La lotta del popolo tibetano per l'autodeterminazione.
Intervistiamo
Claudio Cardelli, vicepresidente dell'Associazione
Italia-Tibet,
che ci parla dell'attuale fase della lotta del popolo tibetano contro l'oppressione
cinese e delle possibili azioni di solidarietà. Ottobre 2003.
La situazione del popolo tibetano appare oggi disperata:
nessuno osa attaccare la Cina, potenza in crescita con cui tutti vogliono
fare buoni affari. Per quali prospettive politiche lavorano i tibetani che
lottano per l'indipendenza?
Esiste una posizione “ufficiale” del Governo Tibetano in Esilio
e del Dalai Lama che propone da tempo l’idea di una “Genuina Autonomia”
nell’ambito della Repubblica Popolare Cinese. Esiste comunque una parte,
non precisamente quantizzabile, del mondo tibetano in esilio e nel Tibet occupato
che non accetta l’idea della Patria Perduta.
Penso che sulla carta la proposta del Dalai Lama sia ragionevole. Sin troppo.
In effetti non c’è ancora un qualcosa di concreto a cui fare
riferimento per dire che sia comunque una proposta praticabile. Fino ad oggi
la Cina non ha dato segni reali di voler accettare il minimo negoziato. Sembra
piuttosto che stia offrendo al Dalai Lama un’ultima possibilità
per rientrare in Tibet senza porre condizioni. Allo stesso modo il leader
Tibetano parla di ottimismo e di un possibile suo rientro a sua volta senza
“precondizioni” cercando di stressare il fatto che è necessario
allentare la diffidenza. Rimane il fatto che i cinesi hanno mandato due messaggi
molto pesanti all’indomani delle visite delle due recenti “delegazioni”.
L’esecuzione di un giovane monaco accusato di terrorismo e il rimpatrio
forzato, complice il governo nepalese, di 18 tibetani già ormai al
sicuro, cosi credevano, in Nepal. Al momento non appare esserci nulla al di
là di questi tentativi diplomatici di instaurare un dialogo con una
muta e sorda Pechino. Sembra che gli ultimi tentativi di resistenza organizzata
siano stati definitivamente annichiliti all’inizio degli anni ’90.
Immaginiamo che nel corso degli anni,
soprattutto nella diaspora si siano confrontate varie strategie di lotta contro
l'occupazione cinese. Ci può descrivere a grandi linee questo dibattito
e i suoi protagonisti?
All’inizio dell’occupazione negli anni ‘50 sicuramente i
tibetani cercarono di opporsi alla Cina anche con una resistenza armata ed
organizzata. In particolare furono i Khampa, una etnia molto fiera del Tibet
orientale, a dare in qualche modo del filo da torcere agli occupanti. Il movimento,
che è tuttora rimasto nella diaspora come “movimento d’opinione”
si chiamava Chushi Gang Druk (quattro fiumi sei montagne..) C’è
un forte senso di identità sia come etnia e sia come passato storico
tra i membri di questa organizzazione che si ritrovano puntualmente per raduni
o convegni L’organizzazione più significativa in India che abbia
in passato tentato di generare una qualche forma di resistenza o protesta
politica anticinese è senza dubbio la Tibetan Youth Congress dove sono
più o meno passati tutti i leader politici e istituzionali del Tibet
in Esilio. Diciamo che alcuni “hanno fatto carriera”all’interno
dei quadri dirigenziali governativi altri come Lhasang Tsering o Jamyang Norbu
hanno intrapreso carriere diverse. Il primo ha un emporio di libri a Dharamsala
l’altro è uno degli in tellettuali di spicco del cosiddetto “dissenso”
alla politica del Dalai Lama. E’ innegabile che per un certo tipo di
società come quella tibetana non sia semplice essere in aperto contrasto
con le posizioni “ufficiali”. D’altra parte la posizione
del Dalai Lama anche come capo spirituale, non può prescindere dall’astenersi
dal concetto di lotta armata o dall’uso della violenza in generale come
metodo di resistenza all’oppressore. In una recente intervista al quotidiano
Le Figaro il Dalai Lama ha affermato che "spera vi saranno altri (contatti
con i cinesi) e che sfocino in discussioni serie". A suo avviso "per
il momento non c'è nulla di nuovo sul fondo. Dagli anni '80 chiediamo
l'autodeterminazione e non più l'indipendenza. I cinesi questo lo sanno
molto bene". Il Dalai Lama prosegue dicendo che "le organizzazioni
della gioventù tibetana vogliono chiaramente l'indipendenza. Non sono
d'accordo con me. Ciononostante non siamo in conflitto". "Per essere
onesto, se la mia posizione dovesse fallire, quei giovani avrebbero il pieno
diritto di riprendere la fiaccola e di rivendicare l'indipendenza". "Bisogna
essere pazienti. La ripresa dei contatti con la Cina risale appena a un anno
fa. Ma se tra due o tre anni non ci saranno risultati, mi sarà difficile
spiegare ai giovani la fondatezza della "via di mezzo". In questo
senso va sottolineata l’eroica e silenziosa sofferenza di tanti religiosi
e religiose incarcerati per anni solo per possedere una foto del loro leader
spirituale politico o per aver scandito slogan indipendentisti.
Quali sono le forme e le strutture che
i tibetani si sono dati in patria e nella diaspora per lottare contro l'occupazione
cinese?
Questa è una domanda che poteva essere attuale fino agli inizi degli
anni ’90 quando i moti di Lhasa vennero soffocati nel sangue e migliaia
di tibetani furono incarcerati. Onestamente non vedo oggi nulla di efficacemente
organizzato al di là della linea “negoziato a tutti i costi”
del Dalai lama e del Governo Tibetano in esilio. La situazione è molto
preoccupante soprattutto per lo stato di degrado in cui versa la capitale
Lhasa ridotta orma, tra l’altro, ad un bordello centrasiatico La colata
di cemento che ricopre Lhasa e la forzata cinesizzazione della città
sono ormai irreversibili. Gli elementi originari tibetani sono spariti o appaiono
come il Potala o il Jokhang: freddi monumenti superstiti di un passato di
ieri ma che appare sempre più remoto. Si calcola che i cinesi siano
a Lhasa 200.000 contro 20.000 tibetani. Non occorrono commenti. Quando alcuni
dirigenti cinesi alcuni anni fa promisero che avrebbero “Affogato i
tibetani in un mare di han” non scherzavano per niente. Vorrei però
aggiungere che non sono così ottimista sulla stabilità futura
della Cina con buona pace degli imprenditori più o meno spregiudicati
molto allettati dalle produzioni a basso costo, senza diritti sindacali ecc.
ecc. Ma questo è un altro discorso che ci porterebbe molto lontano.
Ricordiamoci comunque la SARS e le recenti prese di coscienza in europa sulla
concorrenza sleale di Pechino…un po’ tardi!
Ci può dare alcune buone ragioni
per cui dei laici che non condividono la commistione tra religione e politica
dovrebbero sostenere la direzione che il Dalai Lama esercita sulla resistenza
tibetana?
Possono tranquillamente non sostenerla. In ogni caso la posizione del Dalai
Lama non mi sembra una posizione “religiosa” ma piuttosto etica.
Nel buddhismo esistono principi in cui si può esprimere riconoscenza
verso che ci offre la possibilità di esercitare compassione e pazienza.
Dunque anche un nostro acerrimo nemico. Principi difficili da digerire dalle
nostre parti dove per essere ascoltati occorre come minimo piazzare qualche
bomba o farsi saltare in aria. Una spirale orrenda e senza una fine visibilmente
prossima. Dunque perché non provare a considerare che si può
cercare un altro percorso? Nel caso del Tibet e della sua strategia di lotta
non violenta, in parte costituzionale per ragioni storiche culturali filosofiche
ecc, ritengo che potrebbe essere una buona occasione, anche se per noi concettualmente
traumatica, per rivedere un po’ tutto il nostro atteggiamento nella
soluzione dei conflitti. Non nego l’attrazione verso le utopie in generale
ma dopo quasi trent’anni di frequentazione di quel mondo penso che da
lì arrivino anche suggerimenti molto positivi per veri e profondi cambiamenti
individuali che si traducono poi, per forza, in collettivi. Non sono comunque
ottimista sull’efficacia immediata di questa direzione. Mi piace pensare
che sia però un “buon virus” che piano piano infetti un
po’ tutto il mondo.
Ci può dare le sue valutazioni
sulle implicazioni che il recente avvicinamento tra Cina e India produrra'
sulla questione tibetana?
E’ ovvio che una delle questioni che la Cina ha messo sul tavolo è
stata l’agibilità politica del Dalai Lama e dei tibetani in esilio.
L’India è comunque una grande democrazia ed un grande paese,
molto orgoglioso si badi bene, e che, sia pur tra mille obiettive difficoltà,
non ha nulla a che spartire con il regime cinese che racchiude in sé,
è la mia opinione, il peggio dei due modelli sociali in cui di fatto
si divide, o meglio si divideva, il mondo. Quello capitalista e quello marxista.
Guardate che cos’è la Cina oggi. Un paese di potenziali e forsennati
consumatori un po’ inebetiti dai karaoke senza uno straccio di libertà
democratica se non quella, appunto, di arricchirsi per consumare. Mi sembra
una fine un po’ ingloriosa. Dicevo dunque che, è una mia speranza,
l’India continuerà a garantire ai tibetani il loro diritto ad
organizzarsi, a manifestare, a far sapere al mondo la loro tragedia e a chiedere
sostegno morale e materiale.
Chi si sta muovendo oggi a favore del
Tibet nella società civile italiana ed europea e quali azioni di solidarieta'
ritiene necessario sviluppare?
La nostra Associazione Italia-Tibet ha passato quindici anni in cui si è
fatto di tutto per far conoscere alla società il mondo tibetano nel
suo complesso. Cultura, straordinaria, politica, storia, religione ecc. Devo
dire che è stato fatto un grande lavoro parallelo a tante altre associazioni
come la nostra in tutto il mondo. Oggi il problema del Tibet è, a mio
parere, un altro: quello di finire come tanti fenomeni modaioli a matrice
new age per essere appunto consumato digerito..espulso. Questo è un
grave rischio e anche gli stessi tibetani devono stare molto attenti e sapersi
amministrare. Servono testimonial dal mondo della cultura, dell’arte,
dello spettacolo, ma allo stesso tempo questi possono produrre aberranti suggestioni
sull’”uso” della cultura tibetana dalle nostre parti. Vedo
troppe commistioni che non mi piacciono e delle quali forse noi “promotori”
del Tibet siamo stati anche in parte, sia pur in buona fede, responsabili.
Quello che di molto interessante e concreto è successo in questi ultimi
tempi è invece la creazione in Italia, cosi come in altri paesi europei,
di un nutrito gruppo interparlamentare per il Tibet coordinato dall’on.
Gianni Vernetti in cui, sino ad oggi a parte i Comunisti Italiani, troviamo
esponenti di tutti i partiti. Tutto questo sta generando una serie di iniziative
molto concrete e di portata internazionale che non mancheranno di produrre
risultati interessanti non ultimo quello di far sentire ai nostri amici cinesi
che se vogliono far parte del consorzio civile internazionale devono fare
i conti anche con un’opinione pubblica che li vede e li giudica. L’interferenza
negli affari interni della madre patria, filastrocca tanto cara ai dirigenti
di Pechino, dovrà essere considerata come un diritto dei loro partner
a conoscere cosa succede dentro gli immensi confini del più grande
stato del mondo.
E di questo i cinesi devono imparare a rendere conto. Non è facile
ma il tempo passa e la storia cambia a volte repentinamente direzione. Questo
vale anche per il miliardo e mezzo di abitanti dell’ “Impero di
Mezzo”…quello sospeso tra la terra e il cielo…