Israele-Palestina, la sfida binazionale
Prefazione e primo capitolo di "Israele-Palestina, la sfida binazionale" di Michel Warschawski. Luglio 2002.


recensione e indice del libro

Prefazione – Vivere insieme
Oggi sono esattamente due anni che Elias, Inbal e Yohanan, tre amici, colleghi e compagni, sono morti nel bel deserto di Ayn Gedi, portati via dalle acque di un wadi in piena, in un banalissimo incidente. Io ho avuto la fortuna di sopravvivere, tenendo tra le mie braccia il figlio di Elias, Ahed. Per varie settimane, la stampa israeliana e palestinese ha parlato molto di questo incidente, nonostante non avesse nulla di tanto eccezionale. La mia amica Simone Bitton, cineasta israelo-franco-marocchina, in una commovente cronaca pubblicata nella Revue d'Etudes Palestiniennes, ci ha fornito una chiave per comprendere questo affascinamento:
"Un banale incidente come quelli che capitano più volte ogni anno nel deserto era diventato un piccante fatto di cronaca sociopolitica: non tutti i giorni Israeliani e Palestinesi muoiono insieme nel momento in cui erano sul punto di vivere insieme Elias Jeraissi era redattore del mensile dell'AIC [Alternative Information Center] in arabo, un agguerrito militante del FPLP che aveva totalizzato più di dieci anni nelle prigioni israeliane. Egli aveva trovato un linguaggio comune con Inbal Perlson, che dirigeva la redazione del bimestrale in ebraico ed aveva appena terminato il dottorato in letteratura, dedicato alla memoria musicale e poetica arabo-giudaica. A Inbal piaceva immensamente scandalizzare i suoi amici arabi indossando minigonne provocanti e parlando ebraico "lì dove questo non si faceva". Yohanan Lorwin era l'unico credente del gruppo dell'AIC, un devoto ebreo venuto da New York, che qui aveva trovato l'occasione per esprimere la propria repulsione verso la degradazione del giudaismo da parte dei coloni [...].
La morte ha qualcosa di bello quando, per sbaglio, viene a suggellare ciò che resta di umano in un paese dilaniato dall'odio. I riti funebri hanno qualcosa di bello quando si susseguono in diverse lingue, religioni e culture rigorosamente applicate da agnostici per rispettare le famiglie di un amico morto. Chi non ha mai visto un marxista concludere una preghiera con un vibrante amen, chi non ha mai visto un musulmano raccolto in una chiesa né un cristiano porre una pietra sulla tomba di un ebreo non capirà mai fino in fondo ciò che accade in questo paese. Comunque, quel giorno, il sentimento di partecipazione era talmente unanime che sarebbe stato perfettamente normale che uno Stato binazionale venisse creato l'indomani in Israele-Palestina, e che i nostri amici annegati nel sole fossero stati i primi morti di morte naturale su questa terra riconciliata con se stessa [1]".
In un paese in cui la separazione – separazione fra Ebrei e Arabi, separazione fra credenti e laici, fra Occidentali e Orientali – è contemporaneamente un dogma e un modo di vivere, l'incidente di Ayn Gedi ha lasciato intravedere un'altra normalità, ed è questa eccezionale normalità del vivere-insieme che ha affascinato i media locali e ha fatto sognare per alcuni giorni migliaia di Israeliani e Palestinesi. Non era tanto la curiosità di fronte all'inusuale ad averli appassionati, ma ciò che essi hanno sentito come una promessa di una diversa possibilità, di gran lunga più rassicurante della più alta muraglia, del più potente dei ghetti.
È in quel momento che ho capito che noi non siamo condannati alla separazione, che la binazionalità non è solo il mezzo migliore per unire pace, sicurezza, giustizia e reciproco arricchimento per i nostri due popoli, ma anche una profonda speranza celata nel cuore di donne e uomini che da oltre cento anni si sbranano a vicenda in questo bel paese che alcuni chiamano Palestina e altri Eretz Israel.
25 gennaio 2001
Questo libro è dedicato ad Elias, Inbal e Yohanan,
"morti insieme nel momento in cui erano sul punto
di vivere insieme" (Simone Bitton)

1. Infine la divisione?
Il terzo millennio vedrà probabilmente la creazione dello Stato della Palestina. Quella che viene chiamata seconda Intifada, in realtà è la guerra d'indipendenza dei Palestinesi, e la violenza senza precedenti ostentata dall'esercito israeliano e dai coloni altro non è se non l'espressione, sia sanguinaria che patetica, di una rabbia coloniale e vendicatrice di fronte ad una rivolta di cui si conosce l'ineluttabile esito. Non sarà la prima volta negli ultimi cinquant'anni che una potenza occupante segnerà la propria sconfitta con un ultimo sussulto di aggressività, tanto criminale quanto inefficace.
Oltre tre decenni di occupazione della Cisgiordania e della striscia di Gaza sono trascorsi, prima di tutto perché gli Israeliani e i Palestinesi vogliono sbarazzarsi gli uni degli altri. I palestinesi vogliono sbarazzarsi dell'occupante e della sua violenza onnipresente, dei coloni e della loro arroganza senza limiti. Gli Israeliani, a loro volta, vogliono sbarazzarsi dei Palestinesi che impediscono loro di ricreare un ghetto esclusivamente ebraico, che possa inoltre fregiarsi di essere "l'unica democrazia in Medio Oriente".
Il progetto di "Stato ebraico e democratico" è andato a monte a giugno del 1967, con l'occupazione di più di due milioni di Palestinesi che il contesto politico dell'epoca non permetteva di espellere. La scelta era evidente: sia mantenere il carattere ebraico dello Stato, creando un sistema di apartheid per la popolazione araba, ponendo fine quindi alle pretese democratiche, sia dare diritti civili ai Palestinesi sotto occupazione, ponendo fine allo Stato ebraico. I dirigenti israeliani preferivano non scegliere, mantenendo uno stato di "occupazione militare provvisoria" ... provvisorietà che dura da oltre trent'anni. Questa non-scelta non solo ha consentito di lasciare aperte tutte le opzioni, compresa l'eventualità di un nuovo esodo palestinese miracolosamente provocato da una guerra, ma soprattutto ha lasciato tempo per creare nuovi fatti compiuti, in materia di colonizzazione, di sfruttamento delle risorse naturali e di ri-lottizzazione del territorio in vista di ulteriori annessioni.
In effetti, nel corso dei tre ultimi decenni, i territori occupati della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sono stati sconvolti: decine di migliaia di ettari di terra sono stati espropriati, decine di migliaia di alberi sradicati, migliaia di case arabe distrutte; più di centocinquanta colonie sono state create (una decina delle quali hanno oltre 10 000 abitanti), varie centinaia di chilometri di autostrade tutt'intorno sono state costruite per servire queste colonie, in cui oggi risiedono più di 350.000 persone, oltre 200.000 delle quali a Gerusalemme Est. La popolazione palestinese è stata confinata in meno del 60% del territorio e il resto è stato lasciato all'uso dell'esercito di occupazione e dei coloni.
Quindi, e contrariamente alle teorie di Meron Benvenisti sulla "irreversibilità dell'occupazione [2]", sembra che Israele stia per ritirarsi da più del 95% del territorio occupato nel 1967, smantellare la maggior parte delle colonie e permettere infine che si affermi una sovranità palestinese sui territori liberati. Il sogno della Grande Israele, o la sua espressione riveduta e corretta di una bantustanizzazione della Cisgiordania, il cui spazio e le cui risorse naturali resterebbero in gran parte sotto il controllo israeliano, ha cozzato contro la determinazione del popolo palestinese e la sua lotta per la libertà e l'indipendenza. La divisione in due Stati indipendenti si va concretizzando. Per la prima volta, lo Stato sionista è sul punto di dover tracciare dei confini al proprio progetto, segnando così la fine di una lunga tappa, in cui il fucile, l'aratro e il bulldozer decidevano, sul terreno, i limiti mobili, dinamici, della sovranità ebraica in Palestina. La creazione di due Stati sul territorio della Palestina storica pone fine a oltre trent'anni di una situazione che era in contraddizione con l'obiettivo sionista di uno Stato ebraico. In effetti, dal 1967, lo Stato d'Israele controlla l'insieme della Palestina ma, di conseguenza, governa anche una realtà binazionale, in quanto il concetto di "provvisorio" – concretizzato dalla decisione di tutti i governi israeliani di non annettere la Cisgiordania (salvo il territorio chiamato Gerusalemme Est) e la Striscia di Gaza e di mantenere una amministrazione militare - è sempre meno capace di dissimulare questa realtà.
Una delle ragioni che hanno spinto la stragrande maggioranza della classe politica israeliana ad accettare il principio di divisione è questa volontà di farla finita con il provvisorio, il non-compiuto, per cercare di trovare una specie di normalità nel cuore dell'Oriente arabo. Dopo più di mezzo secolo, Israele, in prevalenza, aspira ad essere uno Stato come gli altri e non più un'impresa di colonizzazione permanente per la quale la guerra è un modo di vivere, e la frontiera una linea eternamente da ridefinire. Uno Stato come gli altri, ma uno Stato ebraico.
Se la Dichiarazione dei principi di Oslo è vissuta dai Palestinesi come una promessa di liberazione e di autodeterminazione, per gli Israeliani suona come la promessa di una separazione e di un ritorno a una normalità in cui "noi staremmo finalmente tra di noi". "Loro tra di loro e noi tra di noi" era stato il martellante e vincente slogan elettorale di Ehoud Barak, il quale aveva incentrato la sua campagna intorno all'idea di separazione. Alcuni anni prima, era Yossef Sarid, noto dirigente della sinistra israeliana, che giustificava gli accordi di Oslo con la necessità di separarsi dai Palestinesi al fine di mantenere il carattere ebraico e democratico dello Stato d'Israele. Non la separazione come mezzo per giungere alla pace, ma la pace come mezzo per garantire la separazione! Paradossalmente, è la destra che, con estrema malafede, parla di coesistenza fra Ebrei e Arabi, dimenticando tuttavia di menzionare lo stato civile degli Arabi in questo progetto. Dopo la firma degli accordi di Oslo, nel 1993, la causa della pace e la causa della separazione sono, per gli Israeliani, la medesima cosa, possibilmente sotto forma di un regime di apartheid con i suoi bantustan palestinesi sotto dominio israeliano oppure, se non c'è alternativa, sotto forma di due Stati sovrani: uno Stato palestinese al fianco di uno Stato ebraico.
Tuttavia. Tuttavia, nello stesso momento in cui si tracciano le linee di demarcazione fra lo Stato ebraico e i Palestinesi, compare un nuovo concetto nei discorsi degli intellettuali critici israeliani; da una decina d'anni circa, serve da riferimento nei numerosi dibattiti e discussioni politiche, nei circoli universitari, nei media e nei forum di riflessione politica: si tratta del concetto di binazionalismo. Parimenti fra gli intellettuali palestinesi, anche se in maniera più marginale, questo concetto di binazionalismo ricorre giornalmente, particolarmente tramite gli scritti di colui che molti considerano come il più grande degli intellettuali palestinesi degli inizi del XXI secolo, Edward Said [3].
Una domanda è necessaria: da dove viene questo ritorno di interesse per il binazionalismo, proprio nel momento in cui sembra che le soluzioni politiche che si delineano si orientano piuttosto verso la separazione in due Stati nazionali? Paradossalmente, è all'epoca dell'attuazione degli accordi di Oslo, e dei suoi tanti imbrogli, che l'idea binazionale riaffiora: il rifiuto israeliano di accettare una vera divisione – con una frontiera che segni due sovranità, forse non uguali ma almeno simmetriche, in cui ognuna delle due entità indipendenti controlla le proprie frontiere, il proprio territorio, le proprie risorse naturali e la propria politica interna ed estera – ha fatto temere per molto tempo che gli accordi di Oslo e i seguenti negoziati non potessero portare alla costituzione di uno Stato palestinese indipendente. La prosecuzione di una dominazione israeliana sull'insieme della Palestina storica, pure costellata di bantustan palestinesi autogestiti, esigeva dunque una soluzione che rimpiazzasse la liberazione di territori con la concessione di diritti per la popolazione palestinese.
In un appello all'opinione pubblica israeliana pubblicato nell'aprile del 2000 sul quotidiano Haaretz, circa centotrenta intellettuali palestinesi di diverse opinioni politiche spiegavano perché il relativo fallimento del processo di Oslo potrebbe far tornare in auge la soluzione binazionale: "Noi lo affermiamo senza alcuna ambiguità: ci sono solo due opzioni per una giusta soluzione della questione palestinese. La prima è la formazione di uno Stato palestinese indipendente che goda di una sovranità completa sull'insieme dei territori occupati nel 1967, con Gerusalemme per capitale, il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e il riconoscimento da parte di Israele della propria responsabilità nell'ingiustizia perpetrata nei confronti del popolo palestinese. Un simile Stato palestinese sarà fondato sulla base dei principi di democrazia e di rispetto dei diritti della persona, così come sono stati definiti nella Dichiarazione palestinese d'indipendenza del 1988. L'altra opzione consiste nello stabilire, sul territorio della Palestina storica, uno Stato democratico e binazionale per i due popoli [4]".
Molte centinaia di intellettuali e militanti israeliani, peraltro, risposero positivamente all'appello dei loro colleghi palestinesi, molti dei quali optando per la prospettiva binazionale che veniva suggerita. Questa presa di posizione ha dato luogo a un ampio dibattito nei media israeliani, poiché gli ideologi della sinistra sionista si predisposero a difendere con le unghie e i denti la necessità di uno Stato ebraico contro ciò che essi chiamano la "nuova moda post-sionista".
Dunque, ciò che veniva a galla in questo dibattito, a ben guardare, è che, contrariamente al dibattito interpalestinese, la riflessione binazionale in Israele scaturisce meno dal fallimento del processo di Oslo che dalla crisi strutturale dello Stato ebraico stesso, e, secondariamente, dall'influenza del post-modernismo e della "politica dell'identità", molto in voga negli Stati Uniti, che per molti intellettuali restano una Mecca culturale.
Il progetto di Stato ebraico di Ben Gourion e dei padri fondatori di Israele aveva bisogno della formazione di una nuova nazione ebraica, omogenea e moderna: uno Stato-nazione, secondo la tradizione repubblicana e laica. Ma questo progetto non può avere successo, dal momento che i presupposti della concezione repubblicana non esistono: Israele non è uno Stato laico, il diritto di suolo è rimpiazzato dal diritto di sangue – è automaticamente cittadino israeliano chiunque sia di origine ebraica – e le minoranze non ebraiche non fanno parte del collettivo sovrano, essendo Israele definita come lo "Stato del popolo ebraico". Dunque, da una parte, queste minoranze non sono più marginali e, d'altronde, la comunità ebraica stenta sempre più a trovare dei riferimenti comuni e una definizione accettata da tutti di ciò che si suppone ne faccia un collettivo.
Donde, tutta una serie di domande si pongono alla società israeliana: cos'è l'uguaglianza in un paese che si definisc ebraico? Come parlare di democrazia se oltre il 20% dei cittadini non appartiene al collettivo sovrano? Cos'è la cittadinanza in un simile contesto? Quale laicità quando il sovrano è definito secondo criteri religiosi? E soprattutto: che significa "Stato ebraico" se non si pone in una prospettiva religiosa ma laica?
Se Israele non è una teocrazia, visto che è il Parlamento a suffragio universale a legiferare e non i rabbini, non per questo è una democrazia. Quelli che vengono chiamati i nuovi sociologi israeliani, in particolare Yoav Peled [5], suggeriscono il concetto di etnocrazia, che essi, in maggioranza, oppongono all'idea di una democrazia plurale, dove le diverse componenti etniche, religiose o nazionali possano trovare una vera espressione, sulla base di un'uguaglianza cittadina. È quindi proprio la crisi strutturale del progetto di Stato ebraico che, nel dibattito pubblico israeliano, apre la via alle alternative binazionali e multiculturali. Queste ultime si uniscono così alla riflessione critica di gruppi militanti antisionisti; questi, dagli anni Sessanta, sviluppavano la prospettiva binazionale come una alternativa radicale al regime sionista, considerato coloniale e strutturalmente segregazionista.
Esse si uniscono anche a una profonda tendenza che attraversa la società palestinese, per la quale il mantenimento dell'unità della Palestina, come quadro di riferimento e come soluzione ultima alla questione nazionale, permane un obiettivo, o per lo meno un sogno.
C'è tuttavia una differenza di fondo fra la riflessione attuale in Israele e quella dei Palestinesi. Per ques'ultimi, il binazionalismo è una opzione fra le altre, politica e pragmatica, nel quadro della loro lotta per la liberazione nazionale. Questa si potrebbe realizzare sotto diverse forme, ognuna delle quali, a suo modo, permetterebbe di esprimere l'identità nazionale palestinese così come si è affermata nel corso del secolo scorso e soprattutto dalla venuta alla luce dell'OLP nel 1967. Per i Palestinesi, l'identità nazionale viene prima della struttura politica nella quale essa si realizza e resta indipendente da qualunque forma di cittadinanza. Per gli Israeliani, invece, la questione stessa dell'identità pone problemi e rimane aperta. Le forme politiche dell'esistenza collettiva hanno determinato e continueranno a determinare la natura stessa del collettivo: ebraico o israeliano? Nazione o religione? Cittadinanza e nazionalità sono intrinsecamente legate e interdipendenti, giacché la politica determina largamente il contenuto dell'identità comune e le sue frontiere.
Ci troviamo dunque di fronte a due riflessioni parallele, l'una israeliana e l'altra palestinese, che partono da problematiche diverse e mirano a risolvere problemi distinti, ma che la realtà politica e demografica fa convergere verso ciò che, a termine, può diventare un progetto comune. La lotta emancipatrice del popolo palestinese insieme al fallimento del progetto sionista rimette in discussione le strutture e i modelli imposti da mezzo secolo di colonizzazione. Fra le diverse alternative che si delineano, l'opzione binazionale si afferma oggi come un denominatore comune, latore di uguaglianza, di rispetto delle specificità e di democrazia.

Note
[1] Revue d'etudes palestiniennes, nuova serie, n.9, primavera 1999
[2] Meron Benvenisti, The sling and the Club, Keter, Jerusalem, 1988, pagg. 11-56 (ebraico).
[3] Vedere, tra l'altro, Edward Said, Israel-Palestine, l'egalité ou rien, La Fabrique, Paris, 1999.
[4] Pubblicato in News From Within, aprile 2000.
[5] Yoav Peled, "Ethnic Democracy and the Legal Construction of Citizenship: Arab Citizens of the Jewish State", in The American Political Science Review, vol. 86, n. 2, 1992.