Tesi 10 - MOVIMENTO ANTIGLOBALIZZAZIONE (torna all'indice)
L'affacciarsi di una giovane generazione sul terreno della lotta (movimento antiglobalizzazione), ripropone tanto più oggi l'attualità del rilancio di una prospettiva storica rivoluzionaria. La conquista della giovane generazione alla prospettiva socialista è un compito difficile ma decisivo della Rifondazione.La nascita e lo sviluppo del movimento antiglobalizzazione su scala mondiale non è separato dalla ripresa della lotta di classe. Riflette la stessa crisi di egemonia del liberismo che alimenta la ripresa delle lotte sociali. Così come riflette quello stesso risveglio di ampi settori di giovani, che segna la svolta nella mobilitazione dei lavoratori. La stessa composizione sociale del movimento è spesso segnata da un'ampia presenza di giovani precari.
Ma l'importanza del movimento antiglobalizzazione non è data solo dal sintomo che riflette, ma dalle conseguenze che produce. Le mobilitazioni massicce contro i vertici capitalistici internazionali, lungo l'itinerario di Seattle, Praga, Nizza, Genova, hanno mostrato con grande potenza simbolica alle classi subalterne del mondo intero che le politiche dominanti possono essere contestate, che una massa crescente di giovani ne fa oggetto di una aperto rifiuto. Questo fatto ha favorito un consenso largo e diffuso attorno alle ragioni del movimento, un salto netto della sensibilità critica antiliberista di ampi settori di massa; un incoraggiamento obiettivo alla stessa ripresa di lotta della classe operaia in molti paesi. Peraltro in diversi Paesi, le mobilitazioni antiglobalizzazione hanno visto, in forme diverse, la partecipazione diretta di settori di classe e di loro organizzazioni sindacali e/o politiche. Più in generale il movimento antiglobalizzazione ha capitalizzato e incanalato in un quadro largo tutte le istanze di contestazione dell'attuale ordine del mondo (sociali, democratiche, ambientali, di pace) da un lato riflettendo, dall'altro incentivando un mutamento diffuso della percezione pubblica del capitalismo. Le potenzialità anticapitaliste di questo movimento, per quanto latenti, sono dunque di grande rilevanza.
Tuttavia limitarsi alla lode del movimento antiglobalizzazione o addirittura promuovere un culto della sua spontaneità, come di fatto fa oggi il nostro partito, costituisce un errore profondo. Decisiva infatti è e sarà la direzione di marcia del movimento, in ordine agli orientamenti programmatici che vi prevarranno, alle scelte politiche che ne derivano, al segno di egemonia sociale che esse riflettono.Larga parte delle culture oggi egemoni nel movimento antiglobalizzazione internazionale sono di tipo neoriformistico. Non si tratta di "disprezzarle" ma di coglierne la radice storico/sociale e la ricaduta profondamente negativa per le ragioni del movimento stesso.
Sullo sfondo dell'arretramento del movimento operaio degli anni '80-'90, entro una situazione storica segnata congiuntamente dalla crisi di egemonia del liberismo e dalla crisi di credibilità del "socialismo" (nella sua rappresentazione storica ereditata) si è determinato un vasto campo di sviluppo di culture "critiche" del capitalismo ma non anticapitaliste: di culture e "programmi" tesi a ricercare un altro mondo possibile entro il capitalismo e non in alternativa ad esso. Queste culture politiche non sono omogenee ed anzi sono segnate da differenze profonde: comprendono tendenze apertamente collaborative con forze e istituti del capitalismo mondiale in una logica di pressione critica sul loro operato; tendenze neokeynesiane votate alla ricerca di una razionalizzazione antispeculativa del capitale (v. i vertici di ATTAC); tendenze basate sulle esperienze di terzo settore e sul recupero culturale di antiche suggestioni cooperativistiche (neoproudhoniane); tendenze anarco/ribelliste portatrici di una sorta di "neo-luddismo " (Black block). Ma il loro tratto comune è o la ricerca illusoria di un capitalismo "equo", o la rivendicazione di un proprio spazio antagonistico all'interno del capitalismo: comunque la negazione di una prospettiva socialista e della centralità della contraddizione tra capitale e lavoro come leva di un'alternativa sociale. In questo senso tali culture minacciano di deviare l'anticapitalismo latente del movimento e i sentimenti antiliberisti di milioni di giovani verso un orizzonte al tempo stesso utopico e subalterno: ostacolando obiettivamente lo sviluppo della coscienza politica del movimento e la sua convergenza di lotta con la classe operaia internazionale e con i movimenti di liberazione dei popoli oppressi.I comunisti debbono radicarsi a fondo nel movimento antiglobalizzazione, partecipare attivamente alla sua costruzione e alle sue strutture, legarsi profondamente ai sentimenti di massa antiliberisti, cogliendone le straordinarie potenzialità: ogni atteggiamento di distacco, di sufficienza dottrinaria verso il movimento va contrastato apertamente. Ma la lotta contro le posizioni riformiste, per un'egemonia alternativa è la ragione stessa della presenza dei comunisti nel movimento. Egemonia non è né predicazione ideologica né imposizione burocratica: egemonia è lotta aperta per la conquista politica e ideale del movimento a un programma anticapitalista; per collegare tutte le ragioni di fondo che il movimento esprime, nel vivo della sua esperienza quotidiana (ragioni sociali, ambientali, democratiche, di pace) alla prospettiva socialista; per ricondurre di conseguenza tutte le istanze di fondo del movimento all'incontro strategico con la classe operaia. L'affermarsi nel movimento antiglobalizzazione di un'egemonia anticapitalistica della classe operaia, quale soggetto centrale di un blocco storico alternativo su scala mondiale, è tanto più oggi una esigenza vitale per il movimento stesso. Il nuovo scenario di guerra imperialistica pone il movimento di fronte a una prova impegnativa che richiede un salto di coscienza politica e di orizzonte. Lo scontro tra imperialismi e popoli oppressi tenderà ad aggravarsi. Lo scontro di classe sul fronte interno tenderà ovunque ad inasprirsi. Il movimento non può più vivere di iniziative simboliche, di critiche intellettuali delle ingiustizie del mondo, di ricette accademiche utopiche o minimali, senza rischiare di logorare la propria forza. Né può affidarsi ad una pratica generica di "disobbedienza". Una pagina del movimento si è in ogni caso chiusa. E' necessaria una scelta chiara di collocazione sociale e di orizzonte strategico in ogni paese e su scala mondiale. Non è sufficiente una critica del liberismo senza schierarsi apertamente a fianco dei lavoratori e delle loro lotte. Non è sufficiente una critica dei poteri dominanti del mondo senza schierarsi al fianco dei popoli dominati.Su ogni terreno l'alternativa tra opzioni riformiste e anticapitaliste, pacifiste o antimperialiste, sarà posta dai fatti nel dibattito stesso del movimento.
I comunisti possono e debbono impegnarsi su un terreno più difficile ma più avanzato perché un ampio settore della giovane generazione maturi una coscienza politica rivoluzionaria e di classe. Per questo la costruzione di una tendenza rivoluzionaria internazionale nel movimento antiglobalizzazione è tanto più oggi una necessità inaggirabile.Tesi 11 - CAPITALE E QUESTIONE AMBIENTALE (torna all'indice)
Gli sviluppi politici e le dinamiche del capitale degli anni novanta sono stati devastanti per l'ambiente. Tutti i vecchi problemi si sono estesi, sono emerse nuove emergenze su scala planetaria. E' sempre più stretto l'intreccio fra questioni ambientali e questioni sociali. A fronte di tutto questo, tanto gli approcci etico-culturali quanto il riformismo verde si sono rivelati inadeguati e impotenti. La costruzione di un efficace movimento ambientalista richiede l'allargamento della sua base sociale e un programma di obiettivi chiaramente anticapitalistici: in ultima analisi, un nuovo modello di sviluppo non sarà possibile senza un nuovo modo di produzione, senza il rovesciamento del capitalismo. E' questo l'approccio strategico che i comunisti devono portare anche nel loro intervento nel movimento.Il capitalismo non è in grado o non è interessato a porre rimedio ai problemi ambientali; viceversa, la devastazione ambientale è oggi un portato intrinseco della logica del profitto e del libero mercato. Gli anni novanta hanno visto moltiplicarsi problemi e crisi ambientali, con una relazione sempre più stretta fra involuzione delle condizioni politiche e sociali e peggioramento della condizioni ambientali. Il fatto è che le dinamiche oggettive del modo di produzione capitalistico - sempre meno frenate dai vincoli sociali e politici che nei decenni precedenti avevano portato alla crescita dei movimenti ambientalisti e all'adozione di tutta una serie di interventi di protezione ambientale - hanno portato all'estensione e all'aggravamento dei vecchi problemi (inquinamento, nocività delle fabbriche, devastazione del territorio, sviluppo di tecnologie ad alto rischio, degradazione degli ambienti naturali e storici, ecc.) e alla creazione di nuove emergenze su scala sempre più estesa, tendenzialmente planetaria (problema dei rifiuti, buco nell'ozono, effetto serra, deforestazione, impoverimento della biodiversità, ecc.).
Le sconfitte operaie e la ricerca della produzione al più basso costo porta infatti ad abbattere anche le misure di protezione ambientale e di prevenzione sanitaria, a sfruttare le risorse e il territorio nel modo più distruttivo, a ignorare i vincoli sociali e le compatibilità ambientali. La liberalizzazione del commercio tende a generalizzare lo sfruttamento incontrollato e illimitato delle risorse ambientali minando i sistemi di regolazione locale. Con la privatizzazione dei servizi la logica del profitto si appropria dei beni comuni come l'acqua e tramite i brevetti essa arriva a monopolizzare le risorse biologiche e gli avanzamenti scientifici e tecnologici, scavalcando ogni controllo democratico e ogni preoccupazione di ordine sociale (esemplari le vicende degli Ogm e dei farmaci anti-Aids). La stessa sicurezza alimentare è diventata un problema drammatico non solo nei paesi del Terzo mondo, dove è sempre stata il prodotto dello sfruttamento imperialistico, ma anche nei paesi avanzati (caso "mucca pazza"), dove è il risultato del produttivismo esasperato e incontrollato che domina il settore agro-alimentare, sotto la spinta della competitività e del profitto.
D'altra parte, i rapporti di forza su scala internazionale consentono alle multinazionali, tramite le scelte dei governi degli Stati imperialisti, di imporre i propri desiderata nelle negoziazioni degli accordi internazionali in materia ambientale (v. l'attitudine del governo Usa nel caso del protocollo di Kyoto sulle emissioni dei gas-serra). Così restano senza efficaci risposte lo sfruttamento irrazionale e la distruzione delle foreste, l'impoverimento della risorse biologiche, l'avanzamento dei deserti, i cambiamenti climatici e le sempre più frequenti "catastrofi naturali" che da tali mutamenti derivano. Sempre più il futuro dell'umanità si identifica nell'alternativa "socialismo o barbarie", essendo la tendenza alla barbarie senz'altro accelerata dal progressivo degrado della capacità del pianeta di sostenere lo sviluppo umano.
Di fronte a questi sviluppi, in cui si intrecciano sempre più strettamente questioni sociali e questioni ambientali, si dimostrano sempre più inadeguati e impotenti tanto gli approcci meramente etico-culturali quanto le tradizionali politiche di riformismo verde. Oggi i movimenti ambientalisti sono di fronte a una duplice sfida: da un lato riuscire ad allargare e a unificare la propria base sociale, integrando i bisogni e le domande dei diversi soggetti che sono vittime delle tendenze distruttive del capitale; dall'altro riuscire a formulare obiettivi di lotta e una prospettiva credibili. Ciò è possibile soltanto in un'ottica anticapitalistica: infatti, un nuovo modello di sviluppo non sarà possibile, in ultima analisi, senza un nuovo "modo di produzione", ossia senza passare per il rovesciamento del capitalismo. Questo è tanto più vero se si considera l'intrinseca dimensione internazionale dei problemi ambientali. E' questo l'approccio strategico che i comunisti devono portare anche nell'intervento e nella costruzione del movimento.
Su un altro piano, la questione ambientale pone alla rifondazione comunista la sfida e il compito di un aggiornamento dei propri strumenti teorici e della concezione del socialismo. Anche in questo campo, tuttavia, non si parte da zero. Rispetto al primo compito, il recupero della riflessione originaria del marxismo sul nesso capitalismo-natura è un passaggio indispensabile per lo sviluppo di strumenti adeguati per affrontare i temi ambientali del presente e per un confronto proficuo con i contributi critici del pensiero ecologico. Per un altro verso, è importante riscoprire e rileggere l'eccezionale esperienza dei primi anni del potere sovietico quando, anche per merito della lungimiranza di Lenin, si sviluppò in URSS una vera e propria "primavera dell'ecologia" che pose questioni essenziali, quali il varo di una legislazione ambientale, lo sviluppo di un movimento popolare indipendente per la protezione della natura e l'introduzione della sostenibilità ambientale fra i vincoli della pianificazione economica. Questa esperienza straordinaria e precorritrice fu prima interrotta e poi rimossa dalla repressione staliniana all'inizio degli anni trenta ma essa resta la prova vivente che, non l'ispirazione marxista o il fine del socialismo, ma semmai la loro negazione staliniana sono responsabili del fallimento del cosiddetto "socialismo reale" in campo ambientale e della rimozione per molti anni del tema dell'ambiente dal campo di riflessione del movimento comunista.Tesi 12 - PROGRAMMA TRANSITORIO (torna all'indice)
La stessa ricomposizione del blocco sociale alternativo richiede l'elaborazione di un sistema di rivendicazioni e di un metodo che sappiano connettere gli obiettivi immediati dell'azione alla prospettiva unificante dell'alternativa anticapitalistica. Superando quelle concezioni neoriformistiche che, in forme diverse, ripropongono la vecchia separazione tra "programma minimo" (obiettivi immediati) e "programma massimo" (socialismo), cara alla II Internazionale di fine Ottocento inizio Novecento e contro la quale nacque il movimento comunista.La svolta d'epoca attuale rende del tutto improponibile la vecchia separazione tra programma minimo e programma massimo del movimento operaio. Entro la crisi capitalistica ogni obiettivo immediato, ogni reale movimento di massa tende a cozzare con le ristrette compatibilità del capitale. Mentre la coscienza politica delle masse e dei loro stessi movimenti di lotta, tanto più dopo le sconfitte subite, è profondamente al di sotto delle implicazioni oggettive delle loro esigenze.
Questa contraddizione di fondo riattualizza la concezione comunista del programma di transizione: di un programma che sia capace di individuare un ponte tra coscienza attuale delle masse e necessità della rottura anticapitalistica.
Il programma transitorio non può ridursi ad uno schema scolastico e rigido. Ed anzi per sua stessa natura esso richiede un'articolazione duttile, capace di rapporto con la concreta dinamica della lotta di classe. Ma l'essenziale è il suo metodo: è la riconduzione agli scopi rivoluzionari di tutta la politica quotidiana, in ogni ambito di insediamento sociale, territoriale, sindacale, fuori da ogni logica settorialista, localista o sindacalista. Proprio per questo non si può richiedere a un programma di transizione il rispetto delle compatibilità: al contrario esso si fonda sul presupposto che le esigenze generali delle masse sono, in questa epoca di crisi, incompatibili con la struttura capitalistica della società.
Oggi l'aggravarsi della crisi capitalistica mondiale, il riemergere su scala internazionale di una diffusa spinta di classe, l'affacciarsi del movimento antiglobalizzazione, definiscono un nuovo quadro di riferimento per l'articolazione di un programma transitorio: non come astratta accademia ma in risposta ai nuovi livelli di scontro sociale e alle nuove domande che milioni di giovani si pongono.
Sul versante centrale della lotta di classe l'aggravarsi della crisi capitalistica pone l'esigenza obiettiva di un più elevato livello di risposta: sia in relazione all'unificazione internazionale delle lotte, sia in rapporto al programma d'azione del movimento operaio internazionale.
Le rivendicazioni tradizionali, cosiddette difensive, attorno ai temi della salvaguardia dei salari, del posto di lavoro, delle protezioni sociali, conservano naturalmente, tanto più oggi, tutta la loro immediata centralità. Ma domandano un riferimento unificante e di prospettiva, che metta apertamente in discussione le basi capitalistiche della regressione sociale e indichi un'alternativa complessiva. Per esemplificare:a) L'attacco internazionale all'occupazione ripropone in tutta la sua valenza storica l'obiettivo della riduzione generale dell'orario di lavoro per l'intera classe lavoratrice mondiale, fuori da ogni logica di negoziazione con la flessibilità e interamente pagata dai profitti. Non si tratta di ridurre la tematica dell'orario a semplice rivendicazione sindacale o, peggio, di affidarla a governi borghesi presunti "riformatori", ma invece di assumerla come obiettivo generale anticapitalistico. "Il lavoro che c'è va distribuito fra tutti sino al completo assorbimento dei disoccupati": questa rivendicazione di scala mobile delle ore di lavoro prefigura in definitiva un'organizzazione socialista dell'economia basata su un principio di razionalità elementare che l'irrazionalità del capitalismo ignora. Per questo essa va posta con forza nella giovane generazione operaia internazionale: come esemplificazione "popolare" di un'alternativa di sistema.
b) La precarizzazione mondiale del lavoro, come asse strategico dell'attacco capitalistico, richiede una risposta generale di carattere internazionale. Una pura attestazione difensiva categoria per categoria, Paese per Paese; logiche di negoziazione e scambio tra "lavoro minimo" e sussidio (work to welfare); rappresentano forme diverse di accettazione del terreno posto dall'avversario. I comunisti debbono invece avanzare, in ogni Paese, un complesso di rivendicazioni unificanti: l'abolizione di tutte le leggi di precarizzazione e discriminazione del lavoro, a partire dal principio universale "a parità di lavoro parità di salario"; un salario minimo garantito intercategoriale per tutti i lavoratori e le lavoratrici, al di là di ogni barriera nazionale, settoriale, aziendale; un salario garantito ai disoccupati e ai giovani in cerca di prima occupazione, fuori da ogni scambio col lavoro "minimo" (cioè precario). L'insieme di queste rivendicazioni non solo indica un possibile terreno di ricomposizione strategica tra lavoratori e disoccupati, ma perciò stesso cozza frontalmente con le politiche strutturali del capitale internazionale in crisi, assumendo tanto più oggi un'obiettiva valenza anticapitalistica.
c) La chiusura di aziende e le relative espulsioni di mano d'opera, portato naturale della crisi capitalistica e dei processi di ristrutturazione indotti dalla competizione globale pone un problema centrale di orientamento del movimento operaio. La moltiplicazioni di azioni di resistenza, in ordine sparso, o, peggio, la logica delle burocrazie sindacali di svendita negoziata e "ammortizzata" dei posti di lavoro, azienda per azienda, settore per settore, hanno accompagnato in questi anni nei vari Paesi il processo di arretramento del movimento operaio, delle sue conquiste sindacali, della sua stessa forza sociale. E' decisiva l'unificazione internazionale delle lotte di resistenza attorno a un possibile obiettivo unitario da perseguire in ogni Paese: la nazionalizzazione, senza indennizzo, e sotto il controllo dei lavoratori e delle lavoratrici delle industrie che licenziano. In Francia, attorno al caso Danone, settori rilevanti di giovane generazione operaia hanno impugnato in manifestazioni di massa questa rivendicazione elementare: "licenziare i licenziatori". I comunisti possono e debbono assumerla e rilanciarla come indicazione esemplare: che lega la domanda concreta e drammatica della difesa del lavoro alla messa in discussione della proprietà capitalista.
Più in generale, questo metodo transitorio può e deve rispondere da un versante di classe all'insieme delle domande emergenti dai nuovi movimenti e dalla giovane generazione, riconducendole sempre alla questione decisiva della proprietà e del potere. Ad esempio:
1) La domanda di protezione sanitaria, di sicurezza alimentare, di risanamento e qualità ambientale è espressa dall'insieme del movimento antiglobalizzazione internazionale e incontra un sostegno vastissimo nell'opinione pubblica dei lavoratori e dei consumatori. Eppure la risposta programmatica che le leadership egemoni del movimento danno ai problemi che esse stesse denunciano resta interna ad una logica riformista: campagne di educazione pubblica della proprietà a "comportamenti umanitari", campagne anti-marchio, di boicottaggio, di "consumo critico". L'elemento comune di tali proposte che pure racchiudono una critica positiva del profitto, è la rimozione strategica del nodo della proprietà e della lotta di classe. E questo le condanna ad un vicolo cieco strategico che contrasta con la loro apparente concretezza o visibilità mediatica. La stessa Naomi Klein riconosce esplicitamente questa impasse con grande onestà intellettuale (v. "No Logo"). I comunisti devono allora elevare nel movimento l'ordine di riflessione e di indirizzo ricollocando le tematiche poste sul terreno degli obiettivi anticapitalisti. Ad esempio:
a) L'apertura dei libri contabili delle industrie farmaceutiche e delle industrie alimentari, perché siano aboliti quei segreti commerciali, industriali, finanziari che nascondono alla società le speculazioni del profitto.
b) La rivendicazione della nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo sociale delle industrie farmaceutiche, agroalimentari e inquinanti a partire dai grandi colossi monopolistici dei rispettivi settori: perché salute e alimentazione, beni elementari della vita, siano recuperati al controllo pubblico.
c) L'abolizione dei brevetti: perché i brevetti sono un sequestro per il profitto di pochi di scoperte utili o decisive per la vita di tutti; la loro abolizione è condizione decisiva per un controllo e uso sociale della scienza.2) La domanda di pace e antimilitarista sarà alimentata sempre più dalla prevedibile piega degli avvenimenti mondiali. Anche su questo terreno l'impostazione pacifista delle leadership egemoni del movimento, oltre a rimuovere la dimensione antimperialista e ad avallare la funzione dell'ONU rimuove ogni terreno programmatico di fondo che leghi l'istanza di pace alla lotta per l'abbattimento degli interessi capitalistici che sospingono la guerra. I comunisti devono muovere invece da un'angolazione opposta. Oggi lo sviluppo dell'industria bellica e il suo crescente livello di concentrazione capitalistica (in USA, in Europa, in Giappone) è sospinto sia dal rilancio imperialistico, sia dalla ripresa del keynesismo militare in funzione anti-crisi. Nella più ampia mobilitazione unitaria contro la guerra, si tratta allora di porre apertamente la questione dell'industria militare e degli interessi di guerra avanzando rivendicazioni conseguenti:
a) L'apertura dei libri contabili delle industrie di guerra e delle attività connesse alle speculazioni di guerra: perché l'intera società ha diritto di vedere e di leggere i cinici arricchimenti di tanti capitalisti "patrioti" grazie ai bombardamenti umanitari sulle popolazioni povere del pianeta.
b) La nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori dell'industria militare: perché è condizione elementare di igiene sociale oltre che di una possibile riconversione a produzioni civili con piena garanzia per l'occupazione dei lavoratori.3) La lotta contro la povertà dei cosiddetti Paesi del Terzo mondo è uno degli elementi di massima attenzione e aggregazione nel movimento antiglobalizzazione su scala mondiale. Ma un significativo settore dell'intellettualità dirigente del movimento propone una visione riduttiva del problema e soprattutto suggerisce terapie devianti. O soluzioni regressive di tipo precapitalistico, che indipendentemente dal loro dubbio realismo finirebbero addirittura col peggiorare le condizioni di vaste masse (v. le soluzioni neo-protezionistiche di Latouche); o soluzioni velleitarie per di più integrabili e in parte integrate in modo subalterno nell'economia capitalistica (v. il commercio equo e la finanza equa); oppure ancora politiche di compromesso negoziale con l'imperialismo (come il sostegno alla negoziazione del debito da parte di Giubileo 2000). I comunisti, nel mentre costruiscono una sintonia profonda con la sensibilità di milioni di giovani impegnati nella lotta alla povertà, possono e debbono contrastare queste false soluzioni, avanzando, entro una prospettiva generale di riorganizzazione socialista dell'economia del mondo, precise rivendicazioni transitorie:
a) l'abolizione reale e totale del debito pubblico dei Paesi dipendenti: perché se il debito è un cappio al collo di quei Paesi la sua negoziazione si rivela un secondo cappio, attraverso lo scambio tra riduzione del debito e certezza del pagamento, tra riduzione del debito e cessione di pacchetti azionari strategici (come la stessa Susan George ha dovuto riconoscere).
b) L'esproprio sotto il controllo dei lavoratori e dei consumatori dei 200 colossi multinazionali che sono al vertice dell'economia mondiale: perché sono gli agenti diretti e i massimi beneficiari delle politiche di rapina e di saccheggio internazionale. Non vi sarà alcun riscatto dalla povertà, nessun nuovo modello di economia sostenibile nel mondo, senza rimuovere l'enorme potere di quei colossi. Paese per Paese va sviluppata una vasta campagna per l'apertura dei loro libri contabili, la trasparenza dei loro conti bancari, la nazionalizzazione dei loro beni.Tesi 13 - LIBERAZIONE DELLA DONNA (torna all'indice)
La Rifondazione può e deve recuperare la tematica decisiva della liberazione della donna, entro la prospettiva del comunismo. Contro ogni sua riduzione economicistica così come, all'opposto, contro ogni sua deriva idealistica.Contro ogni sua riduzione economicistica, la rifondazione deve riconoscere apertamente la specificità dell'oppressione femminile, che per le donne proletarie si somma allo sfruttamento di classe. Un'oppressione che, attraverso la schiavitù domestica, è organicamente funzionale alla riproduzione capitalistica.
Al tempo stesso la rifondazione è chiamata a criticare e respingere le teorie idealistiche oggi presenti in una parte rilevante del pensiero femminista che concepiscono l'oppressione femminile come fatto dovuto all'imposizione da parte dell'uomo sulla donna del proprio codice simbolico. Questa tesi, che rimuove l'origine storica (comunque complessa) dell'oppressione femminile per attribuirla ad una radice in ultima analisi biologica, spesso riduce la liberazione della donna ad una rivoluzione simbolica e culturale (la riappropriazione del proprio linguaggio rimosso) separandola di fatto da un contenuto sociale, e prescindendo in tal modo da un terreno concreto di lotta.
Al contrario, il rilancio di una prospettiva di liberazione della donna è inseparabile da una lettura di classe del mondo contemporaneo. La crisi congiunta di capitalismo e riformismo si scarica con raddoppiata violenza sulla condizione delle donne. Nei paesi imperialisti disoccupazione di massa, precariato, flessibilità, privatizzazione dei servizi, riguardano spesso prima di tutto la popolazione femminile. Nei Paesi dell'Europa orientale, sottoposti all'introduzione brutale delle leggi del mercato, si registra un drastico abbassamento del livello di vita delle donne. Nei Paesi del cosiddetto Terzo e Quarto mondo, guerre e miseria provocate e fomentate dalle politiche neocolonialiste dell'occidente, aggravate dal fondamentalismo religioso dei Paesi a regime teocratico (Iran e Afghanistan ) rendono la condizione della donna letteralmente disumana. Le donne immigrate in particolare rappresentano internazionalmente l'anello più debole della catena dell'oppressione femminile. Ovunque l'arretramento del movimento operaio trascina con sé conquiste sociali e democratiche delle donne, strappate nella precedente fase di ascesa. E la distruzione di tali conquiste ha esteso e acuito l'oppressione femminile nella sua stessa specificità.
Non a caso oggi, mentre procede lo smantellamento dei sistemi pubblici di wellfare, conosce un forte rilancio l'ideologia familistica che esalta la "naturale" vocazione femminile per il lavoro di cura, allo scopo di scaricare di nuovo sulle donne il peso delle persone inferme, anziane, disabili, ecc. di cui si vuole sgravare il bilancio pubblico e in ultima analisi l'impresa.
Proprio per queste molteplici ragioni la svolta d'epoca di fine secolo rilancia lo stretto vincolo tra liberazione delle donne e alternativa anticapitalistica.
La ripresa di un forte movimento di liberazione della donna su scala internazionale, che intrecci rivendicazioni democratiche e di genere e lotta all'oppressione sociale, è una componente decisiva del rilancio di una prospettiva socialista. Al tempo stesso solo una prospettiva socialista, che spezzi il dominio del capitale nel mondo, può creare le condizioni necessarie, non sufficienti, per un'effettiva liberazione delle donne dalla loro specifica oppressione. Per questo liberazione della donna e lotta di classe sono inscindibili nell'ottica della prospettiva rivoluzionaria.
Duplice è allora il compito della Rifondazione: sviluppare nel movimento operaio la coscienza dell'essenzialità della liberazione della donna contrastando ogni forma di pregiudizio; sviluppare nel movimento delle donne la consapevolezza della centralità della lotta di classe e del movimento operaio come riferimento strategico per la propria liberazione: promuovendo in questa prospettiva il massimo impegno nella lotta quotidiana delle donne per la difesa e l'ampliamento dei propri diritti sociali e di genere.
Tesi 14 - INTERNAZIONALE COMUNISTA (torna all'indice)
La rifondazione comunista si presenta più che mai come necessità internazionale: come rifondazione di un'internazionale comunista basata sul programma del marxismo rivoluzionario, capace di raggruppare su questo programma tutte le organizzazioni e correnti rivoluzionarie del movimento operaio e antimperialista del mondo.L'approfondirsi della crisi sociale e politica mondiale e l'attualità storica della prospettiva socialista quale unica risposta reale e progressiva; lo scarto ampio tra le potenzialità anticapitaliste inscritte nella ripresa dei movimenti e i limiti della loro coscienza politica, ripropongono oggi più che mai come questione centrale la prospettiva della rifondazione di un'internazionale comunista rivoluzionaria: quale strumento indispensabile di direzione alternativa, di sviluppo della coscienza politica di massa, di ricomposizione anticapitalistica dell'avanguardia.
Il movimento marxista si è sempre concepito come movimento internazionale non solo sul piano della prospettiva strategica ma anche sul piano organizzativo. Proprio il carattere internazionale del programma comunista fondava necessariamente il carattere internazionale del partito dei comunisti. Già il Manifesto di Marx ed Engels del 1848 fu redatto quale piattaforma internazionale di un'associazione internazionale di lavoratori (Lega dei Comunisti). Così il carattere internazionale del partito fu riaffermato con la I Internazionale (1864-1876) e con la II Internazionale (nata nel 1889). La deriva riformista di quest'ultima, culminata nell'appoggio ai crediti di guerra da parte della sua maggioranza (1914), fu contrastata dalla sinistra rivoluzionaria dell'Internazionale (guidata da Lenin, Trotsky, Luxemburg, Liebnecht) che già nel 1915 lanciò la prospettiva di una nuova internazionale rivoluzionaria: quella Terza Internazionale comunista che sarà formalmente costituita dopo la vittoria della rivoluzione russa (salutata da Lenin come "iniziò della rivoluzione mondiale").
Lo stalinismo ruppe radicalmente con la tradizione internazionale del marxismo rivoluzionario: con la sua tradizione programmatica e, quindi, con la sua tradizione organizzativa. A partire dall'inedita teoria antimarxista del "socialismo in un solo Paese" -espressione ideologica degli interessi di un nuovo strato sociale burocratico- lo stalinismo condusse l'Internazionale prima alla collaborazione di classe e di governo con le "borghesie progressiste" (i "fronti popolari"), poi al suo scioglimento formale nel 1943. La rappresentazione dello stalinismo come una sorta di fondamentalismo dogmatico marxista -rappresentazione prevalente nella maggioranza uscente del PRC- si rivela dunque, anche da questo versante, l'esatto capovolgimento della verità storica.
Oggi non c'è rottura vera e profonda con lo stalinismo senza recuperare la prospettiva dell'internazionale comunista come partito mondiale della classe lavoratrice. Il rifiuto di assumere questa prospettiva, persino come terreno di discussione, ha rappresentato e rappresenta un errore profondo della maggioranza dirigente del PRC. Sia che il rifiuto muova da culture di tipo "campista", che assumono come asse di prospettiva internazionale l'alleanza inter-statuale "antimperialista" tra Russia, Cina e India, prospettiva del tutto priva di una base di classe e radicalmente smentita dalla presente guerra. Sia che il rifiuto muova -come prevalentemente avviene- dalla sovrapposizione di vecchie posizioni della socialdemocrazia di sinistra (i "governi riformatori") con vecchie suggestioni della "nuova sinistra" antileninista, così da combinare l'enfasi movimentista con il sostegno al governo Jospin.
In realtà solo una svolta strategica e programmatica del PRC può recuperare la prospettiva dell'internazionale: una prospettiva che è parte ineliminabile della rifondazione. L'internazionale per cui lavorare non può che essere un raggruppamento ampio e democratico ma su chiare basi politiche. Come affermava Lenin: "senza teoria rivoluzionaria non c'è movimento rivoluzionario". Un'internazionale comunista non potrà quindi che basarsi sulla teoria e sulle posizioni programmatiche del marxismo rivoluzionario, posizioni sostenute in particolare nel loro sviluppo storico, dai grandi teorici del marxismo: Marx, Engels, Lenin, Trotsky, Luxemburg e, in Italia, Gramsci. Posizioni teoriche e programmatiche che vanno ovviamente sempre aggiornate sulla base dell'evoluzione storica, ma come dichiarava Gramsci "sulle loro proprie basi" e non contro di esse.
La difficoltà della rifondazione di un'internazionale rivoluzionaria su base ampia è stata documentata dall'esperienza storica di decenni. Ma questa difficoltà non deve costituire una remora bensì uno stimolo a perseguire tale prospettiva, tanto più nel contesto storico nuovo che si dischiude, certo complesso ma anche ricco di nuove potenzialità.
Dopo il crollo dell'URSS vasti processi di ricomposizione investono le rappresentanze politiche del movimento operaio. Le vecchie direzioni del movimento operaio e antimperialista hanno fatto completa bancarotta, documentata una volta di più dal dramma della guerra. La crescente ribellione delle classi subalterne e dei giovani del mondo contro l'attuale ordine internazionale pone tanto più oggi l'esigenza di un punto di riferimento rivoluzionario. Al "capitale globale" può e deve contrapporsi il partito globale della classe operaia e della sua avanguardia.
Il PRC deve dunque avanzare al più presto una proposta di discussione organizzata finalizzata al raggruppamento internazionale, sulle basi indicate, dell'insieme delle organizzazioni e correnti rivoluzionarie del movimento operaio ed antimperialista del mondo.Tesi 15 - IMPERIALISMO ITALIANO (torna all'indice)
Il capitalismo italiano ha carattere imperialistico. Negli anni Novanta la transizione alla Seconda Repubblica e l'integrazione nell'imperialismo europeo hanno trainato l'allargamento delle sue basi materiali e una sua più forte proiezione internazionale.Il capitalismo italiano da molto tempo non solo non rappresenta più un "capitalismo straccione" ma partecipa al consesso dei Paesi dominanti su scala mondiale e quindi alla spartizione di materie prime, zone di influenza, aree di dominio. In questo quadro le pressioni della crisi capitalistica internazionale, il crollo dell'URSS, lo sviluppo del polo imperialistico europeo hanno esercitato un effetto decisivo sulla crisi della I Repubblica a partire dal '92. Da un lato, la crisi capitalistica internazionale e il rilancio delle contraddizioni interimperialistiche hanno indotto l'imperialismo italiano ad affrontare il fardello strutturale dei propri "ritardi" e "distorsioni". Dall'altro lato, il crollo dell'URSS ha dissolto, parallelamente, il vero fondamento storico della discriminazione borghese verso il vecchio gruppo dirigente del PCI in ordine al suo possibile accesso al governo: perciò stesso ha consentito al capitale finanziario un distacco dalle proprie vecchie rappresentanze della I Repubblica, e l'avvio di una profonda ricomposizione dei propri assetti politici e istituzionali.
Sul piano economico la grande borghesia ha consolidato, in misura rilevante, nel decennio trascorso, le proprie basi materiali. Il processo di privatizzazione di settori strategici dell'economia come il credito, l'energia e le telecomunicazioni, la ristrutturazione e concentrazione del sistema del credito, concorrono a rafforzare la base del capitale finanziario e il peso specifico dei grandi monopoli, principali beneficiari delle privatizzazioni. Al momento del varo della "moneta unica" europea l'imperialismo italiano si presenta con un peso strutturale sensibilmente accresciuto, cui corrisponde, non a caso, un'accresciuta proiezione nella politica estera.
Parallelamente, la borghesia italiana ha dovuto affrontare il problema dell'impatto sociale delle politiche indotte dal suo ulteriore salto imperialistico. L'impoverimento materiale e la frammentazione di vasti settori di classe; le dinamiche di proletarizzazione di strati inferiori della piccola borghesia; il precipitare delle condizioni sociali di vaste masse del Mezzogiorno; configurano, agli occhi della borghesia, la massa critica potenziale di una pericolosa esplosione sociale. Peraltro la divaricazione che investe la piccola e media borghesia nel quadro dell'integrazione europea, con l'emergere soprattutto al Nord-Est di un suo strato superiore arricchito, autonomistico e corporativo, produce elementi di contraddizione nuova nello stesso blocco sociale dominante.
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Tesi 16 - ANNI NOVANTA E CENTROSINISTRA (torna all'indice)
Il centrosinistra non ha rappresentato semplicemente una cattiva politica della "sinistra italiana" ma ha costituito un'espressione politica dell'imperialismo italiano e il suo investimento strategico degli anni Novanta. L'insieme dei governi di centrosinistra ha configurato il più pesante attacco sociale alle classi subalterne degli ultimi trent'anni, organizzando così la rivincita di Berlusconi. La coalizione col centro borghese ha così condannato il movimento operaio a una pesante sconfitta sociale e politica.Negli anni Novanta entro la scelta bipolare, il centrosinistra si è configurato come riferimento privilegiato delle grandi famiglie capitalistiche: ciò in funzione della pacifica subordinazione del movimento operaio alle compatibilità della crisi e dell'integrazione europea. Il personale politico di centrosinistra seppur diversamente organizzato era già riferimento essenziale della borghesia italiana nel '92 e nel '93 allorché i governi Amato e Ciampi iniziarono la "transizione" italiana. La sconfitta del polo dei progressisti e la vittoria delle destre nel 94 rappresentò un momento di contraddizione che indusse la borghesia per un breve periodo a verificare sul campo la carta Berlusconi. Ma anche in quel breve passaggio il rapporto del capitale finanziario con le destre fu di utilizzo strumentale, non di riferimento strategico. E proprio la sconfitta strategica del primo governo Berlusconi - rivelatosi incapace di gestire sia una concertazione stabile, sia uno scontro risolutivo vincente - ha riattivato l'investimento borghese nel centrosinistra: nel governo Prodi, nel governo D'Alema, nel governo Amato.
Il centrosinistra non ha dunque rappresentato semplicemente una cattiva politica del movimento operaio e della "sinistra italiana", ma un'espressione politica della grande borghesia. A sua volta l'apparato DS, come architrave del centrosinistra, ha costituito un tassello decisivo del disegno borghese degli anni Novanta: quale mezzo di arruolamento subalterno nel centrosinistra di una parte importante delle masse lavoratrici.
E' sbagliato affermare semplicemente che "il centrosinistra ha fallito". Dal punto di vista della borghesia i governi di centrosinistra hanno tutti rappresentato eccellenti comitati d'affari. Sia in ordine alle politiche di sostegno economico diretto alle grandi imprese (incentivazioni, rottamazioni...). Sia in ordine ai loro interessi strutturali e strategici in campo nazionale e internazionale (precarizzazione del lavoro, privatizzazioni). Sia in ordine, in particolare, alla preservazione di una straordinaria pace sociale.
E' vero invece che proprio l'organicità delle politiche borghesi del centrosinistra ha minato progressivamente le sue basi politiche e sociali.
Sul piano politico, proprio l'evoluzione liberale della socialdemocrazia DS e la crescente ramificazione delle sue relazioni dirette coi poteri forti, ha acuito progressivamente la concorrenza interna tra apparato DS e centro borghese tradizionale dell'Ulivo: la lotta per l'egemonia di un costituendo "partito democratico" quale rappresentanza centrale con base di massa della borghesia italiana ha rappresentato un elemento di instabilità tellurica della coalizione.
Ma soprattutto sul piano sociale le politiche del centrosinistra hanno logorato progressivamente la base su cui si reggeva. Il blocco tra grande borghesia e burocrazia del movimento operaio organizzato si è rivelato incapace di egemonia nella società italiana. Da un lato ha amplificato gli spazi di fronda di settori organizzati di piccola e media borghesia industriale contro i cosiddetti privilegi delle grandi imprese e i favori particolari loro accordati dai governi dell'Ulivo o dalla burocrazia CGIL. Dall'altro lato la profonda demotivazione della base di massa del centrosinistra, prevalentemente concentrata nel lavoro dipendente ha prodotto fenomeni crescenti di passivizzazione politica, distacco, rifiuto.
La vittoria del Polo delle Libertà il 13 maggio è dunque la capitalizzazione della crisi del corso politico dominante di un decennio (del Polo progressista e del centrosinistra) e del suo blocco sociale. Proprio per questo la vittoria di Berlusconi e la nuova stagione politica che apre, ripropone una lezione antica, inscritta in tutta la vicenda del Novecento e nella stessa storia del movimento operaio italiano: ogni collaborazione di classe col centro borghese è fattore di sconfitta per i lavoratori e le lavoratrici. Sia dal punto di vista sociale e sindacale, sia dal punto di vista politico più generale. E' un fatto: l'alleanza col centro che doveva "battere la destra" le ha spianato la strada. Questa è la lezione del decennio. E' una lezione che accusa gli apparati dirigenti dei DS e dei sindacati come autentici organizzatori della sconfitta. Ma è una lezione che interroga inevitabilmente, su un piano diverso, anche il corso politico di dieci anni del nostro partito.(vai all'emendamento sostitutivo)
Tesi 17 - BILANCIO DI LINEA DEL PRC (torna all'indice)
Il ciclo lungo della politica del PRC, segnato dalla ricerca del condizionamento, pervasione, contaminazione prima del "polo progressista" poi del Centrosinistra, ha registrato un sostanziale insuccesso; sia dal punto di vista dell'interesse generale del movimento operaio, sia dal punto di vista della costruzione del nostro partito. E' la verifica del fallimento nel quadro nazionale, di una politica riformista, e la misura della necessità di una svolta.Dopo dieci anni della nostra storia un bilancio di fondo non è più rinviabile.
Il nostro partito, con la sua stessa nascita ha costituito sicuramente un importante argine ai processi di riflusso dei primi anni 90 e un fattore prezioso di ricomposizione politica di forze d'avanguardia. Il nostro partito ha resistito positivamente ai ripetuti tentativi di annientamento istituzionale che si sono susseguiti negli anni 90 (specie da parte dei vertici di D.S. e del Centrosinistra). Tuttora il PRC rappresenta, nell'attuale panorama politico, il riferimento naturale e prezioso di dinamiche di movimento, tra i lavoratori e i giovani, altrimenti prive di sponde, o comunque di riferimenti più consistenti e credibili.
Ma un bilancio serio ed onesto non può davvero ridursi a questo. Un partito comunista non può concepirsi come fine di se stesso ma come strumento di classe in funzione di un progetto di egemonia alternativa. E ciò chiama in causa inevitabilmente il bilancio di dieci anni dell'indirizzo politico prescelto.
Per dieci anni, in forme e in contesti diversi, la maggioranza dirigente del PRC ha costantemente respinto la proposta di costruzione del partito come forza strategicamente alternativa, contrapponendovi la scelta di fondo di una politica di pressione e condizionamento "riformatore" dell'apparato D.S. e degli schieramenti politici dell'alternanza borghese (prima il polo progressista, poi il centrosinistra).
Questa politica non ha avuto un'applicazione lineare ed anzi ha registrato lungo il suo corso svolte brusche e cambi repentini di collocazione parlamentare (dall'opposizione alla maggioranza di governo e dalla maggioranza di governo all'opposizione). Ma ha mantenuto costante la propria rotta strategica di fondo. Infatti ogni volta le stesse collocazioni di opposizione sono state finalizzate a riaprire il varco a ricomposizioni di governo (potenziali o reali) con lo schieramento dell'alternanza. Così è stato in occasione della formazione del polo progressista nella primavera del '94 attorno ad un programma elettorale comune di governo. Così è stato nel '95-'96 nel brusco passaggio dall'opposizione radicale al governo Dini alla realizzazione di una maggioranza di governo con Prodi e Dini. Così è stato, dopo lo strappo col governo Prodi: col tentativo prima di ricomporre la vecchia maggioranza di governo dopo una auspicata fase di "decantazione"; poi dopo il fallimento imprevisto di quel tentativo (e la precipitazione dello scontro con il governo D'Alema sulla guerra nei Balcani) con la realizzazione di 14 accordi regionali di governo (su 15) in occasione delle elezioni amministrative del 99, operazione di evidente proiezione politica nazionale ma distrutta dalla sconfitta clamorosa del Centrosinistra. Persino dopo il tramonto ormai inevitabile di quella prospettiva di ricomposizione, la scelta della non belligeranza verso il centrosinistra nelle elezioni politiche, e l'estensione delle collaborazioni locali di governo con l'Ulivo sancivano in forme diverse la continuità di fondo di un indirizzo strategico.Questo indirizzo si è rivelato profondamente errato. Rivendicato in nome di un principio di "realismo" e di "concretezza" dei possibili risultati, esso non ha prodotto alcun risultato concreto e reale. La ricerca della contaminazione riformatrice prima del polo progressista, poi del Centrosinistra, sia dal governo che dall'opposizione, è stata smentita dalla deriva liberale D.S., dai legami di fondo del Centrosinistra con la borghesia italiana. Di più: quella ricerca si è convertita, entro un passaggio drammatico, in un risultato opposto: nella grave corresponsabilizzazione di governo del nostro partito per oltre metà della legislatura precedente nel momento più intenso della sua politica antipopolare: con gravi effetti non solo sulla condizione materiale dei lavoratori ma sulla stessa evoluzione dei rapporti di classe (calo verticale delle ore di sciopero e stabilizzazione della pace sociale). Peraltro la continuità della nostra collaborazione di governo nelle giunte locali di Regioni e grandi città ha riproposto su un piano diverso, la continuità di una nostra concertazione politica di privatizzazioni, riduzioni delle spese sociali, politiche di flessibilità che è del tutto contraddittoria col nostro ruolo nazionale di opposizione.
L'indirizzo prescelto ha mancato inoltre lo stesso obbiettivo di crescita del nostro partito. Rivendicato formalmente anche in funzione di un'espansione del consenso elettorale e del radicamento sociale del PRC, questo indirizzo ha mancato entrambi gli obiettivi. Dopo 10 anni il partito ha registrato un risultato elettorale obiettivamente inferiore a quello della sua nascita. E questo certo in anni difficili, ma anche sullo sfondo di un passaggio storico che ha visto la massima deriva e crisi dei DS, la massima esplosione della sua crisi politica e del suo insediamento organizzato. Lo spazio liberato a sinistra dei D.S. non è stato capitalizzato dal PRC. Gli stessi straordinari sorpassi realizzati nel '93 come "cuore dell'opposizione" nelle città operaie di Torino e Milano, misura di una grande potenzialità, sono stati successivamente dispersi dalla politica ondivaga degli anni seguenti. E il mancato sviluppo di un'egemonia alternativa nelle classi subalterne non ha rappresentato solamente un insuccesso del nostro partito, ma un fatto carico di conseguenze pesanti sull'intera situazione italiana: come la rivincita del centrodestra documenta.Tesi 18 - SUL "GOVERNO DELLA SINISTRA PLURALE" (torna all'indice)
La prospettiva avanzata del governo della sinistra plurale sulla base di un programma riformatore come soluzione post-Berlusconi non solo nega la necessità di un bilancio ma ripropone, nella sua sostanza di fondo, la politica di 10 anni. Il fatto di perseguirla dal versante dei movimenti, non solo non muta la sua natura, ma rappresenta un danno profondo per i movimenti stessi e per il futuro delle loro ragioni.La proposta strategica della sinistra plurale di governo rappresenta un errore profondo ed è gravida di grandi rischi per il nostro stesso partito. Dopo aver perseguito per dieci anni senza successo la contaminazione prima del polo progressista poi del Centrosinistra, non possiamo riproporre, come se nulla fosse accaduto, il medesimo indirizzo di fondo; se non ripercorrendo un sentiero già battuto e già fallito. Non solo in Italia ma nel mondo.
Sul piano nazionale l'esperienza della sinistra plurale è già stata vissuta dal nostro partito in occasione del blocco col Polo progressista del '94 (DS, Verdi, Rete di Orlando, PRC). Il programma testuale su cui si realizzò (v. Liberazione, 4/2/94) rivendicava entro "una competizione per il governo del Paese" "una presenza autorevole e solida dell'Italia sui mercati e nel contesto internazionale" e l'appello "a quelle forze del mondo imprenditoriale che hanno a cuore la crescita sociale, civile, democratica dell'Italia". Su questa base proponeva di "coniugare l'equità sociale con le ragioni dell'efficienza e del mercato" di "promuovere quando sia il caso le privatizzazioni", di operare il "risanamento del disavanzo che implicherà austerità" seppur con "l'impegno a garantire che i sacrifici siano ripartiti con giustizia". La vittoria elettorale di Berlusconi impedì la sperimentazione di questo programma di governo, preservando il PRC all'opposizione sino al '96. Ma quel programma rifletteva e riflette l'unico profilo possibile di una sinistra plurale di governo con l'apparato DS: quello che subordina gli interessi del movimento operaio alle esigenze del capitalismo italiano.
Sul piano internazionale l'esperienza in corso della sinistra plurale di governo in Francia (PS-PCF- Verdi) è stata ed è inequivocabile. Se il primo governo della sinistra plurale francese ('81-'83) sotto la guida di Mitterand aveva accompagnato austerità e sacrifici dei lavoratori col linguaggio formale della tradizione riformista, il governo Jospin ha accompagnato austerità e sacrifici col linguaggio liberale (temperato) delle privatizzazioni e della flessibilità. E' la riprova che nel quadro attuale della crisi capitalistica e della competizione globale, un governo di "sinistra plurale" non differisce, nella sostanza del suo indirizzo, da un ordinario governo borghese liberale. Anche per questo aver invocato dopo le ultime elezioni politiche un "Mitterand italiano", aver a lungo esaltato il governo Jospin (che "contesta l'intera logica della flessibilità e introduce direttamente nell'economia il parametro della difesa degli interessi dei lavoratori" come dichiara il segretario del PRC sull'editoriale di prima pagina del 29/9/99) ha rappresentato un errore profondo che è giusto riconoscere.
In Italia oltretutto la prospettiva della sinistra plurale di governo avrebbe oggi un profilo ancor più arretrato che in Francia o rispetto allo stesso Polo progressista del '94. A differenza del partito di Jospin, l'apparato D.S., nella sua larga maggioranza, ha rotto con il ruolo e funzione di socialdemocrazia per progettarsi come rappresentanza diretta della borghesia italiana, in concorrenza aperta con la Margherita e, su un altro versante, con Forza Italia. Una coalizione di "sinistra plurale" in Italia sarebbe dunque di fatto la riproposizione di un Centrosinistra.
Il fatto di perseguire la prospettiva del governo riformatore di sinistra plurale come sbocco dei movimenti e della loro azione "contaminante" non muta minimamente la valenza negativa della proposta. Anzi, per molti aspetti, l'aggrava. Invece di orientare il lavoro di massa in direzione dell'autonomia dei movimenti dal Centro borghese liberale, assume i movimenti come leva di pressione sull'apparato D.S. e dell'Ulivo. Invece di liberare il movimento e i movimenti da ogni illusione di poter contaminare i liberali, si promuove nel movimento quella stessa illusione. E' l'esatto capovolgimento di una politica autonoma di classe. E soprattutto è un danno profondo al movimento e alle sue ragioni: perché nessuna delle ragioni di fondo dei movimenti di massa, sia dal versante operaio, sia dal versante antiglobalizzazione, potrebbe trovare soddisfazione in un governo borghese di sinistra plurale.
Per l'insieme di queste ragioni, quella prospettiva va apertamente ed esplicitamente respinta dal V Congresso del nostro partito.
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Tesi 19 - POLO AUTONOMO DI CLASSE (torna all'indice)
Il V congresso del PRC assume come nuovo asse strategico della politica del partito lo sviluppo dell'indipendenza del movimento operaio da ogni forza della borghesia: ciò che significa l'autonomia strategica da ogni espressione vecchia e nuova del Centro borghese (Centrosinistra e/o apparato liberale di D.S.), la rottura con ogni ipotesi di governo di alternanza con tali forze, l'assunzione della prospettiva dell'alternativa anticapitalistica e di classe quale sbocco strategico dell'opposizione di massa e della ricomposizione nelle lotte del nuovo blocco storicoL'esperienza politica di 10 anni del nostro partito l'analisi di classe della situazione politica, la ripresa dei movimenti di massa, richiedono nel loro insieme, una svolta politica di fondo del nostro indirizzo: una svolta che assume come asse di fondo l'autonomia del movimento operaio e dei movimenti di massa da ogni forza della borghesia, e quindi la rivendicazione di un polo autonomo di classe, apertamente contrapposto alle classe dominanti e alle loro alternanti espressioni di governo (Centro destra e Centrosinistra). La politica del "polo autonomo di classe" non riguarda solamente la certezza e chiarezza di una collocazione strategica autonoma di opposizione del nostro partito rispetto ai due poli borghesi d'alternanza, ciò che pure ne rappresenta una condizione necessaria. Riguarda innanzitutto una linea di proposta tra le grandi masse che recupera un principio elementare del marxismo: la contrapposizione degli interessi dei lavoratori e , di tutti i soggetti di un blocco sociale alternativo agli interessi delle classi dominanti, e di tutte le loro rappresentanze politiche in funzione della prospettiva della rivoluzione sociale. La rottura col "Centro" in ogni sua espressione, vecchia o nuova, non è solo dunque un principio vincolante per il PRC, ma una rivendicazione fondamentale dei comunisti nei movimenti. Non solo non ha una valenza di autorecinzione settaria ma indica nell'autonomia del movimento operaio e dei movimenti di massa il terreno stesso della loro più larga unità di lotta contro la borghesia per l'alternativa anticapitalistica.
La proposta del polo autonomo di classe alternativo è tanto più attuale dopo la lunga stagione del centrosinistra: milioni di lavoratori e lavoratrici sono stati subordinati all'Ulivo nel momento stesso in cui questi costituiva il canale prescelto di rappresentanza della borghesia italiana. Milioni di lavoratori e lavoratrici hanno sperimentato il fallimento sociale e politico della collaborazione con la borghesia. La rivendicazione della rottura col Centro può dunque far leva su questa viva esperienza e aprirsi un ampio varco nella giovane generazione che rialza la testa.Peraltro ogni giorno dimostra, anche dopo l'affermazione del governo di centrodestra, la relazione organica dell'Ulivo con le classi dominanti. La politica bypartisan verso Berlusconi, commissionata dai poteri forti della società italiana, la rivendicazione di una politica "più liberista" di quella praticata dal governo, su terreni strategici per l'accumulazione capitalistica (v. privatizzazioni); il voto a favore della guerra imperialista in Afghanistan accompagnata dall'assunzione del ministro FIAT Ruggiero come interlocutore privilegiato (v. vicenda Airbus) non indicano "errori" o "divergenze strategiche" con i comunisti: indicano la base materiale di interessi nella quale il centrosinistra affonda le proprie radici. Una base materiale di riferimento che non cambia col passaggio "all'opposizione", ma che anzi resta l'ancoraggio indissolubile della prospettiva borghese cui "l'opposizione" viene finalizzata. Per questo la rottura con il centrosinistra rappresenta una permanente necessità di classe per l'insieme del movimento operaio e dei movimenti di massa.
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Tesi 20 - CRISI E DERIVA DS (torna all'indice)
L'apparato burocratico DS, da sempre agenzia della classe dominante nel movimento operaio, ha oggi rotto nella sua maggioranza con la stessa funzione e ruolo di socialdemocrazia per avviare la mutazione del partito verso una forza liberale borghese in rappresentanza diretta di poteri forti della società. Questa evoluzione rafforza la necessità di un politica di polo autonomo di classe in alternativa ad ogni ipotesi di sinistra plurale. La crisi verticale del D.S. che a quella evoluzione si accompagna, crea uno spazio storico nuovo per lo sviluppo autonomo del partito comunista e di una sua egemonia alternativa.I DS attraversano la crisi più profonda della loro storia politica. Questa crisi non nasce dalla gravità della sconfitta elettorale o dall'esito fallimentare della prima esperienza di governo. Nasce dal fatto che quella sconfitta si produce nel momento più delicato di un processo di mutazione storica dei DS: da partito socialdemocratico, strumento di controllo del movimento operaio per conto della borghesia, a partito democratico liberal borghese rappresentanza diretta di poteri forti della società.
La prolungata esperienza di governo dei DS nel corso degli anni Novanta è stata il volano di quel processo di mutazione. Sullo sfondo della crisi della Prima Repubblica, della crisi della rappresentanza politica centrale della borghesia italiana, dell'investimento strategico del grande capitale nel centrosinistra l'apparato burocratico DS ha conosciuto, a partire dal '95, una straordinaria moltiplicazione, ad ogni livello, delle proprie relazioni materiali con le classi dominanti. Una maggioranza larga della burocrazia dirigente del partito ha così assunto progressivamente come obiettivo strategico la propria trasformazione in rappresentanza politica centrale (con base di massa) del grande capitale in Italia. Il congresso del Lingotto ha simbolicamente coronato questo nuovo orizzonte liberale. E la rottura con la funzione di socialdemocrazia non si riduce a puro fatto politico-culturale ma si accompagna a mutamenti rilevanti circa la costituzione materiale del partito, le sue relazioni con le organizzazioni di massa, il suo rapporto con le dinamiche della lotta di classe e col suo stesso insediamento territoriale di massa. Ciò non significa la scomparsa di ogni eredità della socialdemocrazia (presenza nel quadro attivo del movimento operaio, rapporto con l'apparato sindacale, presenza all'interno dello stesso apparato DS di tendenze socialdemocratiche quali l'area di Socialismo 2000 e la Sinistra Ds). Significa che quelle presenze e funzioni, per quanto rilevanti, non sono più il baricentro del partito né la base materiale della relazione dei DS con la borghesia. L'aperto contrasto tra l'apparato DS e la burocrazia CGIL, la sostanziale marginalità del ruolo dei DS rispetto alle dinamiche dei nuovi movimenti di classe (metalmeccanici) e giovanili (antiglobalizzazione) sono un riflesso dello strappo compiuto. La vittoria congressuale larga di Fassino e D'Alema nella burocrazia del partito tanto più dopo il passaggio all'opposizione misura la consistenza delle basi materiali dello strappo. Peraltro tutto l'orientamento attuale dell'apparato DS, dal pronunciamento atlantista a sostegno della guerra fino all'apertura alla Confindustria sulla liberalizzazione dei licenziamenti resta attestato non solo sulla prospettiva dell'alternanza di governo ma sulla ricerca e preservazione delle relazioni materiali con la borghesia: una sorta di comitato ombra degli affari borghesi in attesa di chiamata. Pertanto la caratterizzazione dei DS come "sinistra moderata", da sempre improprio, è tanto più oggi totalmente errata.
Ma se è chiaro il distacco dalla socialdemocrazia incerto è il lido d'approdo dei DS. La perdita della sponda di governo, lo sviluppo di una nuova temibile concorrenza sul versante del centro borghese (Margherita), i fenomeni di lacerazione interni allo stesso apparato liberale del partito, pongono nel loro insieme ostacoli nuovi sul terreno della continuità del progetto borghese liberale. La ricomposizione del blocco industriale attorno al governo Berlusconi è un ulteriore fattore di crisi del progetto dalemiano. Tutto ciò non produce un ripiegamento di tale progetto (reso difficilmente reversibile dalle sue stesse radici nel partito) ma certo lo espone ad un più alto rischio di fallimento sullo stesso versante borghese. Nel mentre il suo ostinato perseguimento moltiplica i fenomeni di scollamento del vecchio insediamento sociale dei DS.La deriva DS verso il liberalismo borghese, la crisi verticale che a questa deriva si accompagna, misurano congiuntamente la necessità della politica di un polo autonomo di classe e un nuovo spazio storico per la sua costruzione.
Larghi settori di massa vivono oggi drammaticamente non solo il tradimento delle proprie direzioni ma il processo di crisi e dissoluzione della loro vecchia rappresentanza politica. La stessa ripresa dei movimenti sul versante operaio e giovanile, nel mentre coinvolge forze crescenti del popolo della sinistra ne accentua lo sbandamento politico e moltiplica nuove domande di riferimento. Il nostro partito può e deve rispondere a questa domanda nel segno della più ampia apertura di massa, con la proposta del polo autonomo di classe. Questa proposta offre un riferimento alternativo alla crisi di rappresentanza del movimento operaio, indicando ad ampi settori di massa una via d'uscita da quella crisi: quello della rottura con l'apparato liberale DS e dell'Ulivo in funzione dell'autonoma unità di lotta contro il governo Berlusconi e la borghesia italiana. In questo senso la rivendicazione del polo autonomo di classe sul terreno anticapitalistico rappresenta uno strumento di costruzione dell'egemonia alternativa dei comunisti tra le classi subalterne e nei loro movimenti.(vai all'emendamento sostitutivo)
Tesi 21 - PRC E GIUNTE LOCALI (torna all'indice)
Lo sviluppo della politica del polo autonomo di classe e del blocco sociale alternativo implica la chiarezza e coerenza di una collocazione del PRC all'opposizione, anche sul piano locale; da qui il necessario superamento delle collaborazioni locali di governo tra PRC e Centrosinistra a partire dalle Regioni e dalle grandi città. Una svolta tanto più attuale sullo sfondo del sostegno dell'Ulivo alla guerra e dello sviluppo del federalismo istituzionale liberista.Lungo l'itinerario di dieci anni il nostro partito ha realizzato e perseguito come costante la linea della collaborazione di governo col Centrosinistra sul terreno delle amministrazioni locali. E' una linea che da un lato ha mancato l'obiettivo dichiarato di "battere le destre" come rivela la disfatta di tante coalizioni di governo tra Ulivo e PRC nelle elezioni amministrative del 16 aprile 2000 (a partire dalla Regione Lazio). Dall'altro lato -e soprattutto- ha corresponsabilizzato il PRC nella gestione e concertazione locale delle politiche liberiste in aperta contraddizione con le ragioni sociali del nostro partito. La nuova politica di polo autonomo di classe anticapitalistico richiede dunque una svolta profonda della nostra politica locale.
Il Centrosinistra a livello locale non è altra cosa dal Centrosinistra nazionale: linee programmatiche, riferimenti sociali, metodi di governo sono inevitabilmente omogenei. Spesso anzi negli anni 90 proprio le amministrazioni locali dell'Ulivo hanno rappresentato laboratori d'"avanguardia" nella sperimentazione delle politiche liberiste.
L'avvento del governo Berlusconi col passaggio dell'Ulivo all'"opposizione" non ha minimamente mutato il profilo delle scelte locali del Centrosinistra. Proprio il tentativo dell'Ulivo di riaccreditarsi come carta di ricambio per la borghesia sul piano nazionale passa anche per l'uso delle proprie amministrazioni locali, spesso esibite come modello di efficienza manageriale a fronte delle presunte incertezze del Polo (v. privatizzazioni). Più in generale le giunte locali diventano più che mai, proprio oggi, uno strumento importante di consolidamento o ritessitura delle relazioni dell'Ulivo coi poteri forti della società italiana.Lo sviluppo del federalismo istituzionale liberista, varato dall'Ulivo e ulteriormente aggravato dal nuovo governo Berlusconi, concorre a rafforzare ed estendere gli indirizzi liberisti delle amministrazioni locali. Il vecchio argomento della distinzione di piano tra politiche nazionali e politiche locali (da sempre infondato), è oggi demolito alla radice dalla nuova realtà. Il trasferimento ai governi regionali di larga parte delle voci e materie relative al così detto stato sociale farà degli esecutivi regionali di Centrosinistra i nuovi agenti della concertazione nazionale col governo delle destre e al tempo stesso una prefigurazione sperimentale sempre più ampia dell'alternanza nazionale di governo.
Peraltro la dislocazione diffusa dei governi locali dell'Ulivo a sostegno delle scelte di guerra congiunte dell'Ulivo e del Polo sono l'ulteriore e più clamorosa riprova dell'omogeneo carattere di fondo, nazionale e locale, del liberalismo borghese.
Il nostro partito è chiamato anche su questo terreno a una svolta netta. Tanto più oggi il PRC non può assumere la centralità dell'opposizione alla guerra dichiarando che con la guerra "nulla sarà come prima" e poi continuare a sorreggere "come prima" governi regionali schierati con la guerra. Il PRC non può assumere la centralità del movimento dichiarando che dopo Genova nulla sarà come prima e poi continuare a sostenere come prima giunte contrapposte o latitanti verso istanze del movimento (a partire dalla giunta di Genova)
E' necessario un coerente orientamento di fondo: la collocazione dei comunisti all'opposizione anche sul piano locale a partire dalle regioni e dalle grandi città.
Diversa è ovviamente la situazione -ad oggi eccezionale- in cui i comunisti fossero parte essenziale di giunte locali che si pongono realmente sul terreno dell'alternativa anticapitalistica: ove diventa fondamentale un'azione di opposizione al governo nazionale fortemente legato agli interessi di classe fuori da ogni falsa neutralità istituzionale.Tesi 22 - PER LA CACCIATA DEL GOVERNO BERLUSCONI (torna all'indice)
Il governo Berlusconi si configura come governo reazionario, che tende a risolvere le sue contraddizioni in un nuovo attacco generale al movimento operaio. L'opposizione del nostro partito al governo Berlusconi-Bossi-Fini non può avere carattere ordinario, ma può e deve porre apertamente l'obiettivo della sua cacciata sull'onda di una grande mobilitazione operaia e popolare. Assumendo l'obiettivo della cacciata del governo non come fine a sé ma come leva dell'alternativa anticapitalistica di classe.Il governo del Polo delle Libertà ha un carattere diverso dal primo esecutivo Berlusconi ('94). Sul piano politico registra un salto notevolissimo dell'insediamento di Forza Italia, un rapporto più stabile con la Lega, un vasto raccordo con amministrazione locali omogenee. Sul piano sociale conosce, a differenza del 94, l'appoggio della grande industria: che pur avendo sostenuto il centrosinistra per tutta la precedente legislatura, pur avendo lavorato per la riconferma dell'Ulivo, ha scelto di investire, dopo l'esito del voto, nel nuovo governo Berlusconi attraverso l'ingresso diretto di propri esponenti (Ruggiero): consapevoli della maggior forza del nuovo governo e quindi dell'opportunità di utilizzarlo, ma con la precisa volontà di porlo sotto la tutela del proprio personale fiduciario. Dal canto suo il governo lavora a conciliare la difesa degli interessi affaristici e familistici della Fininvest e di ambienti malavitosi del capitale con la rappresentanza generale dell'interesse borghese.
Il programma del nuovo esecutivo ha un carattere obiettivamente reazionario: esso estende e sviluppa in forma concentrata le linee di governo della legislatura precedente, sia sul piano sociale, sia sul piano istituzionale. Sul piano della politica estera, il più stretto fiancheggiamento della politica americana convive, non senza contraddizioni, con la continuità della collocazione strategica nell'imperialismo europeo (presidiata in particolare dalla FIAT e dal suo ministro Ruggiero).
La linea di gestione di questo programma generale non ha ancora conosciuto un assestamento stabile, oscillando tra la ricerca di un rapporto concertativo con le organizzazioni del movimento operaio e tentativi di affondo diretto. Tuttavia pesa l'effetto di trascinamento di una contraddizione obiettiva: da un lato la necessità politica di finanziare un blocco di interessi tanto esteso quanto contraddittorio e costoso; dall'altro lato la necessità di farlo entro le compatibilità del patto di stabilità europeo e sullo sfondo della crisi economica internazionale. Questa contraddizione alimenta tensioni crescenti nello stesso blocco sociale berlusconiano (come tra industria e Confcommercio in fatto di politiche fiscali). Ma proprio per questo spinge il governo lungo la china dello scontro sociale col blocco avversario: perché solo l'affondo contro il lavoro dipendente può contenere le spinte centrifughe del blocco dominante e allargare i margini di una mediazione al suo interno. Peraltro la paralisi subalterna della CGIL e la crisi e complicità del centrosinistra incoraggiano l'offensiva sociale. E il contesto internazionale di guerra, con i suoi possibili effetti diversivi, ha suggerito al governo una anticipazione dei tempi d'attacco. Non a caso l'affondo su contrattazione, sistema pensionistico, sanità e scuola è già iniziato, culminando nell'attacco all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: e tenderà a combinarsi con nuove politiche di restrizioni antidemocratiche, nel campo dei diritti sindacali e nella gestione dell'ordine pubblico. L'aperto cavalcamento da parte di AN delle spinte più reazionarie dell'apparato repressivo dello Stato come è emerso dai fatti di Genova, è la misura e l'anticipazione di una tendenza profonda che è incoraggiata dalla stessa composizione del nuovo governo. In conclusione: più si stabilizza l'attuale governo più esso tenderà a precipitare "a destra" le sue contraddizioni politiche e sociali.L'obiettivo della cacciata del governo Berlusconi risponde dunque a un interesse generale del movimento operaio e di tutto il blocco sociale alternativo. Risponde all'interesse comune di liberare il campo da un'obiettiva minaccia reazionaria. Assumere questa parola d'ordine non significa nutrire illusioni o avanzare previsioni. La maggior forza del secondo governo Berlusconi, i colpi subiti dal movimento operaio nella legislatura precedente, le stesse dinamiche internazionali concorrono a favorire la tenuta dell'esecutivo. E tuttavia un partito comunista non può determinare livello e obiettivi della propria proposta di opposizione in base alla constatazione delle difficoltà di partenza. Può e deve assumere come base di riferimento le necessità del movimento operaio e agire come fattore attivo di controtendenza.
Peraltro, nonostante le difficoltà, vasti sono gli spazi per la costruzione di un'opposizione radicale di massa al governo delle destre. Nonostante il suo più forte insediamento, il governo Berlusconi non è nato sull'onda di un'espansione del consenso nella società italiana, ma sullo sfondo di un arretramento della coalizione delle destre rispetto al '94 e al '96. Parallelamente, nonostante i colpi subiti si moltiplicano nell'ultima fase i segni di ripresa del movimento operaio a partire dalla grande mobilitazione dei metalmeccanici con l'affacciarsi sul campo di una nuova generazione operaia. E questa ripresa di classe, seppur fragile ancora, si combina a sua volta con la continuità e lo sviluppo di un movimento antiglobalizzazione, prevalentemente giovanile, che ha acquisito in Italia un carattere di massa più ampio che in altri Paesi europei. Inoltre, in particolare a ridosso dei fatti di Genova, si è sviluppato un processo di attiva sensibilizzazione antigovernativa di settori rilevanti di popolo della sinistra, a sostegno del movimento antiglobalizzazione e richiamati da una sincera preoccupazione democratica (v. le manifestazioni del 24 luglio). Tutti questi fattori non innescano di per sé meccanicamente l'opposizione di massa al governo, ma misurano un potenziale di controffensiva al suo programma reazionario che si appoggia su una base sociale e politica più ampia che in passato. Il nostro partito ha il compito di raccogliere e sviluppare queste potenzialità, ricomponendole attorno a un programma e a un obiettivo di sbocco unificante.
Per questo, tanto più oggi, non possiamo attestarci sulla routine dell'opposizione parlamentare combinata con la lode della spontaneità dei movimenti. Ma dobbiamo favorire entro l'esperienza viva dei movimenti, le condizioni di un'esplosione sociale concentrata contro le classi dominanti e il loro governo. Solo un'esplosione sociale concentrata può ribaltare i rapporti di forza tra le classi e aprire il varco dell'alternativa anticapitalistica. E solo un'alternativa anticapitalistica può rispondere realmente alle ragioni di fondo delle classi subalterne e delle loro lotte. La rivendicazione della cacciata del governo Berlusconi può e deve essere interna alla prospettiva anticapitalistica, come una delle leve della sua maturazione. Per questo essa va posta apertamente all'interno dei movimenti, senza forzature "politiciste" ma senza autocensure, in un rapporto vivo con la dinamica obiettiva delle loro lotte.(vai all'emendamento sostitutivo)
Tesi 23 - OPPOSIZIONE DI CLASSE A BERLUSCONI E VERTENZA GENERALE (torna all'indice)
La classe operaia e il mondo del lavoro è il soggetto centrale dell'opposizione a Berlusconi e la leva del suo possibile ribaltamento. Ma alla condizione di ricomporre nella lotta, sul terreno di una vertenza generale unificante, un proprio polo di classe indipendente, alternativo al centrosinistra liberale.L'esperienza stessa degli anni Novanta reca un insegnamento prezioso per i comunisti e per il movimento operaio italiano. Solo il movimento operaio, con la sua azione di classe concentrata, è stato capace di arrestare l'ascesa di Berlusconi, incrinare il suo blocco sociale, porre le condizioni della sua caduta: è l'esperienza dell'autunno '94. Questa lezione va recuperata alla memoria di vaste masse e assunta come bussola di una nostra nuova politica di fronte al secondo governo delle destre.
La ricomposizione di un movimento unitario di lotta della classe lavoratrice non ha solo valenza sindacale ma una valenza politica generale. Per questo la proposta di una vertenza generale unificante del mondo del lavoro e dei disoccupati può e deve costituire l'asse immediato di intervento del nostro partito sul terreno del rilancio di un'azione di classe indipendente. Non si tratta di elencare in modo ordinario gli obiettivi della nostra opposizione di partito. Si tratta di selezionare un insieme combinato di rivendicazioni per lo sviluppo dell'opposizione di massa, per una sua espressione radicale e concentrata, per la riunificazione in essa del blocco sociale alternativo. La proposta di una vertenza generale del mondo del lavoro e dei disoccupati, nella prospettiva dello sciopero generale contro governo e padronato, risponde tanto più oggi a questa necessità.
La rivendicazione di un forte aumento salariale unificante per tutto il lavoro dipendente è tanto più oggi in diretta contrapposizione alla politica di attacco alla contrattazione nazionale promossa dal nuovo governo. La rivendicazione dell'abolizione del "Pacchetto Treu" e di ogni forma di lavoro precario (a partire dall'assunzione a tempo indeterminato di tutti i precari attuali), cozza frontalmente più che mai con la linea strategica di frantumazione del lavoro dipendente. La richiesta del salario minimo garantito intercategoriale (quantificabile in 1000 Euro al netto di ogni trattenuta, punto di riferimento anche per le pensioni dei lavoratori) per l'insieme del lavoro dipendente si contrappone tanto più oggi alla politica di regionalizzazione salariale incorporata al federalismo liberista. La rivendicazione del riconoscimento ed estensione dei diritti sindacali a tutti i lavoratori subordinati, indipendentemente dal tipo di contratto e dalla dimensione dell'impresa, è in aperta collisione con i programmi congiunti di Confindustria e governo, a partire dall'attacco all'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. La rivendicazione di un vero salario garantito per i disoccupati e i giovani in cerca di prima occupazione (quantificabile nell'80% del salario minimo intercategoriale o di quello contrattuale precedentemente percepito), finanziato in primo luogo con l'abolizione dei trasferimenti pubblici alle imprese, fuori da ogni logica di compromesso col lavoro "minimo" cioè precario, contrasta con le politiche di precarizzazione dilagante e indica un'arma di resistenza al ricatto della scelta tra disoccupazione e supersfruttamento. La riduzione generalizzata dell'orario di lavoro a parità di salario senza flessibilità e annualizzazione, con l'abolizione dello straordinario, indica l'unica via per una lotta efficace contro la disoccupazione di massa. La rivendicazione di una tassazione progressiva di grandi rendite, profitti, patrimoni ("paghi chi non ha mai pagato") come fonte di ampliamento e riqualificazione della spesa sociale (a partire dalla sanità e dalla scuola) può e deve contrapporsi alla linea governativa di detassazione dei profitti pagata dalla distruzione dello stato sociale.
Questa piattaforma rivendicativa immediata non va considerata come piattaforma chiusa, o come piattaforma sostitutiva delle specifiche rivendicazioni di settore e di movimento. Ma va assunta nella sua logica di fondo di piattaforma unificante cui ricondurre l'intervento di massa dei comunisti: nei movimenti, sul territorio, nelle organizzazioni di massa. La sua funzione è di far leva sulla piattaforma reazionaria di padronato e governo per contrapporvi la radicalità speculare di una piattaforma di classe alternativa. E di far leva su una piattaforma di classe alternativa per unire attorno alla classe lavoratrice tutti i settori e frammenti delle masse subalterne: al di là di una pura logica sindacale, e contro l'attuale dinamica di frantumazione.
In questo quadro e su questo terreno il PRC avanza la proposta più generale del fronte unico di classe contro il governo Berlusconi e il padronato. Il suo significato è semplice: se il governo ricompone oggi attorno a sé l'unità d'azione della borghesia, occorre realizzare la più ampia unità d'azione dei lavoratori e delle lavoratrici contro il governo e il blocco di interessi che lo sostiene. Si tratta di rivendicare la più ampia unità di lotta dei lavoratori, al di là di ogni barriera politica e sindacale, favorendo ovunque possibile la convergenza nell'azione su un comune programma. Più in generale va rivolto un appello a tutte le forze e tendenze che si richiamano al movimento operaio perché convergano nell'azione attorno a un programma di classe indipendente, in aperta rottura con le forze del centro borghese. Se la subordinazione del movimento operaio al centro borghese ha preparato in cinque anni la vittoria di Berlusconi, solo la rottura col centro borghese può consentire al movimento operaio di cacciare Berlusconi. La proposta incalzante di unità d'azione del movimento operaio contro il governo va quindi apertamente contrapposta ad ogni proposta frontista con le forze borghesi. La lotta per l'egemonia di classe nell'opposizione al governo delle destre in alternativa al centrosinistra borghese, definisce esattamente il nuovo campo di battaglia dei comunisti.Tesi 24 - RIFONDAZIONE SINDACALE (torna all'indice)
E' necessario sviluppare una battaglia organizzata classista sia nella Cgil che nel sindacalismo di base extraconfederale nella prospettiva della "Costituente di un sindacato classista, unitario, confederale, democratico, di massa". E' necessario al contempo la lotta per lo sviluppo di strutture di autorganizzazione di massa (dai coordinamenti dei delegati ai comitati di lotta e di sciopero, ai consigli).E' necessario realizzare una svolta profonda della nostra politica sindacale. Essenziale è innanzitutto un giudizio inequivoco sulla natura delle burocrazie sindacali, vere agenzie della classe dominante all'interno del movimento operaio. La politica di concertazione dei gruppi dirigenti confederali e segnatamente della Cgil non rappresenta semplicemente una "politica sbagliata" per quanto grave. Riflette la natura profonda degli apparati burocratici del sindacato: un "ceto politico", e una corrispondente struttura, la cui azione permette il perpetuarsi del dominio di classe del capitale.
Il primo dovere del nostro partito è quindi quello di superare l'ottica sino ad ora perseguita di "spostare a sinistra l'asse della Cgil". All'opposto il PRC è chiamato ad assumere come nuovo asse della propria politica sindacale una lotta aperta per cacciare la burocrazia dal movimento sindacale, a partire da un giudizio di "irriformabilità" delle strutture.
Ciò non esclude il lavoro dei comunisti nelle organizzazioni tradizionali e segnatamente nella Cgil. Ma certo implica il completo abbandono di ogni logica di pressione, fosse pure radicale, sulle burocrazie dirigenti, e lo sviluppo di un'aperta opposizione di classe capace di sfidare le "regole" dell'apparato sindacale e di configurarsi come riferimento autonomo per l'insieme dei lavoratori/lavoratrici. Anche l'apertura di parziali contraddizioni all'interno dell'apparato e la necessità imposta dalla presenza del governo del centrodestra non mutano questo quadro generale. Sabbatini e la burocrazia FIOM, diventate troppo facilmente un punto di riferimento e un interlocutore privilegiato per la attuale maggioranza del partito, non esprimono una contrapposizione strategica alla linea di collaborazione di classe di Cofferati (espressa anche sul terreno della guerra). Le cui ultime prese di posizione non costituiscono che l'espressione tattica della autodifesa obbligata di una burocrazia socialdemocratica di fronte ad un attacco che mira a ridurne drasticamente il ruolo nella concertazione. Concertazione che viene riconfermata come asse strategico della burocrazia CGIL proprio in rapporto all'offensiva governativa in atto. Come per il gruppo di maggioranza delle Commisiones Obreras in Spagna l'obiettivo di Cofferati è quello della realizzazione di un quadro concertativo anche col governo di centrodestra: l'unico problema è che Berlusconi non è Aznar e ciò rende difficile la praticabilità dell'obiettivo.La costituzione nella CGIL della nuova area di Lavoro e Società-Cambiare rotta è certamente un fatto positivo, perché supera la precedente situazione di divisione essenzialmente indotta da una pratica del nostro partito non basate su presupposti di linea politico-sindacale, ma sulla necessità di avere un settore "fedele" alla politica del partito, in particolare nel momento della sua partecipazione alla maggioranza di centrosinistra (non a caso le condizione di una riunificazione delle aree della sinistra sindacale si sono poste a partire dalla nostra rottura col governo Prodi). Tuttavia la positività è solo organizzativa. Infatti non viene tratto nessun bilancio della incapacità sia dell'area di "Alternativa Sindacale" che dell'"Area dei comunisti in CGIL" di rappresentare una conseguente opposizione di classe alla linea collaborazionista della maggioranza della Cgil. Incapacità riconfermata di fronte al tradimento del movimento antigovernativo rappresentato dallo "'sciopericchio" di dicembre 2001. Mostrando infatti tutti i suoi limiti riformisti Lavoro e Società - Cambiare rotta invece di contrapporsi frontalmente si è adattata in maggioranza alle scelte della burocrazia dirigente.
E' necessario quindi lavorare allo sviluppo di un'area coerentemente classista, basata sui militanti comunisti ma aperta all'aggregazione di altri settori indipendenti, che si candidi all'egemonia sull'insieme della sinistra della confederazione, e si basi su un programma d'azione anticapitalistico in aperta opposizione ai gruppi dirigenti.
Parallelamente il PRC deve lavorare ad un collegamento costante, nell'azione, tra questa sinistra rifondata della Cgil e i compagni/e comunisti/e che sviluppano la propria azione nel sindacalismo di base extraconfederale: un sindacalismo che configura, com'è ovvio, un quadro d'intervento più avanzato sul terreno degli obiettivi politico-sindacali e che, tuttavia, su basi diverse, è anch'esso segnato da limiti reali, ben oltre il suo limite di influenza: quali, ad esempio, la tendenza cronica alla frammentazione. In questo quadro la battaglia per l'unificazione del sindacalismo di base extraconfederale è un'azione che va sviluppata come centrale nella prossima fase da parte dei militanti comunisti in esso inseriti.
Il PRC non può illudersi di superare "per decreto" l'attuale dislocazione dei militanti comunisti in diverse organizzazioni sindacali: è questa una realtà sancita e "legittimata" sia dall'obiettiva complessità della questione sindacale, sia dalla concreta vicenda del sindacalismo italiano, e che solo lo sviluppo della lotta di classe e l'esperienza della lotta antiburocratica potrà consentire di superare in avanti. Il PRC può e deve invece, da subito, indicare l'asse generale di proposta e le basi programmatiche che debbono unire i militanti sindacali comunisti, siano essi collocati nel sindacato confederale o nel sindacato di base extraconfederale.
L'asse generale che il V Congresso avanza è la proposta della "costituente di un sindacato classista, unitario, confederale, democratico e di massa".
Con questa indicazione i comunisti si rivolgono all'insieme dei lavoratori e delle lavoratrici per realizzare la loro unità , sulle basi più larghe, in una confederazione sindacale unitaria, fondata sulla democrazia dei lavoratori e sulla difesa dei loro autonomi interessi, in rottura con le attuali burocrazie dirigenti. Ciò significa avanzare la prospettiva di una unità dal basso, a partire da assemblee unitarie di iscritti (e non) nei luoghi di lavoro. Le forme di articolazione di questa proposta generale potranno variare in rapporto allo sviluppo concreto della situazione. Ma essa assume come riferimento centrale la lotta dei comunisti per l'egemonia sulle masse politicamente e sindacalmente attive: fuori sia da una logica di autoghettizzazione su basi puramente sindacalistiche, sia da una logica di subalternità agli attuali apparati sindacali.
In questa prospettiva di lavoro comune è necessario un coordinamento dei militanti sindacali comunisti al di là delle diverse appartenenze di sigla. Un coordinamento che deve porsi da ora come ambito unificante del nostro dibattito sindacale, ai vari livelli territoriali e nei diversi settori.
Parallelamente, sulla base della proposta della "costituente", dobbiamo lavorare al raggruppamento unitario di un settore più largo, che vada al di là dei soli militanti comunisti, costruendo, nei luoghi di lavoro, ovunque possibile, "comitati per la rifondazione sindacale", che coinvolgano attivisti sindacali di diversa appartenenza, e cerchino di configurarsi come punto di riferimento per l'azione antipadronale e antiburocratica.
E' altresì importante che il PRC lavori al rilancio del movimento dei delegati Rsu. Un coordinamento permanente della sinistra larga degli eletti/e nelle Rsu su un programma immediato di natura classista può essere, infatti, uno strumento importante di lotta antiburocratica e per lo sviluppo del movimento di massa. Da questo punto di vista va dato il pieno appoggio all'iniziativa unitaria del sindacalismo classista che ha visto un suo primo importante momento nell'incontro dei/delle delegati/e sindacali del 1 dicembre 2001 a Bologna e che vedrà il successivo passaggio con l'assemblea dell'11 gennaio 2002 a Milano.Infine, pur considerando centrale la lotta nelle organizzazioni sindacali, i comunisti debbono evitare qualsiasi tipo di formalismo. In particolare, nei momenti di ascesa della lotta, sia generali che particolari, è decisivo lavorare allo sviluppo di forme di autorganizzazione di massa, sia nella forma di comitati di lotta, sia nella forma ben più elevata di strutture elette e controllate democraticamente (comitati di sciopero, consigli). E' in definitiva in queste strutture, più che nelle organizzazioni sindacali, che si giocherà la battaglia dei comunisti per la conquista della maggioranza della classe.
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