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Da "Umanità Nova" n. 3 del 26 gennaio 2003

Operazione Babilonia/3
Gli USA tra l'autunno e la guerra globale

Pubblichiamo la terza ed ultima parte del lungo saggio di Giacomo Catrame dedicato al contesto geopolitico in cui si inserisce la guerra che gli Stati Uniti si accingono a scatenare contro l'Iraq. La prima parte "Operazione Babilonia/1. Guerra all'Iraq o all'Arabia Saudita?" è uscita sul numero 43 del 2002. La seconda è comparsa sullo scorso numero di UN.

GLI USA TRA L'AUTUNNO E LA GUERRA GLOBALE

La dottrina Bush che sottende la prossima guerra all'Iraq può essere considerata come il manifesto di fondazione del moderno impero americano. Usiamo la parola impero non nel senso dato a questa dall'ineffabile professor Negri, il quale afferma che il presunto Impero non ha centro e nasce dalla fine degli stati nazionali. In realtà la situazione è esattamente inversa: gli stati nazionali continuano ad esistere ed esistono tra loro rapporti di forza differenti, ed esiste un impero geograficamente localizzato negli Stati Uniti la cui origine è da ricercarsi nella posizione di assoluta preminenza politica, militare ed economica di questi ultimi nei confronti degli altri stati del mondo.

La concezione americana dei rapporti tra gli stati del mondo non è casuale, né nasce dalla "volontà di potenza" delle élite made in USA. Le classi capitalistiche americane e i ceti politici che esse esprimono hanno piena coscienza che la continua espansione e il controllo dei fattori economici (materie prime, risorse energetiche e forza lavoro mondiale) globali sono le condizioni che permettono all'economia americana di produrre profitto e di controllare una fascia cospicua dei propri salariati tramite la promozione di uno stile di vita basato sull'impiego massiccio di risorse non rinnovabili. Nella pubblicistica di sinistra sugli Stati Uniti si pone (per altro giustamente) l'accento sulla continua produzione di lavori sottopagati, sulla diffusione della povertà e sul degrado da Terzo mondo delle aree urbane delle ex città industriali. Questi fenomeni sono ovviamente veri e sono riconducibili alla peculiarità della società capitalistica americana che non ha mai elaborato istituti come quelli europei tesi a contenere le conseguenze più devastanti dello sviluppo capitalistico. Questo è avvenuto fondamentalmente per tre motivi: l'assenza negli Stati Uniti di classi prodotte da modi di produzione precapitalistici ha eliminato la necessità per le classi capitalistiche USA di contrattare il potere con altre sedimentazioni sociali e quindi di doversi alleare con le classi subalterne allo scopo di affermare il proprio potere; la peculiare composizione del proletariato americano, costituito da successive ondate di emigranti collocate su gradini differenti di una lunghissima scala etnico-sociale e profondamente divise tra loro, nel corso del Novecento infatti solo l'esperienza degli IWW ha provato a rompere la segmentazione etnica della forza lavoro americana per altro con apprezzabili risultati esclusivamente per un breve periodo (la stessa repressione feroce e armata di questo movimento e di ogni tentativo internazionalista sviluppato in America è stata resa possibile dalla profonda segmentazione etnica dei salariati); l'assenza di un movimento operaio con dichiarate simpatie per i regimi socialisti dell'Est da tenere buono onde evitare di avvantaggiare l'allora competitore globale sovietico. Questo insieme di ragioni ha fatto sì che gli USA abbiano sviluppato una struttura sociale affatto diversa rispetto a quella europea, sia all'interno delle classi subalterne divise per linee etniche e costituite da settori relativamente benestanti e una vera e propria sottoclasse di disoccupati cronici, "working poor", carcerati e sfigati di vario tipo i quali non hanno né diritti né reddito, sia all'interno delle classi dominanti dove, rispetto all'Europa la componente specializzata nella mediazione sociale è praticamente inesistente mentre quella di provenienza militare o legata allo sviluppo degli armamenti ha un peso incomparabilmente più alto rispetto a quella dei paesi europei e del Giappone.

Questo insieme di ragioni ha fatto sì che gli Stati uniti presentino fenomeni di povertà tra i salariati estremamente visibili e percepibili in modo esplicito, ma questi non vanno confusi con la situazione generale del lavoro in America. La precarietà lavorativa è sicuramente generalizzata, ma la situazione salariale è profondamente diversa da quella europea mentre il, nomadismo lavorativo è ampiamente accettato e considerato "normale" dai lavoratori americani (ogni tanto dovremmo ricordarci che il 37% delle case americane sono "su ruota", senza fondamenta e posizionabili in qualsiasi area abbia i necessari attacchi, e spostabili da un'area residenziale all'altra). In altre parole la parte maggioritaria dei lavoratori americani vive in condizioni precarie ma con stipendi più alti di quelli europei. Questo spiega perché il costo del lavoro americano resta più alto di quello europeo e giapponese. Venticinque anni di guerra ai lavoratori, fatta di distruzione dei diritti sindacali, precarizzazione dei rapporti lavorativi e trasferimento in Messico o in Estremo Oriente di parti consistenti (anche se tecnologicamente arretrate) del processo produttivo non sono bastate ad abbattere a sufficienza i costi vivi dei capitalisti americani.

La soluzione cercata dalle classi capitalistiche americane è stata quella di abdicare al loro ruolo di coordinatori dell'economia capitalistica globale per puntare a ridisegnare l'insieme dei rapporti economici globali in modo da rimediare alla crisi di profittabilità nella quale erano immersi dalla fine degli anni Sessanta.

Le direttrici di quest'offensiva sono state tre: la prima è stata quella di abbattere i prezzi delle materie prime e delle risorse energetiche, la seconda è stata l'imposizione dei propri prodotti ai mercati esteri contemporaneamente alla chiusura dei propri, la terza è stata quella di sviluppare nuovi prodotti in campi ad alto livello tecnologico (come le biotecnologie) da imporre sui mercati mondiali. In altri termini la famosa e fin troppo citata globalizzazione che coincide con una fase di monopolio imperialista statiunitense che le classi dominanti degli altri paesi a capitalismo sviluppato non sono assolutamente in grado di contrastare seriamente. Il ritorno in grande stile della guerra come strumento di perseguimento degli obiettivi di quest'offensiva è la naturale e logica conseguenza di questa situazione: gli Stati Uniti necessitano di imporre il loro dominio utilizzando mezzi che siano insieme efficaci nel distruggere la minaccia immediata al loro potere e utili come esempio per gli alleati vassalli casomai fossero tentati di mettersi in competizione con loro.

Inoltre, il ruolo di dominio militare americano risulta utile agli Stati Uniti per mantenere l'assoluta predominanza sul capitale mobile mondiale, evitando che sorgano borse concorrenti capaci di intercettarne parti consistenti. Il capitale mobile mondiale è necessario agli Stati uniti per due motivi: in primo luogo per compensare il rosso nella bilancia commerciale derivante dai costi più alti dei prodotti americani rispetto a quelli degli altri paesi, in secondo luogo per rastrellare nel mondo i capitali necessari al continuo sviluppo della loro struttura economica sottraendoli nel contempo ai possibili competitori. In altre parole le classi dominanti degli Stati Uniti (nella doppia componente economica e politica) operano come rastrellatori del plusvalore prodotto a livello globale allo scopo di mantenere una posizione di predominio sulle altre classi dominanti. Nel farlo, naturalmente, hanno trovato alleati in alcune frazioni (o nel caso inglese o israeliano nell'insieme) delle classi dominanti dei paesi cosiddetti alleati. Queste ultime ottengono dal loro posizionamento assolutamente subalterno e non conflittuale nei confronti della potenza dominante non pochi vantaggi di tipo economico (accesso subordinato ma privilegiato a determinate risorse, possibilità di esportare nell'unico mercato che conti veramente, quello americano) e di status internazionale che giustificano la loro condizione di eterni subordinati nei confronti dei padroni imperiali. I rapporti tra i dominanti USA e quelli del resto del mondo sono da inquadrare in quest'ottica, dove diventa chiaro perché il massimo di opposizione possibile ai disegni americani è quello mostrato dal cancelliere tedesco Schoedrer, e la stessa Cina (teorico competitore globale americano) non può comportarsi diversamente da un vassallo per non perdere l'accesso al mercato USA. È pur vero che esistono frazioni di dominanti che teorizzano lo sviluppo indipendente di una "potenza europea" piuttosto che di una asiatica, ma questi ipotetici sviluppi sono, per ora, destinati a restare nel mondo dei sogni delle classi dominanti dei paesi non centrali.

Per quanto riguarda l'interconnessione tra le vicende internazionali e il conflitto di classe, dobbiamo ricordare da un lato che qualsiasi schieramento a favore della nascita di una potenza capitalistica alternativa a quella americana non può che consegnarci legati mani e piedi agli ipotetici competitori degli Stati Uniti soprattutto nel caso più che probabile di una guerra tra potenza (e non di semplici operazioni di controllo e conquista come quelle alle quali stiamo assistendo in questi anni), dall'altro non possiamo dimenticare che la condizione di supremazia assoluta degli USA permette a questi ultimi una politica di controllo della propria forza lavoro basata non solo sulla coercizione ma anche sul consenso. In assenza di fenomeni reali di costruzione di un collegamento tra le classi subordinate dei vari paesi a capitalismo sviluppato, e di sviluppo di mobilitazioni globali con obiettivi chiari ed unificanti, il conflitto di classe (quando si manifesta) rischia di restare confinato a livello locale senza ricadute sul conflitto tra gli stati e i capitali a livello internazionale.

Giacomo Catrame

 

 


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