La nuova
fase.
La
fase che è andata dal luglio 2001 al giugno 2003 si è chiusa
in maniera precipitosa, lasciando spazio a Berlusconi per riprendere l'offensiva
sul terreno sociale. La sparizione del movimento noglobal, i limiti dell'azione
Cgil, gli errori delle sinistre. Ma, nonostante tutto, il successo dello sciopero
del 24 e della Marcia Perugia-Assisi, stanno ad indicare intatte potenzialità.
REDS. Novembre 2003.
La fase che si è aperta con Genova (luglio 2001) ed è proseguita con la lotta sull'art.18, con lo sviluppo del movimento noglobal, con la nascita dei "girotondi" e il dilagare del movimento contro la guerra, si è chiusa tra maggio e giugno 2003 con una serie di sconfitte: la rapida vittoria di Bush nella guerra in Iraq e l'esito del referendum sull'art.18 (e prima c'erano state la sconfitta alla Fiat e la firma separata del contratto dei metalmeccanici). Nello stesso momento, conseguenza ed anche concausa della fine del ciclo, l'eclissi del cofferatismo e il risorgere della direzione "riformista" dei Ds. Tutto questo lo abbiamo già spiegato in una serie di articoli (La fase si è chiusa, Sinistre alla prova, ed altri). Berlusconi ha potuto realizzare molte delle cose che aveva in mente, ed altre non le ha realizzate più per contraddizioni interne alla sua coalizione che per paura dell'opposizione. Vediamo da vicino i vari soggetti della nostra "opposizione" all'inizio di questa nuova fase.
Il movimento noglobal/pacifista
Difficile
dire che sia in crisi: sarebbe meglio dire, forse, che non esiste più.
Il movimento era l'incontro tra una disponibilità di massa e direzioni
politiche che in qualche modo erano riuscite ad intercettarla. Ora rimane
la disponibilità di massa, ma non le direzioni. Le strutture a rete
che hanno "interpretato" il movimento e gli hanno dato una "forma"
si sono sfaldate: gran parte dei social forum delle grandi città non
esistono più (quelli di Roma e Milano, ad esempio), ed anche quelli
più piccoli sono in crisi; Rete Lilliput esiste solo di nome: in realtà
solo meno di un terzo dei suoi nodi funzionano ancora come tali; Attac non
è mai realmente decollata, e ora non si sa nemmeno in quale aeroporto
sia parcheggiata; i disobbedienti sono spaccati tra il settore legato ai centri
sociali del Nord Est e l'ala più vicina al Prc. Come in tutte le fasi
di riflusso, le domande sul che fare si impongono, e alcuni trovano le risposte
nella necessità di indurire lo scontro (dato che è
molto più faticoso domandarsi come riguadagnare il consenso di massa
perduto), mentre altri in quello di ammorbidirlo (ci sono sempre
delle elezioni vicino...): in ogni caso le domande vere fanno fatica ad imporsi,
perché le risposte romperebbero equilibri, metterebbero in discussione
le leadership, imporrebbero cambiamenti.
Così alla manifestazione a Roma del 4 ottobre contro la Costituzione
Europea ci si è trovati, secondo il Manifesto, in 30.000:
per gli standard italiani, un fallimento. E non solo numerico: il suo svolgimento,
con pezzi che a ogni costo volevano giocare il proprio ruolo, è stato
confuso e frammentato. Molti si consolano pensando alla Marcia Perugia-Assisi
del 12 ottobre alla quale hanno partecipato tra le 100.000 e le 200.000 persone.
In realtà il suo successo è una dimostrazione delle caratteristiche
della fase. La partecipazione non è stata stimolata da nessuna delle
reti esistenti: di bandiere, striscioni e volantini se ne sono visti ben pochi.
Il suo successo è stato dettato dalla spontanea iniziativa dell'associazionismo
locale (specie quello cattolico: molto forte la presenza degli scout). In
poche parole, come dicevamo: permane la disponibilità di massa, ma
non la fiducia nelle direzioni del "movimento". E ciò ha
avuto un'immediata ripercussione politica: la Marcia, senza direzioni politiche
avanzate che ne disputassero l'egemonia, è stata sopraffatta dalle
"istituzioni" (da Ciampi al Papa), e non ha lanciato un segnale
pubblico di radicalità antiguerra, a dispetto della disposizione dei
singoli partecipanti (che gridavano slogan molto combattivi).
Il movimento sindacale
Il movimento sindacale s'è staccato dal movimento noglobal dopo averlo
accompagnato per un annetto. Se l'è potuto permettere perché
ne ha percepito la debolezza, ed anche perché non sente più
l'urgenza di costruire un blocco sociale a sostegno del cofferatismo, data
la sparizione di quell'ipotesi politica. Così il 4 ottobre la Cgil
ha sfilato con la Ces, a Roma, con una partecipazione che secondo il Manifesto
superava le 100.000 persone, a favore della "riforma" della Costituzione
europea. Nei periodi di riflusso sono le organizzazioni strutturate, più
dei movimenti, a garantire un minimo di continuità alle mobilitazioni,
ma al prezzo della moderazione del loro impianto politico. Con la leggerezza
e la presunzione che le ha caratterizzate, le direzioni del movimento noglobal
non immaginavano un tale sorpasso: ancora a luglio all'assemblea preparatoria
del FSE a Genova, non avevano dato gran peso alla separazione della Cgil,
annunciando una manifestazione separata che sarebbe stata "oceanica".
Il riflusso ha scoperto la realtà di un movimento che non ha fatto
in tempo a darsi un minimo di strutturazione, interamente a causa dei limiti
dei suoi numerosi comandanti.
Percependo il cambiamento di fase, dopo iniziali incertezze, Berlusconi ha
deciso di attaccare sulle pensioni. La Cgil ha adottato un profilo dal quale
si deduce chiaramente che non ha alcuna intenzione di portare avanti una campagna
dura e coerente nel tempo, come in parte lo è stata quella a difesa
dell'art.18. Uno dei segnali in questo senso sta nella mancata fusione tra
Lavoro e Società (la minoranza interna guidata da Patta) e il settore
di Epifani, nonostante la prima si sia spesa non poco per questo esito; ma
Epifani non può permettersi che la corrente dalemiana al suo interno,
guidata da Panzeri, si strutturi e dia battaglia sul serio, cosa che accadrebbe
senz'altro se vi fosse una fusione percepita come spostamento a sinistra.
Epifani non si staccherà più da Cisl e Uil, e insieme a queste
darà vita ad iniziative di testimonianza: "grandi" manifestazioni
di protesta che non otterranno risultato alcuno. Come abbiamo scritto altre
volte, è finito il tempo in cui bastava "mostrare" le proprie
capacità di mobilitazione perché i governi scendessero a patti,
oggi c'è la destra al potere e la destra vuol "vedere le carte".
Le carte che dovrebbe giocare la Cgil dovrebbero essere ben più pesanti:
scioperi che colpiscano i settori più remunerativi, scioperi prolungati,
una campagna articolata sino al raggiungimento del risultato, ecc. Per battere
la destra occorre la volontà di mettere in campo una serie di misure
gravi che facciano perdere soldi alla controparte. Ma la Cgil non vuole in
alcun modo toccare il Capitale (spera che il prossimo presidente di Confindustria
sia più "buono"), ma solo testimoniare il proprio disaccordo,
in modo da mostrare alla propria base che qualcosa va facendo ed anche sperare
di spingere il governo a non andare oltre.
La Cgil, e ora anche Cisl e Uil, ci abitueranno così ad una specie
di ginnastica manifestaiola che ci porterà alla "grande"
manifestazione per il Sud (un classico del sindacalismo nostrano), un'altra
per la scuola pubblica, e magari un'altra per le pensioni. Nulla che possa
sul serio impensierire questo governo. Del resto il sindacalismo di base non
è attrezzato culturalmente per battere questa impostazione: anche esso
è abituato a pensare che quel che più importa è la "manifestazione",
anche se inoffensiva: vi è una parte del sindacalismo di base (Cub)
che ha addirittura proclamato uno sciopero generale separato per il 7 novembre
con "concentramento" a Milano, uno sciopero che naturalmente non
farà nemmeno il solletico al grande capitale.
Ma anche sul terreno sindacale, come per la Marcia Perugia Assisi, abbiamo
assistito il 24 ottobre ad una enorme partecipazione sia allo sciopero sia
alle manifestazioni provinciali (a Milano 200.000 persone). Il che sta a testimoniare,
di nuovo, che persiste la volontà di massa di mobilitarsi. Ma è
una volontà che non si accompagna ad una coscienza della necessità
di superare i limiti imposti dalle direzioni sindacali.
Le
direzioni politiche della sinistra
Come abbiamo già scritto, la nuova fase vede la vecchia direzione Ds
di nuovo in sella. Per due anni, poveretti, si sono presi un bello spavento
e dunque, ora, prima di buttarsi con la loro classica noncuranza in nuove
avventure, tastano bene il terrno per timore di provocare, con un passetto
sbagliato, un terremoto. La proposta di Prodi di presentarsi con una lista
unica, come Ulivo, alle elezioni europee, era nata come una provocazione per
mettere in difficoltà i Ds e farli apparire pubblicamente come gli
unici responsabili della mancata unità della coalizione. Fassino ha
passato un po' di tempo a esplorare, e alla fine ha capito che la sinistra
interna era davvero moribonda, con un Cofferati a Bologna autocostretto a
occuparsi di cooperative e tortellini, e così s'è detto che
questa era la volta buona per fare un altro passo nella direzione del dissolvimento
dei Ds in quanto partito di sinistra. L'approdo strategico del gruppo dirigente
dei Ds infatti è un partito vagamente progressista e che non sia più
costretto a tener conto della propria base sociale. Fassino, pur con i piedi
di piombo (terrà un referendum cercando di coinvolgere la sinistra
interna), ha imboccato la strada della lista unica, immaginando che il passo
successivo potrebbe essere quello del partito unico. In effetti la manovra
sta risultando senza scosse. La sinistra interna ai Ds continua a perdere
pezzi: oggi anche i veltroniani si sono buttati nella barca della lista unica.
Un salto "di qualità" impensabile soltanto 6 mesi fa, quando
Cofferati impallinava qualsiasi proposta di questo genere e aspettava solo
un momento propizio per formare il suo partito.
Intanto i capi "riformisti" si esercitano per quando saranno al
governo, e, di nuovo, favoriranno il sorgere di un nuovo Berlusconi: qua e
là lasciano trapelare che sulle pensioni si può ragionare (e
mettendosi alla propria sinistra lo stesso Pezzotta), così come sulla
permanenza dei nostri militari in Iraq (Fassino il giorno dopo la nuova risoluzione
dell'Onu), mentre a Capri D'Alema afferma che in caso di vittoria del centrosinistra
non si potranno azzerare le riforme della Moratti.
E il Prc? Ha svoltato a destra offrendo al centrosinistra una alleanza senza ottenere nulla in cambio, e contribuendo in questo modo al rafforzamento dei "riformisti" che si ritrovano da giugno senza nemici a sinistra. Ora la moda nel partito sembra sia quella di mettere insieme i vari pezzetti più o meno alla sinistra dei Ds per negoziare poi il programma di governo con Ds e Margherita. Che illusione! L'unico strumento di pressione verso i "riformisti" (oltre ai movimenti di massa) è proprio la minaccia di non fare alcun accordo elettorale. Ma la minaccia oggi non c'è più. Il Prc ha la pistola scarica, e se l'è scaricata da sola, senza che nessuno l'aiutasse. Una tale impostazione non impensierisce certo i "riformisti"; come dice Polito, direttore del quotidiano di D'Alema, l'alleanza con forze alla propria sinistra è utile purché ciò avvenga sotto la cmpleta egemonia riformista perché la loro presenza serve ad evitare nella società fenomeni "nichilisti" (traduzione: proteste sociali troppo radicali). Altro discorso invece sarebbe la costituzione di alleanze dal basso per un programma di rivendicazioni da agitare sin da ora: compito però assai arduo oggi, in questa nuova fase di scarso protagonismo di massa (ma noi speriamo che qualcuno svolga questo compitino).