Sinistre alla prova.
Dal luglio 2001 al giugno 2003 abbiamo vissuto una fase per certi versi straordinaria, di radicalizzazione sociale, che però si è chiusa con la vittoria di Bush, la sconfitta del referendum, il rilancio del gruppo dirigente del centrosinistra. In questa sede tentiamo un primo bilancio delle correnti politiche della sinistra che in questa fase si sono mosse mettendo alla prova dei fatti le proprie idee e la propria forza. REDS. Settembre 2003. Prima parte.


Periodi e fasi

L'analisi politica marxista divide generalmente i cicli delle lotte sociali in "periodi" e "fasi". I periodi sono un insieme di anni (vedi "Periodi di ascesa e di riflusso") costituiti da una omogenea disposizione da parte delle larghe masse alla mobilitazione sociale. Quelli che sono globalmente denominati "anni settanta", ad esempio, segnarono un periodo omogeneo di ascesa delle lotte sociali che andò dal 1968 al 1980. Dal 1980 al 2001 abbiamo avuto un periodo di riflusso. I periodi sono individuabili anche sulla base di parametri oggettivi (numero degli scioperi, consistenza delle manifestazioni, numero degli iscritti ai sindacati e ai partiti di sinistra, diffusione della stampa alternativa, ecc.), i cui valori sono alti nei periodi di ascesa, bassi in quelli di riflusso. I periodi non sono però del tutto omogenei al proprio interno: a loro volta vi ritroviamo dei sottoperiodi, che chiamiamo "fasi" caratterizzate da una minore o maggiore presenza dell'attività delle masse oppresse. Gli ultimi due anni (luglio 2001-giugno 2003) hanno segnato un secco stacco rispetto al periodo precedente, che era da considerarsi, pur con alti e bassi, di riflusso. Potremmo domandarci se abbiamo vissuto, negli ultimi due anni, la prima fase di un nuovo periodo di ascesa o una delle tante fasi di ascesa temporanea e precaria interna al periodo di riflusso aperto dalla sconfitta alla Fiat del 1980. Non affronteremo la questione in questa sede. Quel che ci interessa è riflettere sul periodo trascorso da un particolare punto di vista, che espliciteremo dopo una breve premessa.

Ogni fase di ascesa delle lotte sociali (e a maggior ragione, ogni periodo) costituisce per le correnti politiche interne alla sinistra una occasione per mettere alla prova la solidità delle proprie idee e delle proprie strutture organizzative. Nella massa dei giovani, dei lavoratori, delle donne, delle nazioni oppresse, si agitano sempre innumerevoli progetti politici. Ma solo alcuni riescono, montando e cavalcando l'onda dell'ascesa delle lotte, a mettersi "in sintonia" con le forze che si muovono dal basso e a far prevalere i propri obiettivi politici e organizzativi. Negli anni cinquanta ad esempio quello castrista era solo uno dei tanti gruppi che si muovevano nell'arena politica cubana e, certo, non il più numeroso. Il fatto che sia stata questa corrente politica, e non un'altra, a raggiungere l'obiettivo politico della caduta della dittatura, sta a significare, ovviamente, che essa era dotata più delle altre di una modalità organizzativa e di azione adatta alle circostanze. Era cioè "in sintonia" con le masse, e con i tempi della storia. Le correnti politiche sono sempre costituite da minoranze attive: un insieme di attivisti, strutturati tra base e vertice (cosa che a volte modifica e condiziona fortemente la loro azione), portatori di una tradizione politica che è al tempo stesso teoria "astratta" e modalità di azione. Queste minoranze sono in costante lotta tra di loro, perché ognuna è animata dal desiderio di prevalere sulle altre, per affermare il proprio progetto e conquistare un crescente consenso tra le larghe masse. La lotta tra queste minoranze si dà al di fuori dell'attività concreta delle masse, le quali masse, tra l'altro, gran parte del tempo non sono politicamente attive.

Nei periodi di ascesa accade questo fenomeno: le masse sino a quel momento inerti o impegnate su terreni parziali e/o "invisibili" (ad esempio nella quotidiana presenza sindacale sul proprio posto di lavoro) scendono nell'arena politica con l'intento di condizionare il gioco: impedire i disegni del governo, oppure cambiarlo, abbatterlo, ecc. Ma, dato che vengono da un periodo precedente di inattività, non hanno alcuna esperienza (o ne hanno di parziali o di distanti), nè struttura organizzativa per intervenire. Dunque si "servono" delle organizzazioni e delle idee che trovano "nell'arena": danno cioé una rapida occhiata all'offerta delle varie correnti politiche, e scelgono quale in quel determinato momento fa al caso loro. Naturalmente non è mai il caso che determina "l'incontro" tra una corrente particolare e le masse. La corrente per favorire questo incontro deve aver lavorato in una certa maniera: essere visibile nell'arena, possedere strutture in grado di supportare l'improvviso consenso, offrire idee e pratiche in sintonia con i sentimenti dominanti delle masse in movimento. Il successo di un periodo di ascesa, la possibilità cioé da parte delle masse di raggiungere dei risultati, anche parziali, dipende largamente dalla qualità della loro scelta, la scelta della corrente politica da favorire. Ma la scelta è condizionata dall'offerta.

Facciamo un esempio. Il sessantotto aveva portato d'improvviso una nuova generazione alla ribalta della politica. Quando i giovani hanno fatto irruzione nell'"arena" hanno trovato un PCI che, spaventato e ostile nei confronti di questa massa di giovani scalmanati e radicalizzati, era scappato sugli spalti rifiutando qualsiasi confronto dialettico. I giovani si sono ritrovati di fronte l'ossessiva "offerta" di organizzazioni maoiste (formatesi prima del '68) che parevano rispondere ai loro bisogni di ribaltamento "immediato" del sistema. Le hanno "usate" per un po', poi a causa della povertà di quell'offerta politica (erano organizzazioni con pratiche grottesche) le hanno mollate. Ed hanno creato delle "loro" organizzazioni, dato che nell'arena non avevano trovato altro. Sono nate così Lotta Continua, Avanguardia Operaia, il Movimento Studentesco, ecc. Ma anche queste sono durate pochi anni: una corrente politica non si struttura e non si improvvisa nel giro di qualche mese. Il paradosso di un sessantotto durato dieci anni come quello italiano, che ha visto attivizzarsi centinaia di migliaia di giovani e che si è sciolto nella disperazione del settantasette senza sedimentare alcuna organizzazione significativa (se non DP, che è stata però più uno spazio elettorale che una corrente politica) si spiega in larga misura per l'inadeguatezza dell'"offerta" rispetto alle esigenze e alla natura della radicalizzazione giovanile e operaia degli anni settanta. In Francia, grazie ad un'offerta politica più qualificata, un sessantotto di minor impatto sociale e durata, ha comunque lasciato in eredità al successivo periodo di riflusso, un'estrema sinistra forte e strutturata, tuttora la più forte, almeno elettoralmente, in Europa.

Tornando alla fase che si è appena chiusa dunque (vedi La nuova fase che si apre), possiamo dire che si è trattato di un biennio in cui le masse sono scese direttamente nell'arena politica. I loro obiettivi erano vaghi, ma certo hanno a che fare con la reazione alle iniziative del governo Berlusconi. Queste masse si sono attivate rafforzando tre grandi movimenti di massa, movimenti che spesso si sono sovrapposti e incrociati, come del resto è tipico dei periodi di ascesa.

1) il movimento noglobal che ha fatto la sua apparizione di massa nel luglio 2001 a Genova e, con alti e bassi, è arrivato sino al 12 aprile 2003, quando, trasformato in movimento antiguerra, ha dato vita ad una manifestazione pacifista di scarso impatto numerico, a guerra in pratica già conclusa. Questo settore è stato in grado di mobilitare in piazza autonomamente (senza concorso sindacale) 200.000-300.000 persone, e il movimento delle bandiere per la pace ha dimostrato che la sua area di influenza è ben più ampia.

2) il movimento sindacale, nato sull'onda dell'art. 18 e del contratto dei metalmeccanici è andato dal gennaio 2002, quando sono partiti i primi scioperi regionali sino alla sconfitta del referendum del giugno 2003. Questo movimento è stato in grado di muovere autonomamente più di 1 milione di persone, il sì al referendum ha portato alle urne 10 milioni di persone.

3) il movimento dei girotondi. Questo movimento è andato dall'intervento di Moretti alla manifestazione dell'Ulivo del febbraio 2002 sino al maggio 2003 quando la richiesta non esaudita di incontro con i vertci dell'Ulivo ha dimostrato la sua irrilevanza politica. Questo settore è riuscito a mobilitare al suo culmine mezzo milione di persone.

Questi settori si sono spesso ritrovati insieme, ad esempio nella manifestazione contro la guerra del 15 febbraio 2003: totalizzando una partecipazione che forse ha raggiunto i 2 milioni di persone.

Sul fatto che si sia trattato di un biennio straordinario sul piano delle mobilitazioni, non vi possono essere dubbi. In questa sede ci interessa analizzare, di fronte alla discesa in campo di queste masse enormi di persone, l'offerta delle minoranza politiche: come queste hanno interagito con un'arena che si è improvvisamente affollata, se hanno tratto da questa eventuale interazione un qualche vantaggio sul piano organizzativo e se ciò ha giovato alle masse in movimento. L'analisi sarà estremamente sommaria, e ce ne scusiamo in anticipo. Speriamo in un futuro prossimo che qualche studioso con più mezzi e tempo di noi, sulla base di dati oggettivi (ad esempio ricercando dati numerici sull'aumento degli iscritti, l'apertura di nuove sedi, la vendita di giornali, ma anche con interviste a militanti di base), possa offrire una analisi ben più fondata. Si prenda questo materiale dunque come uno stimolo per la riflessione, che, deve essere chiaro, non ha per noi una importanza esclusivamente "accademica". Come si vedrà più avanti infatti siamo estremamente insoddisfatti della qualità delle offerte politiche che le masse hanno trovato nell'"arena" in questi due anni. Dato che noi, ottimisticamente, pensiamo che la fase appena terminata sia l'inizio di un periodo di ascesa e che dunque ci aspettino fasi di ancor maggiore radicalizzazione sociale, vorremmo dare un piccolo contributo perché le varie correnti politiche possano "adeguare il tiro", migliorarsi, e far sì che si possa sperare in un periodo di ascesa che sia in grado di raggiungere risultati di portata storica a favore delle grandi maggioranze.

Di seguito dunque una sommaria rassegna in cui prenderemo in considerazione le varie correnti politiche di sinistra che si agitano sulla scena politico-sociale italiana. Ci occuperemo anche di quelle con un numero ridotto di militanti, perché, come pure questo biennio dimostra, anche piccole minoranze nei periodi di ascesa possono divenire protagoniste, se riescono più delle "grandi" a intercettare i bisogni delle masse che si muovono. Come vedremo, il fatto che una corrente tragga vantaggio da un periodo di ascesa non significa affatto che "abbia ragione", o che si sia mossa in effetti nel solco degli interessi delle masse nelle quali agisce. Significa semplicemente che ha agito in maniera intelligente, oppure che le correnti concorrenti erano particolarmente sprovvedute. Quando una corrente politica incontra le masse in movimento e ne intercetta i bisogni il giovamento reciproco si riconosce subito: la fase si chiude con risultati positivi tangibili. La fase che si chiude invece, come abbiamo già detto in altro materiale (La nuova fase che si apre), si è conclusa con una serie di sconfitte.

La maggioranza DS (corrente Fassino-D'Alema)

L'arena si è riempita d'improvviso ed ha colto completamente alla sprovvista questa corrente. Essa è l'espressione delle idee e degli interessi materiali di quelle migliaia di amministratori radicati nelle regioni centrali d'Italia, per anni ha teorizzato il partito "leggero", cioé la trasformazione dei DS in una forza elettorale che non dovesse più tener conto dell'esistenza di una base militante, ma, al più, di "gruppi di pressione". Il modello era quello del New Labour blairiano, la trasformazione cioé da partito classicamente socialdemocratico a partito "borghese". La fusione con la Margherita nell'Ulivo, ha questo scopo ultimo: la fine dell'esistenza in Italia di una forza politica che sia "obbligata" a tener conto di quel che chiedono i lavoratori, magari attraverso le loro organizzazioni sindacali. Lo scontro D'Alema-Cofferati che ha caratterizzato la vita dei DS negli ultimi anni, non deve essere letto in chiave personalistica: Cofferati, che era a capo di un potente sindacato, chiedeva ai DS di essere "sponda politica", proprio quando il gruppo dirigente DS teorizzava di "sganciarsi" dai suoi referenti sociali classici. La corrente Fassino-D'Alema dunque è caratterizzata da questa intima contraddizione: è dominata dalla ferrea volontà di superare l'esistenza di un partito socialdemocratico, per approdare ad un partito "democratico", cioé "borghese progressista", ma è costretta a rimanere legata alla sua base sociale tradizionale perché altrimenti paga dei prezzi a livello elettorale. Un conto infatti è quel che D'Alema vuole che i DS diventino, un altro è quel che i suoi elettori vogliono che i DS siano. Questa corrente è la diretta responsabile (a causa della politica moderata portata avanti dai governi Prodi, D'Alema, Amato), della vittoria di Berlusconi nel 2001, ma, grazie alla passività sociale, ha potuto, dopo la sconfitta, consolidare il suo dominio nel partito con il congresso di Pesaro, in misura addirittura superiore a quella del congresso di Torino. Questa corrente aveva teorizzato la passività sociale, l'aveva indotta, e sperava che fosse eterna: il suo progetto infatti potrà compiersi solo in un quadro di grave disfatta, come quella che ha colpito il movimento operaio inglese sotto il governo Thatcher e che per l'appunto ha permesso la vittoria di Blair.

Come si è comportata questa corrente di fronte all'irrompere dei movimenti di massa?

E' rimasta inizialmente sconcertata, e per un bel po' faceva fatica a credere ai propri occhi. E' stata colta di sorpresa dal successo di Genova, ha cercato di recuperare con la successiva Marcia Perugia Assisi, alla quale D'Alema ha partecipato pur rischiando di essere sommerso da una marea di fischi, poi ha dovuto affrontare la contestazione della classe media (della quale vorrebbe essere portavoce) con i girotondi, anche in questo caso inseguendo e alla fine aderendo alle loro iniziative, infine si è dovuta regolarmente far vedere ad ogni importante appuntamento del movimento sindacale, pur essendo bersaglio principale di ogni intervista di Cofferati.

Dunque questa corrente ha cercato di essere dentro i movimenti di massa, seppur evitando di contribuire al loro successo. Per compiacerli è stata costretta a ridimensionare la sua vocazione consociativa aumentato il grado di conflittualità parlamentare contro Berlusconi, pur non mutando di una virgola le proprie moderatissime concezioni ideologiche. Ha pagato il prezzo della relazione forzata con i movimenti di massa, subendo una sequela di interminabili reprimende che la borghesia e i suoi media le indirizzavano chiedendole di rompere con i "massimalisti", cosa che D'Alema e Fassino avrebbero fatto molto volentieri se ciò non avesse implicato la rottura con la propria base sociale o una forte diminuzione del suo consenso. E il partito leggero? Rapidamente dimenticato: da quando è stato eletto, Fassino non fa altro che correre da una parte all'altra della penisola esortando a rafforzare le strutture, magnificando la militanza volontaria e la bellezza delle feste dell'Unità: sa che le battaglie nel movimento operaio si vincono a suon di organizzazione di massa, e se uno non ce l'ha fa acqua, va sotto. E, con Cofferati all'offensiva, qualche rischio Fassino e D'alema l'hanno corso.

In poche parole la strategia di questa corrente rimane immutata, ma non può più permettersi del breve periodo di far sparire i DS nell'Ulivo, correndo il pericolo che il posto vacante di partito socialdemocratico sia preso da un qualsiasi Cofferati. Hanno mutato un po' la tattica: li vedremo pubblicamente meno cinici, faranno meno sfoggio di barche a vela, assisteremo a un po' più di teatro in Parlamento: alla fin dei conti si son resi conto che per "far vedere" che sul serio sono un'opposizione basta organizzare un po' di gazzarra alla Camera e al Senato e il gioco è fatto.

Quindi come esce questa corrente dal biennio? In gran forma. I suoi dirigenti sono stati sotto tiro per due anni, ma, grazie a qualche loro capacità, al radicamento organizzativo e a parecchia fortuna se ne escono alla grande, forse, viste le premesse, per quanto ciò possa sembrare paradossale, è la corrente che esce meglio da questo biennio, nato in aperto contrasto alla sua egemonia. La sua vittoria finale è avvenuta tra aprile e giugno: la sconfitta del movimento pacifista ha colpito chi più vi si era speso, non certo coloro (Fassino & D'Alema) che senza uno Chirac sarebbero passati armi e bagagli dalla parte di Bush, magari "per gestirlo meglio"; la maggioranza DS ha tifato per il non raggiungimento del quorum al referendum e s'è goduta dalla poltrona la sconfitta del Prc e la sua successiva resa; Cofferati, il suo maggior nemico, ha abbandonato il campo e, pur di toglierselo di torno, Fassino è corso a spianargli la strada per la candidatura a sindaco di Bologna; il trionfo è poi giunto con le elezioni amministrative quando i DS hanno incassato un secco aumento dei consensi incamerando i riflessi elettorali del clima di radicalizzazione sociale, che in nessun modo avevano contribuito ad innescare.

Prospettive? Per questa corrente, buone nel breve periodo, instabili per il futuro: in prospettiva si propone di distruggere lo strumento (il partito DS) che le consente di stare a galla e i successi elettorali legati alle lotte (lotte che i suoi dirigenti detestano) la "obbligano" a scendere a patti con la propria base sociale. Ma il fatto che Fassino e D'Alema siano tornati saldamente in sella costituisce uno dei lasciti più amari e, diciamolo, rivoltanti di questo biennio. Dobbiamo riconoscere a questa corrente, comunque, una perizia che, purtroppo, le correnti politiche a noi più simpatiche non hanno messo in campo, forse perché non ce l'hanno. Che dire? Chapeau!

Il correntone

Il correntone è l'eterogena minoranza interna di sinistra che si è formata in occasione dell'ultimo congresso DS. Esce a pezzi dal biennio, quando questo avrebbe potuto essere la sua grande occasione. Cerchiamo di capire il perché.

Il suo nucleo storico è costituito dalla sinistra formatasi nel congresso di Torino (Bandoli, Fumagalli...) a sua volta eterogenea (comprendeva berlingueriani, ingraiani, ambientalisti...), alla quale si sono aggiunti veltroniani (Mussi, Melandri...), Socialismo 2000 (Salvi) e Cofferati, cioé tutto il gruppo dirigente della maggioranza Cgil. Di quest'ultima ce ne dobbiamo occupare previamente, perché ha "usato" il contenitore della sinistra DS senza crederci affatto. Cofferati aveva i suoi autonomi obiettivi, che consistevano, sostanzialmente, nel disarcionare dalla direzione dei Ds la corrente D'Alema-Fassino, che non intendeva più essere sponda politica per la Cgil. La corrente Cofferati in questo biennio ha agito costantemente all'offensiva contro la maggioranza Ds non per ragioni ideologiche, dato che sulle questioni di fondo non sono mai stati più a sinistra di D'Alema, ma per ragioni di sopravvivenza: sottoposti al duro attacco della destra volevano disporre di una forza politica che li spalleggiasse e non li costringesse ad uno scontro solitario con il governo. Hanno all'inizio tentato dunque la strada più semplice: ribaltare in occasione del congresso di Pesaro la maggioranza interna ai Ds addossando la responsabilità della sconfitta elettorale a D'Alema. Nella realtà si trattava di una lettura piuttosto forzata: del moderatismo della direzione Ds e del conseguente clima di smobilitazione sociale era forse più responsabile la direzione Cgil che quella Ds grazie a una politica concertativa che, inaugurata all'inizio degli anni novanta, è durata quasi un decennio. Si trattava invece di un problema di collocazione: la burocrazia Cgil, pur essendo della stessa pasta del ceto degli amministratori diessini del Centroitalia, al contrario di questi ultimi si trova sotto attacco da parte di Berlusconi, appoggiato dalla borghesia proprio per ridimensionare e se possibile sconfiggere in campo aperto la Cgil. Per gli amministratori delle cooperative emiliane o delle municipalizzate toscane o degli enti locali umbri, che ci sia Berlusconi o un altro al governo in fondo non è che cambi chissà che, in ogni caso non drammatizzano e se la prendono comoda, certo non vedono alcuna ragione per inaugurare una conflittualità sociale che potrebbe pure, in ultima analisi, danneggiarli. Ma l'alta burocrazia Cgil, se passa la demolizione tutto in un colpo della sua ragion d'essere (potere di contrattazione, patronati, tessere), sparisce come ceto sociale, o diviene irrilevante. Per questo la corrente Cofferati ha scelto per forza di cose la strada della lotta (lotta che odia quanto i vari D'Alema) e ha inaugurato una serie di mobilitazioni che hanno al centro non la lotta al padronato, ma quella, tutta "politica" contro Berlusconi. Dovendo scegliere quale "campagna" condurre, la burocrazia Cgil ha scelto quella contro le modifiche all'art.18, quando con i governi di centrosinistra aveva accettato cose ben peggiori; ha invece abbandonato a se stessi i metalmeccanici, perché fare della loro lotta per il contratto la questione centrale avrebbe significato scontrarsi direttamente con la borghesia e non con il governo. Da quel momento in poi abbiamo assistito ad una serie di manifestazioni oceaniche, ma di carattere simbolico, preoccupate cioé di non far perdere soldi e "competitività" ai padroni. Significativo il caso Fiat, con la direzione Cgil sempre pronta a "coprire" le disperate e radicali azioni della base, ma senza organizzarle in maniera che facessero davvero male al padrone (ad esempio colpendolo le aziende che Agnelli non voleva smantellare perché producono profitti). Con questa tattica la direzione maggioritaria della Cgil ha accresciuto presso le larghe masse la positività della propria immagine, ha drenato consensi a Berlusconi costringendolo a dilazionare nel tempo i suoi attacchi ed è riuscita a non rompere con la borghesia, lanciando continui segnali di disponibilità a tornare ai bei tempi andati della concertazione e sostanzialmente puntando su un cambio della guardia a capo di Confindustria. Questa operazione le è più o meno riuscita, e la Cgil esce da questo biennio sindacalmente rafforzata (i suoi iscritti aumentano continuamente, alle sue manifestazioni la gente continua ad andare, il prestigio della sua burocrazia, che negli anni novanta ne ha fatte di tutti i colori, è alta). L'operazione nella quale ha fallito è invece quella più strettamente politica contro la corrente D'Alema/Fassino.

La prima mossa da parte di Cofferati su quel piano è stato il sostegno, in vista del congresso di Pesaro, alle tesi di minoranza. Ma è andata male. La forza di una burocrazia non può essere riversata con tanta facilità e velocità in un'altra struttura burocratica. Così come per D'Alema è assai difficile costituire una corrente in Cgil, allo stesso modo per Cofferati è stato impossibile organizzare masse di "truppe cammellate" che votassero nei congressi locali, che sono rimasti saldamente in mano alla burocrazia dalemiana. Lezione tratta dai cofferatiani: non riusciremo mai a conquistare dall'interno il "partito degli amministratori" (come chiamano i DS quando nessuno li sente). Il gruppo dirigente Cgil decide così, dopo aver blindato attraverso il congresso gli organismi riempendoli solo di gente fidata, di inviare Cofferati a "far politica", in campo aperto, senza contare sostanzialmente sulla battaglia interna ai Ds. La divisione dei compiti funziona per un po' assai bene. Mentre Epifani continua a dirigere la Cgil assicurando un minimo di ginnastica manifestaiola di stampo antiberlusconiano, ma non anticonfiundustriale, Cofferati impallina a getto continuo la direzione Ds avvicinandosi sempre più agli altri movimenti in campo: il movimento noglobal e quello dei girotondi. In ogni direzione incontra successi più per i limiti altrui che per i propri meriti, e in ogni caso il grande successo della manifestazione fiorentina del 15 febbraio viene attribuita, a giusto titolo, anche alla partecipazione massiccia della Cgil, e a gennaio viene "incoronato" ad una manifestazione appositamente convocata dai girotondi. Raggiunto tra gennaio e febbraio il suo massimo fulgore, Cofferati avrebbe voluto che accadesse qualcosa, qualcosa che mettesse fuori gioco la corrente D'Alema-Fassino. Varie ipotesi erano in campo, e certo non inverosimili. Poteva accadere ad esempio che l'Onu desse il via libera alla guerra, o che Chirac cedesse, e D'Alema certo avrebbe consentito alla guerra. A quel punto vi sarebbe stato un movimento di massa di ripudio verso quella corrente politica: una implosione dei Ds, con la convocazione di un congresso straordinario, oppure la sua scissione e la formazione tumultuosa di una nuova socialdemocrazia di massa, ecc. Siamo andati ad un passo dal concretarsi di queste possibilità. Ma non è avvenuto. E, passato il momento, con la prospettiva che alle elezioni amministrative i Ds uniti sarebbero avanzati e dunque col pericolo di lasciare alla corrente D'Alema-Fassino l'intero merito di quell'esito, il gruppo dirigente Cgil e Cofferati si sono precipitosamente ritirati: hanno negoziato con Fassino un atteggiamento più comprensivo verso la Cgil, e hanno abbandonato il campo della lotta politica interna ai Ds. Naturalmente nulla avrebbe impedito loro di costruire un "Partito del Lavoro" in rottura con i Ds, ma a quel punto sarebbe stato poco comprensibile a livello di massa, e avrebbe implicato la ghettizzazione politica di una burocrazia, quella Cgil, che invece vuole influire ai massimi livelli e trovarsi sempre dalla parte dei vincenti (per la ricostruzione di questi eventi vedi Ascesa e caduta di Sergio Cofferati, impiegato Pirelli).

Le prospettive per questa corrente però sono quanto mai incerte: il suo scontro con la direzione D'Alema-Fassino, ha una base materiale che viene continuamente alimentata dal periodo attualmente attraversato dal capitalismo, segnato da un aumento della concorrenza globale: tra socialdemocratici che hanno responsabilità di governo (o che ambiscono ad averle) e che si sentono dunque in dovere di attrezzare il proprio capitalismo alla lotta contro gli altri anche attacando i diritti dei lavoratori, e socialdemocratici a capo di sindacati di massa, e che si vedono dunque sottoposti a questa offensiva, non potranno mai correre buoni rapporti, non per differenze di cultura, di etica o di carattere, ma esclusivamente per ragioni di collocazione sociale; i primi "devono" appoggiare il capitale, i secondi "devono" farsi carico dei bisogni dei lavoratori. Sarebbe diverso se attraversassimo una fase economica mondiale che consentisse politiche di distribuzione del reddito, ma, come sappiamo, non è il caso degli anni in cui ci tocca vivere.

Il destino della corrente Cofferati-Epifani, dunque, si distacca da quella del correntone. La prima ha utilizzato per i propri particolari fini la minoranza Ds, e quando non le è servita più l'ha mollata brutalmente. D'ora in poi Cofferati ed Epifani si terranno ben lontani da Aprile, la frazione pubblica che nei loro piani doveva essere la gamba organizzativa della loro strategia politica, e disattiveranno la Fondazione Di Vittorio, che doveva supportare anche finanziariamente la discesa in campo di Cofferati. Questo abbandono repentino, non concordato, un po' vile, ha totalmente disorientato il correntone, specie le sottocomponenti veltroniane e berlingueriane. Pagano così il prezzo del loro errore principale: essersi totalmente affidati alla direzione Cgil, sottovalutando il fatto che questa aveva obiettivi esclusivi di preservazione dei propri spazi. E' proprio la delega a Cofferati che ha fatto sì che la partecipazione a Genova da parte della sinistra Ds fosse timida e in ordine sparso (all'epoca Cofferati si teneva ancora ben distante dal movimento no global, trattandolo anzi con una punta di disprezzo), che appoggiassero ogni dichiarazione e ogni mossa di Cofferati, anche quando questa non era in alcun modo concordata con loro, che si terminasse con un tiepidissimo sì al referendum sull'art.18 che non si è tradotto in alcun tipo di iniziativa militante. Tutti i partiti socialdemocratici hanno delle sinistre interne, ma quella dei Ds è la più sgarruppata che si possa incontrare sul terreno europeo. Quali sono le loro idee? Hanno una strategia differente da quella ulivista? Che critiche muovono ai passati governi di centrosinistra? Nessuno lo sa. Tra loro c'è gente che vorrebbe il partito unico dell'Ulivo e altra che si definisce ancora "comunista". Data la loro indeterminatezza ideologica, non funzionano come una "corrente" vera e propria, organizzata dalla base ai vertici. Non si fondano sulla militanza, per questo vi sono in giro per l'Italia centinaia di migliaia di loro potenziali sostenitori (anche tra i quadri sindacali) che non hanno nemmeno la tessera Ds per la semplice ragione che la sinistra interna non si preoccupa minimamente di organizzarli, di motivarli, di offrire una prospettiva e una attività. Sono solo una frazione del gruppo dirigente diessino senza alcun collegamento vero con la propria base, che non cerca né "coltiva". Quindi la delega dei dirigenti della sinistra Ds a Cofferati è dunque una logica conseguenza: il suo arrivo ha regalato loro una stretegia, una tattica e un radicamento. Peccato che non fossero cose loro, e quando Cofferati l'ha creduto opportuno se l'è riprese, lasciando il correntone con un palmo di naso e, come prima, senza strategia, senza tattica e senza radicamento.

Ci pare faccia eccezione la sottocomponente di Salvi, Socialismo 2000, che si è mossa invece in maniera abbastanza intelligente. Ha poche idee, ma chiare: vuol essere una sinistra socialdemocratica. E dunque chiede un esplicito aggancio dei Ds alla classe lavoratrice e una strategia che punti al superamento dell'Ulivo a favore invece dell'"unità delle sinistre", pratica una tattica disinvolta che la porta anche nelle vicinanze di settori molto radicali: basti pensare alla sottoscrizione della Legge sul reddito minimo promosso dalle RdB e al pieno e militante sostegno al referendum sull'art.18. La delega a Cofferati è stata soft, come testimoniano le interviste rilasciate da Salvi. Ci pare di capire inoltre che riserva una certa attenzione alla propria costruzione militante. Il suo problema è la debolezza sul piano numerico, e agli appuntamenti decisivi coi "bienni rossi" tocca esserci con un po' di truppe.

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