi di valutazione e di controllo dell'azione formativa. Solo questo può garantire una formazione professionale in condizioni di pari opportunità e pari dignità rispetto al canale dell'istruzione secondaria.
La recente riforma universitaria e i continui tagli apportati nelle leggi di bilancio di questi anni hanno ulteriormente compromesso il quadro generale dell'Università italiana. Se possibile, hanno reso ancor più necessario delineare un grande complesso di politiche sociali tese, innanzitutto, a riaffermare il fondamentale diritto allo studio e alla formazione superiore
Il primo obiettivo, infatti, da porsi è rappresentato dal rilancio e dall'estensione del diritto allo studio. Per perseguire questo obiettivo sono necessari interventi che da un lato garantiscano completa libertà di accesso, contro ogni ipotesi di sbarramento, e dall'altro rafforzino concretamente gli strumenti di sostegno al completamento degli studi. In questo senso la battaglia contro il numero chiuso si lega organicamente a quella per la gratuità della formazione pubblica e per l'ampliamento delle strutture e infrastrutture didattiche e di ricerca.
L'abbattimento delle tasse di iscrizione, lievitate vertiginosamente dopo l'introduzione dell'autonomia finanziaria, costituisce solo un primo necessario aspetto, ma insufficiente se non si interviene contemporaneamente sui costi indiretti legati al vitto, all'alloggio, al mercato (indecente) dei libri di testo, ai trasporti. Altrettanto importante è l'ampliamento dei luoghi destinati alla didattica e allo studio individuale - aule studio, biblioteche, centri informatici e polifunzionali - che costituiscono elementi centrali di sostegno agli studenti (e a coloro che oggi non possono permettersi di esserlo). Si tratta, insomma, di intervenire con misure concrete ed efficaci per riaffermare il diritto allo studio e invertire l'attuale strisciante selezione di classe nei percorsi formativi, per ribaltare il mortificante 70% di abbandoni che caratterizza l'Università Italiana.
In una società come la nostra le cui continue trasformazioni fanno dell'accesso ai saperi condizione sempre più determinante per una cittadinanza completa e pienamente dispiegata, una politica formativa avanzata non può prescindere da un intervento più ampio che consenta alle giovani generazioni di usufruire gratuitamente di tutti gli strumenti culturali, anche al di fuori delle tradizionali strutture formative.
Mantenere la centralità del titolo di laurea e riqualificare il percorso di studi universitario, in un quadro di omogeneità nazionale, che contrasti l'"aziendalizzazione" e la frantumazione territoriale delle strutture formative, rappresenta un obiettivo ineludibile. La riforma depaupera la complessità del percorso didattico universitario, configurando una laurea più semplice perché più povera, e sposta il livello di approfondimento sui titoli post-laurea, in una dimensione compartimentata e parcellizzata, oltre che escludente. Al contrario, è necessario concepire la didattica universitaria come luogo aperto di formazione complessa, al cui interno lo studente possa scegliere autonomamente e senza alcuna rigidità percorsi di approfondimento.
Professionalizzazione e specializzazione non implicano necessariamente la costruzione di percorsi post-universitari inaccessibili e iper-direzionati; esse possono vivere dentro la formazione universitaria in un contesto didattico e di ricerca slegato (cioè non dipendente) dagli interessi privati e dalle esigenze del mercato, e nel quale la specificità del singolo percorso di studi sia il risultato di una scelta individuale autonoma, critica e consapevole. Non si tratta di negare ogni connessione tra formazione e mondo del lavoro, ma di rovesciare la natura del rapporto che emerge dalle proposte governative. Le scuole di specializzazione a numero programmato per l'accesso alle professioni, partono dal presupposto che, essendo la quantità e la qualità del lavoro determinate in modo meccanicistico e neutro dalle "leggi del mercato", sia necessario adeguare di volta in volta a questa "variabile indipendente" la natura e l'organizzazione dei processi formativi. Questa idea così subordinante del rapporto tra formazione e lavoro sottrae di fatto al sistema universitario la possibilità di agire da motore della trasformazione sociale e di condizionare positivamente lo sviluppo dei meccanismi produttivi. Noi pensiamo, invece, che la possibilità di accedere alle figure professionali debba continuare a essere legata al conseguimento del titolo di laurea e che le scuole di specializzazione non possono costituire titolo esclusivo per l'accesso a esse.
L'investimento sull'università e sulla ricerca scientifica e tecnologica deve essere indirizzato strategicamente alla determinazione stessa del modello di sviluppo, poiché può divenire veicolo di rottura delle attuali compatibilità, in un quadro di utilità sociale. L'università, infatti, può e deve sforzarsi di individuare, con l'attività didattica e di ricerca, figure professionali nuove, non riconducibili alla logica del profitto privato ma ad una dimensione di utilità sociale. Aver conferito infatti capacità contrattuale ai singoli dipartimenti e aver avviato potenti sinergie tra singole università e aziende private ha prodotto un condizionamento forte, quando non addirittura una direzione consapevole dell'attività di ricerca da parte delle imprese. Solo una programmazione nazionale può individuare e soddisfare le esigenze didattiche e scientifiche del sistema universitario concepito come servizio pubblico.
E' altresì fondamentale per la democratizzazione dell' Università che i meccanismi di reclutamento dei docenti non siano subordinati a logiche autoritarie e di mera occupazione del potere Così pure l'opposizione al numero chiuso deve valere anche per i titoli accademici di livello superiore alla laurea, in particolare per il dottorato alla cui ammissione prevalgono troppo spesso le appartenenze accademiche sulle valutazioni di merito.Un dottorato aperto a tutti coloro che mostrino idoneità alla ricerca scientifica deve essere la condizione normale per intraprendere la carriera accademica attraverso un primo grado di formazione e un secondo grado corrispondente al ruolo unico docente.
Una democratizzazione della docenza e del reclutamento rappresenta la precondizione per un diverso funzionamento dell' Università.
In ogni caso va mantenuto il fondamentale rapporto università-ricerca: sganciare la ricerca dall'università è funzionale solo a un progetto di dequalificazione degli studi.
In Italia ci sono circa 800.000 alloggi a canone sociale e oltre 2 milioni di famiglie sotto il livello di povertà. Su tre milioni e duecento mila famiglie in affitto privato: 1 milione e mezzo di hanno meno di 30 milioni all'anno lordi e pagano di affitto oltre il 30% del reddito netto; 800.000 dispongono di un reddito inferiore a 20 milioni lordi all'anno; 1 milioni e 580 mila è costituito da anziani il cui reddito è assicurato solo da pensione.
A fronte di questa situazione, in questi cinque anni di governo di centro sinistra si è assistito a un ulteriore restringimento del comparto abitativo pubblico, attraverso la dismissione e privatizzazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica, Enti Previdenziali e altri Enti Pubblici. Il processo di privatizzazione degli Enti ha avuto la conseguenza di sottrarre il loro patrimonio abitativo dalle regole pubbliche, con conseguente aumento degli affitti e ricorso alle vendite frazionate.
La conseguenza di questa liberalizzazione è stata un aumento generalizzato dei canoni e degli sfratti, specialmente nelle grandi città. Per la prima volta dal dopoguerra, la morosità è divenuta la causa principale delle sentenze di sfratto emesse. Ciò mostra evidentemente il livello di non sopportabilità degli affitti in relazione ai redditi posseduti.
La riforma degli affitti varata in questa legislatura non ha dato risultati efficaci: il ricorso al cosiddetto canale concordato (affitti più bassi in cambio di sgravi fiscali) è pressoché inesistente a causa del rifiuto del governo di intervenire per eliminare la detrazione fiscale del 15% di cui ancora godono i proprietari che affittano a libero mercato, il mancato intervento per incrementare l'offerta pubblica a canone sociale (anzi addirittura l'ulteriore restringimento di tale comparto) hanno aumentato il monopolio della rendita speculativa nel mercato delle locazioni.
Non si è voluta realizzare una riforma dell'edilizia residenziale pubblica nella direzione di un incremento dell'offerta pubblica. Eliminate le trattenute Gescal, conseguenza della controriforma delle pensioni, e unica fonte di finanziamento dell'edilizia residenziale pubblica, non c'è stato alcun intervento per prevedere un finanziamento pubblico di tale settore, come previsto nella maggior parte dei Paesi europei (l'Italia è il fanalino di coda dell'Europa in tale settore: 5% di offerta pubblica a fronte di una media del 16%); anzi, i governi che si sono succeduti, da Berlusconi nel 1994 fino a D'Alema, hanno illegittimamente sottratto 7500 miliardi dai fondi Gescal, trattenuti presso la Cassa Depositi e Prestiti, per utilizzarli ad altri scopi.
Anche in rapporto alla prima casa in proprietà, il governo, invece di muoversi verso una vera detassazione intervenendo sull'Ici (per eliminarla o quantomeno ridurla a partire dai redditi più bassi), ha preferito intervenire per elevare oltre i 180 milioni di valore catastale l'esenzione Irpef, comprendendo anche le case di lusso. Un'operazione questa che solo marginalmente ha interessato fasce di popolazione con redditi medio bassi e si è rivolta principalmente a favore dei redditi più alti.
Il complesso delle politiche abitative perseguite in questi anni (liberalizzazione degli affitti, dismissione del patrimonio pubblico) ha determinato una forte propensione all'acquisto della prima casa, relegando nel settore dell'affitto una porzione della popolazione in condizioni sociali ed economiche deboli.
Questa politica non è stata in grado di affrontare neanche i nuovi problemi posti dalle modificazioni sociali, del costume, dell'economia. In un'espressione: non è né giusta, né moderna. Ha acuito le disuguaglianze determinando una redistribuzione della ricchezza a favore della rendita e, dall'altro lato, rappresenta un elemento di forte arretratezza: limita la mobilità sul territorio, non riesce ad affrontare le questioni poste dalle modificazioni della società e dal costume, non dà risposta a problemi di prospettiva come quello dell'immigrazione.
A fronte di questa situazione, noi proponiamo l'adozione di un piano di iniziativa, articolato a livello nazionale, delle Regioni e degli Enti locali che si proponga, nella prossima legislatura, di recuperare la differenza tra l'Italia e l'Unione Europea; e quindi triplichi l'offerta di alloggi a canoni più bassi del mercato. Ciò non richiede l'avvio di nuove costruzioni, bensì l'utilizzo di tutti gli strumenti a disposizione (acquisto, affitto diretto da parte degli enti locali) per aumentare l'offerta a canoni calmierati con l'obiettivo di rispondere alle esigenze di varie categorie sociali, compresa quella del lavoro dipendente (con redditi non così bassi da per sperare in un alloggio Erp, ma non così alti da poter reggere il mercato privato).
Rispetto all'edilizia pubblica, perciò occorre: definire un finanziamento (almeno l'1% del bilancio dello Stato) per la politica sociale della casa; determinare un piano per il pieno utilizzo dei fondi Gescal rimasti, reintegrando quanto dal 1994 ad oggi sottratto, valutabile in almeno 15.000 miliardi; bloccare piani e progetti di dismissione generalizzata del patrimonio residenziale statale, degli Enti Previdenziali e di altri Enti Pubblici e fissare le quote di incremento dell'offerta pubblica da realizzare anno per anno; mantenere le strutture di gestione dell'edilizia residenziale pubblica in ambito pubblico, impedendo ogni privatizzazione del settore; rivedere e rilanciare il ruolo della cooperazione (in particolare la proprietà indivisa) ai fini della locazione; detassare gli alloggi di edilizia residenziale pubblica.
Rispetto alle locazioni nel settore privato, occorrerà, invece, rivedere la legge sulle locazioni, correggendone le contraddizioni più gravi: eliminare la detrazione forfettaria del 15% a favore di chi affitta a libero mercato; incrementare ed estendere a tutti gli inquilini (in base al reddito e non alla tipologia contrattuale) la detrazione dalla denuncia dei redditi di parte dell'affitto pagato; estendere progressivamente l'obbligo di riferirsi al canone concordato, a partire dagli enti pubblici privatizzati e dalla grande proprietà immobiliare; intervenire sulla questione degli sfratti, in particolare nelle aree urbane, prevedendo, per tutti coloro che hanno le condizioni per permanere in un alloggio di edilizia residenziale pubblica (reddito intorno a 65/70 milioni annui), o possiedono condizioni di disagio (anziani, portatori di handicap, ecc.), la possibilità di realizzare lo sfratto solo se si realizza un intervento pubblico che garantisca il passaggio da casa a casa; superare l'istituto dello sfratto per finita locazione, che è lo strumento essenziale per l'aumento speculativo degli affitti.
Nel campo della proprietà privata, proponiamo inoltre di eliminare, nella prossima legislatura, l'Ici sulla prima casa, trasformando questa tassa che incide pesantemente sui redditi più bassi, in una vera imposta patrimoniale che preveda: la detassazione della prima casa, una fortissima penalizzazione delle case sfitte nelle aree urbane, un incremento della tassazione sui fabbricati diversi da abitazione (preservando l'artigianato e la piccola attività di commercio) e sulle aree fabbricabili.
Il settore sportivo rappresenta uno dei principali fallimenti del governo di centro sinistra; questo giudizio è poco visibile sul terreno direttamente politico - dove lo sport non ha mai rappresentato una priorità - ma assai diffuso nel vastissimo mondo dell'associazionismo sportivo dilettantistico. Le grandi aspettative di riforma del sistema sportivo, che erano maturate non solo nelle fasi alte degli anni 70 ma anche negli anni successivi in quel grande processo di moltiplicazione del numero di persone che si dedicano ad attività sportive, sono state infatti frustrate; grande è stata l'incapacità del governo di affrontare seriamente i grandi potentati sportivi che, facendosi scudo dell'indipendenza dello sport dalla politica e dei presunti successi olimpici, hanno in realtà intrecciato politiche clientelari e inefficienti con percorsi di privatizzazione dei profitti, e di destra.
La nostra proposta di riforma del sistema sportivo si basa su 4 pilastri di fondo.
In primo luogo è necessario superare il Decreto Melandri che ha modificato il sistema precedente ma in una direzione sbagliata. Si tratta quindi di operare una modifica che senza ripristinare la situazione precedente attui una effettiva riforma. In particolare è necessario smontare il carrozzone del Coni, riportando il Comitato olimpico a quello che è il suo compito istituzionale e cioè la preparazione delle delegazioni olimpiche e la competenza quindi sullo sport di alto livello. Le federazioni sportive devono rimanere completamente pubbliche evitando che le disponibilità finanziarie delle federazioni siano legate solo alla vendibilità degli eventi sportivi delle singole discipline; vanno sganciate dal Coni quelle federazioni che nulla hanno a che vedere con lo sport, come quella del Bridge e della caccia. Per quanto riguarda i dipendenti del Coni è necessario che vengano garantiti tutti i diritti acquisiti, sia in termini di professionalità che salariali, e che venga attivato, contestualmente alla costruzione del Ministero dello Sport, uno spostamento di personale verso quest'ultimo.
In secondo luogo è necessario costituire - sul modello francese - un Ministero dello Sport che si occupi della promozione dell'attività sportiva verso tutta la popolazione e che garantisca standard adeguati di presenza di impianti sportivi funzionanti su tutto il territorio. Il ministero deve quindi avere compiti di coordinamento delle regioni, delle scuole, degli enti di promozione sportiva e in generale favorire la costituzione dell'associazionismo sportivo, garantendo però al singolo cittadino la possibilità di usufruire direttamente degli impianti. In questo quadro di forte responsabilizzazione delle regioni e della struttura scolastica a tutti i livelli, gli Enti di Promozione sportiva non devono più essere finanziati con modalità spartitorie ma in base ai progetti presentati e al lavoro effettivamente svolto da ogni singolo ente o associazione sportiva.
In terzo luogo è necessario avviare un forte programma di lotta al doping che deve riguardare sia lo sport di alto livello che lo sport per tutti. Sul primo piano è necessario modificare la legge antidoping abolendo la punibilità penale degli atleti, in quanto solo l'introduzione di una contrapposizione di interessi tra atleta e spacciatore di prodotti dopanti può contribuire a rompere il muro di silenzio e omertà che contribuisce al diffondersi del doping. L'atleta deve essere sottoposto alla giustizia sportiva e non a quella penale. Occorre inoltre potenziare la struttura dei controlli, a cominciare dalla verifica periodica dei valori degli atleti in modo da costruire una "biografia fisiologica" degli atleti, che in sé renderebbe assai problematico l'utilizzo di prodotti dopanti. Si tratta poi di controllare i produttori di farmaci, obbligandoli a inserire traccianti nei prodotti potenzialmente utilizzabili a fini di doping (creatina, eritropoietina, ecc.), e di ristabilire un corretto funzionamento dei laboratori di analisi.
Sul versante dello sport per tutti, è altresì necessario avviare una campagna di sensibilizzazione di massa, a partire dal livello scolastico, che riguarda i ragazzi, per arrivare alla sensibilizzazione di medici e allenatori sugli effetti deleteri del doping sulla salute degli atleti.
In quarto luogo si tratta di "pubblicizzare" e portare a trasparenza tutto il mondo degli affari che ruota attorno agli eventi sportivi. Ci opponiamo con forza alla chiusura degli stadi finalizzata alla costruzione di un monopolio informativo delle televisioni a pagamento, così come proponiamo che gli stadi vengano trasformati, non in centri commerciali, ma in luoghi di aggregazione per i giovani durante tutta la settimana. Riteniamo inoltre che i diritti televisivi sugli eventi sportivi a grande impatto di massa non possano essere ceduti alle Pay TV ma debbano essere riservati al servizio pubblico. Questo indirizzo è per noi valido anche a livello europeo, dove, in particolare sul settore calcistico forti sono le spinte alla costruzione di un nuovo campionato "privato".
Per quanto riguarda i concorsi pronostici, riteniamo che debbano essere gestiti dal pubblico e ci opponiamo con forza alle operazioni clientelari che stanno portando a una privatizzazione, senza concorrenza e rischi imprenditoriali. Questa operazione - dubbia anche sotto il profilo legale - ha l'unico effetto di diminuire le entrate dello Stato a favore di pochi privati.
Si tratta quindi a nostro avviso di estendere la pratica sportiva alla maggiore quantità di popolazione possibile, come espressione dell'esercizio di un effettivo diritto di cittadinanza e come pratica di miglioramento della salute della popolazione, e di approfondire, in questo campo, la responsabilità del settore pubblico, anche al fine di una più efficace lotta al doping. In questo quadro la gestione dello sport di alto livello deve avere - sempre nello spazio pubblico - una propria specifica gestione attraverso un Coni riformato e snellito. Più in generale si tratta di garantire il diritto ad un effettiva fruizione di massa degli eventi sportivi contro le logiche di privatizzazione.
3.4 Finanza pubblica e politica fiscale
Abbiamo già rilevato che nel corso degli anni 90 la gestione del bilancio pubblico è stata caratterizzata dal forte contenimento della spesa e dall'aumento di tasse e contributi, specialmente a carico dei lavoratori dipendenti. Tale politica ha accentuato gli storici limiti del nostro stato sociale, aumentando il divario rispetto ai sistemi di welfare dei principali paesi europei. Le strette sulla spesa hanno infatti comportato una compressione significativa degli investimenti, dei consumi collettivi e delle reti di sicurezza sociale, che si è riflessa nella carenza di beni pubblici, nel progressivo degrado delle aree depresse del paese, nella drammatica diffusione dei fenomeni di emarginazione. Dall'altro lato, favorendo il capitale a scapito del lavoro, i cambiamenti nella struttura del prelievo fiscale hanno dato luogo ad iniquità sempre più forti, segnando un incredibile distacco dal principio di progressività sancito dalla Costituzione
Si rende dunque necessaria una svolta radicale nella gestione del bilancio dello Stato, attraverso la promozione di interventi di livello nazionale e internazionale, tutti orientati all'espansione mirata delle spese e ad una distribuzione più equa dei carichi fiscali e contributivi.
Ai fini dell'espansione occorrerà persistere in un'azione a tutti i livelli istituzionali per la riforma in senso democratico dei trattati europei, sollecitando una maggiore influenza dei parlamenti nazionali ed europeo sulle decisioni del Consiglio e della Commissione; invocando il rafforzamento delle istituzioni di coordinamento fiscale all'interno dell'Ecofin, la modifica dello statuto della Banca Centrale Europea, la revisione dei parametri che attualmente regolano la politica fiscale degli Stati membri e l'aggiunta di un parametro finora assente: quello dell'occupazione.
A livello nazionale si dovrà poi abbandonare, una volta per tutte, il principio neoliberista secondo il quale trarremmo tutti beneficio dal rapido abbattimento del debito pubblico e dalla conseguente compressione dell'intervento statale nell'economia. Questa idea, considerata del tutto priva di fondamento da gran parte della letteratura specialistica, ha spesso indotto il governo verso un orientamento di politica economica più restrittivo di quello imposto dagli accordi europei, basato tra l'altro sull'intenzione di fissare al 2010 la data di raggiungimento del 60% nel rapporto debito/Pil.
Simili tentazioni neoliberiste andranno fronteggiate con una proposta del tutto alternativa, ispirata dall'intento di sfruttare ogni possibile spazio di manovra concesso dal Patto di Stabilità europeo per intraprendere una politica di bilancio finalmente orientata al pieno impiego, nel segno dell'equità e della difesa dell'ambiente. Nel nuovo scenario, le oscillazioni del deficit annuale potranno essere più ampie rispetto all'obiettivo tendenziale del pareggio, risultando vincolate soltanto dal tetto del 3% in rapporto al Pil (l'unico parametro a difesa del quale i trattati europei prevedono un effettivo sistema di sanzioni). Pur con un debito pubblico in diminuzione, questo orientamento consentirebbe di liberare risorse aggiuntive nell'ordine dei 30.000 miliardi annui, aprendo finalmente, dopo anni di sacrifici, nuove prospettive per l'intervento pubblico.
Per quanto riguarda la definizione di una più equa distribuzione dei carichi fiscali al fine di ripristinare il principio costituzionale di progressività, occorrerà innanzitutto spostare il peso della tassazione dal lavoro al capitale. Tale obiettivo, come è noto, contrasterebbe con le tendenze fatte registrare in Europa negli ultimi anni, dove a causa del crescente peso politico dei gruppi imprenditoriali e finanziari e delle difficoltà nel contrastare l'evasione e la fuga dei capitali, gli Stati membri hanno progressivamente ridotto le aliquote sulle attività finanziarie e sui redditi d'impresa.
Una inversione di tendenza rispetto alle politiche finora praticate richiederà interventi a livello non solo nazionale ma anche europeo, dove bisognerà al più presto superare i deludenti esiti del vertice di Nizza in materia di tassazione. Si dovranno in tal senso sostenere, all'interno delle istituzioni comunitarie, tutte le iniziative volte a stabilire un tetto minimo anche per le aliquote sui redditi derivanti da attività finanziarie. Inoltre, si dovranno promuovere forti limitazioni al segreto bancario, per arginare i fenomeni di elusione e di evasione in corso e per contrastare lo sviluppo dei cosiddetti "paradisi fiscali".
Sempre a livello europeo, occorrerà partecipare a tutte le iniziative miranti alla introduzione della cosiddetta Tobin tax, una tassa sulle transazioni finanziarie effettuate in valuta estera. Questa tassa, come è noto, è stata ideata dal premio Nobel per l'economia James Tobin al fine di ridurre le transazioni speculative sulle valute ed ottenere così una maggiore stabilità sul mercato dei cambi. Tale maggiore stabilità si tradurrebbe, tra l'altro, nella possibilità di praticare politiche di riduzione dei tassi d'interesse con minori rischi di fughe di capitali. Naturalmente, perché si ottengano simili risultati è necessario promuovere l'introduzione della tassa almeno a livello europeo, su tutte le transazioni effettuate in valute diverse dall'euro. Una tassa dello 0,5% applicata dai soli paesi dell'Unione monetaria europea consentirebbe di stabilizzare la quotazione dell'euro, accrescerebbe il grado di autonomia della politica monetaria della Banca centrale europea, e permetterebbe oltretutto di aumentare le risorse di bilancio comunitario. Ad ogni modo, è bene chiarire che la Tobin tax va vista come un tassello del più ampio progetto di riforma in senso democratico del palinsesto dell'Unione europea e delle istituzioni monetarie internazionali, un progetto ambizioso e rilevantissimo, al quale da tempo dedichiamo il massimo impegno politico.
Va tuttavia precisato che la Tobin tax può essere adottata anche in funzione di obiettivi più immediati di quello originario. Col passare del tempo, infatti, la tassa è stata sempre più spesso invocata non tanto per stabilizzare i cambi, quanto più semplicemente per distribuire reddito attraverso un prelievo sui movimenti di capitale. Non va dimenticato, infatti, che se la tassa venisse applicata a livello mondiale, il gettito supererebbe i 1.500 miliardi di dollari all'anno. Benché fondata su un'aliquota unica per tutte le transazioni, la tassa avrebbe tra l'altro carattere implicitamente progressivo, colpendo soprattutto gli operatori dediti alla speculazione, cioè coloro che ogni giorno effettuano la maggior parte delle transazioni finanziarie. Per giunta, se introdotta a scopo di prelievo, la tassa può essere coerentemente applicata anche solo a livello nazionale, e su tutti i tipi di scambi finanziari. E' nostra intenzione, pertanto, affiancare alla battaglia internazionale per la Tobin tax una proposta di introduzione di una tassa dello 0,03% sul valore di tutti gli strumenti finanziari scambiati sui mercati mobiliari nazionali. Anche ammettendo una riduzione del volume degli scambi derivante dall'aumento dei costi di transazione, questa tassa dovrebbe assicurare al fisco italiano un gettito annuo non inferiore ai 3000 miliardi.
Sempre riguardo agli interventi fiscali di livello nazionale riteniamo opportuno che, terminata la fase dell'emergenza finanziaria, il Paese si interroghi sulla effettiva distribuzione dei sacrifici sostenuti negli anni 90. Come abbiamo già accennato in precedenza, il cosiddetto risanamento si è concretizzato principalmente nell'aumento delle tasse, nel rapido abbattimento dell'inflazione e in una politica di forte contenimento salariale. Se si ricorda: che la distribuzione dei carichi fiscali è stata tendenzialmente neutrale o regressiva; che il rapido calo dell'inflazione ha tenuto alti per lungo tempo i tassi d'interesse reali favorendo i possessori di rendite e danneggiando lo Stato debitore (ovvero i contribuenti) e i sottoscrittori di mutui; che la compressione salariale ha consentito alle imprese di appropriarsi di tutto il guadagno di produttività del decennio; si può allora senza dubbio affermare che i famosi sacrifici per il risanamento e per l'ingresso in Europa si sono scaricati in modo del tutto iniquo, soprattutto sul lavoro dipendente e sulle categorie sociali più deboli.
Queste osservazioni sull'iniqua distribuzione dei sacrifici degli anni 90 costituiscono una evidente legittimazione alla introduzione di un'imposta sull'intero patrimonio nazionale. La nostra proposta consiste in un prelievo limitato nel tempo sull'intero ammontare delle attività finanziarie e reali di proprietà di persone fisiche e giuridiche residenti in Italia, fatta eccezione per il valore della prima casa non di lusso e per i patrimoni inferiori ai 100 milioni. Il calcolo dell'aliquota verrà effettuato in base a un obiettivo minimo di gettito di 15.000 miliardi annui, un ammontare di gran lunga inferiore ai soli guadagni ottenuti ogni anno dai possessori di attività finanziarie per effetto del calo dell'inflazione.
Un ulteriore ambito di riforma fiscale è quello dell'imposizione indiretta. Negli ultimi anni le politiche di governo hanno generato due effetti perversi: un aumento generale del prelievo indiretto, notoriamente sperequativo poiché tendente a colpire i consumi e non i risparmi; e un uso sempre meno discriminante dello stesso, indipendente cioè dalla natura dei beni soggetti a tassazione. Questa linea di intervento andrà urgentemente rivista: occorrerà da un lato fermare la crescita dell'imposizione indiretta, e dall'altro ripartirla in un modo più mirato, che consenta di colpire i beni di lusso e gli inquinanti e che invece riduca il carico sulle innovazioni eco-compatibili e sui beni di merito o di prima necessità. E' importante ricordare, in tal senso, che al summit di Kyoto sull'ambiente venne messa in luce l'assoluta necessità di adoperare lo strumento fiscale al fine di orientare l'attività economica e i consumi verso un sentiero di sviluppo ecologicamente sostenibile. Un obiettivo del tutto disatteso dal governo, che dopo aver introdotto la carbon tax ha poi frettolosamente provveduto a depotenziarla e ad assicurare 3.800 miliardi di sgravi fiscali ai primi accenni di incremento dei prezzi della benzina e del gasolio. Una simile, ipocrita linea di intervento politico va assolutamente condannata. La carbon tax andrà riportata a pieno regime, e ulteriormente potenziata, al fine di superare un tetto minimo di 3000 miliardi annui di entrate. E a tal proposito è bene aggiungere che l'unico modo razionale per garantire la piena equità di simili interventi sarà sempre e soltanto quello di affiancare all'incremento delle tasse ambientali il corrispondente decremento delle tasse sul lavoro e sui redditi più bassi.
Le proposte menzionate, di tassazione delle transazioni finanziarie e dei patrimoni e di riforma dell'imposizione indiretta, andranno naturalmente inserite in un quadro più generale di riforma fiscale, che comprenda i seguenti obiettivi: la progressiva abolizione dei sostituti d'imposta sulle attività finanziarie, al fine di ripristinare la generalità dell'imposta sul reddito e di estendere la base imponibile soggetta a tassazione progressiva; l'abolizione dell'ICI sulla prima casa non di lusso; una revisione generale delle fonti di finanziamento degli enti locali, allo scopo di evitare eccessive sperequazioni e divergenze di prestazioni sociali a livello territoriale. Infine, a completamento del quadro di riforma, occorrerà aggiungere una lotta sistematica all'evasione fiscale, attraverso il potenziamento delle risorse dell'apparato ispettivo e lo sviluppo dei meccanismi incentivanti. Occorrerà in particolare accrescere la frequenza delle ispezioni, a fronte di un controllo medio ogni 12 anni attualmente previsto per le società con capitale superiore ai 50 miliardi; inoltre, si dovrà incrementare l'efficienza dei controlli, in modo da velocizzare la riscossione delle entrate accertate.
Questo programma, da attuarsi mediante provvedimenti nazionali e internazionali, darà luogo ad una più equa distribuzione del "costo dello Stato", favorendo per questa via una rinnovata fiducia nei confronti dell'intervento pubblico in Italia.
Per concludere, anche considerando i soli interventi praticabili su scala nazionale, il nostro progetto di riforma della politica fiscale (basato su un nuovo sentiero di gestione del debito pubblico, sulla introduzione di tasse su transazioni e patrimoni finanziari, sulla riforma dell'imposizione diretta e indiretta e su una serrata lotta all'evasione) consentirebbe di ricavare risorse aggiuntive per oltre 60.000 miliardi annui, che potrebbero esser destinate al potenziamento mirato della spesa pubblica e alla riduzione dei carichi fiscali sul lavoro e sulle categorie sociali più svantaggiate. Una linea di politica economica assolutamente realistica e praticabile, la cui mancata attuazione deriva soltanto dalla resistenza politica dei gruppi di interesse avversi all'avvio di una nuova stagione di conquiste sociali.
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