INTRODUZIONE - SINTESI (torna all'introduzione)

Il capitalismo mondiale riversa sempre più la propria crisi sulla condizione generale dell'umanità, minacciando una vera e propria regressione storica di civiltà. La ripresa delle guerre che ha segnato l'ultimo decennio -prima in Irak, poi nei Balcani, oggi in Afghanistan-, ne è il riflesso materiale e simbolico.
La rappresentazione della cosi detta "globalizzazione" capitalistica come avvento di un "nuovo capitalismo" capace di superare le sue antiche contraddizioni, è stata smentita dalla realtà.

La crisi che da un quarto di secolo segna l'economia del mondo non solo non è superata ma si ripropone oggi nella forma classica della recessione.
Le contraddizioni tra i blocchi capitalistici non solo non si sono dissolte in un "impero" indistinto e omogeneo ma si ripropongono acuite dopo il crollo dell'URSS e sotto la spinta della crisi.
La contraddizione tra capitale e lavoro, lungi dall'essere superata o ridimensionata, è riproposta nella sua centralità dalla crisi e dalla nuova competizione globale capitalistica.

Lo stesso sviluppo del militarismo e della guerra in corso -con i suoi effetti regressivi sul terreno delle libertà democratiche e delle conquiste sociali- è inseparabile dal contesto generale della crisi capitalistica. Lungi dall'essere un conflitto tra "due fondamentalismi" ideologici (il Mercato e il Terrore) è una guerra dell'imperialismo contro i popoli oppressi: mira al controllo del Medio Oriente e dell'Asia centrale; vuole intimidire i movimenti di liberazione nazionale (a partire dal popolo palestinese); mira a contrastare la recessione economica col grande rilancio delle spese militari; risponde all'interesse dell'imperialismo americano a controbilanciare l'ascesa economica europea con il rilancio della propria indiscussa egemonia militare.

Su un altro piano, gli sviluppi politici e le dinamiche del capitale degli anni novanta sono stati devastanti per l'ambiente. Tutti i vecchi problemi si sono estesi, sono emerse nuove emergenze su scala planetaria. A fronte di tutto questo, tanto gli approcci etico-culturali quanto il riformismo verde si sono rivelati inadeguati e impotenti: nessun nuovo modello di sviluppo sarà possibile senza un nuovo modo di produzione, senza il rovesciamento del capitalismo.

In definitiva, a dieci anni dal crollo dell'URSS, la ricomposizione capitalistica dell'unità del mondo non si è affatto tradotta in un universo pacificato e più stabile, ma in un'accentuazione della crisi internazionale.

Questo quadro generale di crisi e regressione rivela una volta di più il carattere utopico di ogni progetto riformistico.
L'idea di "governi riformatori" favorevoli ai lavoratori; di un possibile capitalismo "equo" imbrigliato dalle regole di una "società civile progressista"; di una riforma pacifista dell'ordine mondiale, fondata su una rivalutazione dell'ONU e sospinta dalla cultura gandhiana della "non-violenza", rappresentano, oggi più che mai, un'illusione impotente. Non una via concreta di costruzione di un altro mondo possibile, ma la rassegnazione di fatto a questo mondo reale, seppur nutrita di sogni.

Il V Congresso del nostro partito è chiamato dunque a rimuovere e a contrastare ogni utopia riformista assumendo un nuovo orizzonte strategico, apertamente anticapitalista e rivoluzionario.
Un altro mondo è possibile. Si chiama Socialismo. Non si tratta solo di evocarne il nome ma di recuperarne il programma generale quale unica vera risposta alla crisi dell'umanità.
Solo l'abolizione della proprietà privata, a partire dai duecento colossi multinazionali che oggi dominano l'economia del mondo. Solo una economia mondiale democraticamente pianificata liberata dal dominio del profitto; solo la conquista del potere politico da parte delle classi subalterne come leva decisiva della transizione, possono creare le condizioni di un nuovo "modello di sviluppo": che liberi nuove relazioni tra gli uomini e i popoli, un nuovo rapporto dell'uomo con l'ambiente, un controllo degli indirizzi e delle applicazioni della scienza in funzione delle qualità della vita quale nuova frontiera del progresso. Recuperare e attualizzare dunque il programma originario del comunismo e della rivoluzione d'Ottobre come scenario di liberazione dell'umanità, scevro da ogni retaggio burocratico staliniano, è compito centrale dei comunisti e del nostro partito. Assumendolo come bussola di una nuova impostazione strategica che riconduca gli obiettivi immediati di ogni lotta e di ogni movimento alla necessità della rivoluzione sociale.

Peraltro proprio l'inizio di ripresa oggi della lotta di classe e dei movimenti di massa nel mondo (ciò che nel partito abbiamo chiamato "il disgelo") -sintomo dopo vent'anni dalla crisi di egemonia delle politiche dominanti - rappresenta una straordinaria occasione di rilancio della prospettiva socialista presso la giovane generazione: come risposta rivoluzionaria nel cuore dei movimenti, alle loro stesse domande sociali ambientali, democratiche, di pace, tutte incompatibili, nelle loro istanze profonde, con l'attuale ordine borghese. Non si tratta allora di abbandonarsi alla mistica retorica dei movimenti, tantomeno di disperdere la centralità di classe: si tratta di ricondurre il prezioso sentimento antiliberista della giovane generazione ad una chiara prospettiva di classe anticapitalista. La sola che possa offrire un futuro ai movimenti stessi; la sola che possa svilupparli oggi sul terreno della mobilitazione contro l'imperialismo e la guerra fuori da ogni illusione pacifista; la sola che possa fondare il riferimento alla classe operaia a al mondo del lavoro nella sua nuova composizione ed estensione, quale soggetto centrale del blocco storico alternativo. Da qui la necessità di una battaglia nei movimenti per l'egemonia di classe: che non è autoimposizione burocratica ma lotta aperta e leale per la prospettiva socialista contro quelle culture neoriformiste che conducono i movimenti stessi nel vicolo cieco della sconfitta. Il complesso lavoro di rifondazione di un'internazionale comunista e rivoluzionaria che assuma la battaglia per l'egemonia anticapitalistica su scala mondiale è tanto più oggi una necessità di fondo per i comunisti.

L'esperienza degli ultimi tre anni successivi al IV congresso mostra come il passaggio all'opposizione in se e per se non abbia risolto nessuno dei problemi di fondo del nostro partito. Il Prc arriva a questo nuovo congresso con un radicamento sensibilmente ridotto, con un calo della militanza e del tesseramento, con una crisi evidente delle proprie strutture.
Paradossalmente, lo stesso esplodere del movimento antiglobalizzazione e l'inizio di una ripresa delle mobilitazioni operaie e giovanili non ha migliorato la situazione. Al contrario, l'essenza delle proposte che oggi avanzano nel partito consiste nel tentativo di risolvere la crisi politica e organizzativa del Prc con una evidente "svolta" movimentista, la quale razionalizza e giustifica l'abbandono della prospettiva di costruire un partito comunista rivoluzionario in grado di lottare per conquistare una posizione dirigente nel movimento operaio italiano.
In realtà la svolta non viene effettuata verso "il movimento", ossia verso le centinaia di migliaia di persone che sono state toccate dalle mobilitazioni contro il G8 e contro la guerra, ma verso i settori dirigenti dei Social Forum che ne rappresentano in realtà il settore più burocratico e moderato, lontano mille miglia dalle reali aspirazioni anticapitalistiche che costituiscono la forze motrice del movimento stesso.
Al tempo stesso, nonostante la dichiarata "svolta a sinistra" verso il movimento, la linea proposta rimane prigioniera di una prospettiva riformista, che si esprime chiaramente sia nel rifiuto di un'analisi onesta della politica seguita in questi anni, sia nella prospettiva indicata, sia pure tra le righe, di un rilancio dell'alleanza con l'Ulivo una volta che si siano riequilibrati i rapporti di forza nella sinistra, sulla base di un "programma riformatore" che riecheggia le esperienze fallimentari del 1996-98.
L'elemento nuovo, che ci spinge a parlare di pericolo di disgregazione politica e organizzativa del Prc, è l'emergere di questo radicalismo movimentista, che dietro a espressioni talvolta molto altisonanti (che oggi abbondano nella propaganda e nelle pubblicazioni del partito) nasconde una sostanziale incapacità di prospettare una seria battaglia egemonica e di lunga durata, ed esprime nel modo più chiaro la perdita di radicamento proletario del nostro partito.

Al contrario, proprio la ripresa dei movimenti impone con urgenza il rilancio del ruolo del partito, delle idee rivoluzionarie comuniste, la costruzione di forti strutture, di quadri formati, in una parola di un Prc in grado di lottare su ogni fronte, dal movimento antiglobalizzazione alle lotte sindacali, al movimento studentesco, e che sia in grado di dare al movimento quello che nessun movimento potrà mai esprimere in forma compiuta: un programma di trasformazione sociale e gli strumenti per la sua attuazione. Altrimenti, il rischio è quello di vedere anche la prossima, inevitabile fase di lotte contro il governo Berlusconi, incanalata e egemonizzata dalle burocrazie sindacali e dai Ds, ripetendo così l'esperienza dell'autunno '94, quando la linea suicida della "sospensione della critica" allora proposta e praticata dal gruppo dirigente permise a queste stesse forze di deviare il movimento e di portarlo ad arenarsi, spalancando la strada non a un'alternativa di classe ma alla collaborazione di classe incarnata dal governo Dini e poi dal centrosinistra.

La difesa intransigente di un programma di indipendenza di classe è quindi la prima e indispensabile condizione affinché il Prc possa avanzare in questo nuovo contesto. Tuttavia il Prc è oggi più debole e meno radicato di quanto non fosse in passato. Le divisioni che si sono aperte tanto nei Ds che nella Cgil segnalano indubbiamente una crisi politica e di strategia nella quale il Prc si può inserire con profitto.
Accanto al nostro apparato rivendicativo e programmatico, è quindi necessario sviluppare la tattica necessaria per affrontare questa nuova fase e rilanciare non solo a parole la nostra battaglia per l'egemonia nel movimento operaio.

Da qui la proposta di una vertenza generale attorno ai temi di un forte aumento salariale per tutto il lavoro dipendente, del salario minimo garantito intercategoriale, di un vero salario garantito ai disoccupati e ai giovani in cerca di prima occupazione, dell'abolizione delle leggi di precarizzazione del lavoro (v. "Pacchetto Treu" e le ulteriori leggi in materia introdotte dal governo Berlusconi) con l'assunzione a tempo indeterminato di tutti i lavoratori precari, della riduzione generalizzata dell'orario. Questa proposta di mobilitazione può e deve essere avanzata dal nostro partito in tutti i luoghi di lavoro, in tutte le organizzazioni sindacali, sul territorio, nello stesso movimento antiglobalizzazione: sostenendo le tendenze interne del movimento che già oggi spingono per un suo impegno diretto a fianco dei lavoratori e delle lavoratrici. E' proprio dalla ricomposizione unitaria di lotta della giovane generazione, dal versante operaio in primo luogo come dal versante antiglobalizzazione che può innescarsi la dinamica dell'esplosione sociale contro il governo delle destre e le classi dominanti. Ricondurre a questo sbocco tutto il lavoro di massa del partito, estendere il quadro delle rivendicazioni ad ogni settore sociale colpito dalle politiche dominanti (v. Immigrazione e Scuola), collegare il quadro delle rivendicazioni immediate a un programma più generale di rottura con la proprietà capitalistica e lo Stato, sviluppare in ogni movimento la coscienza politica anticapitalistica, questo è l'impegno necessario dell'opposizione comunista per l'alternativa di classe.
E in questo ambito il nostro partito non può teorizzare un principio di adattamento silenzioso nei movimenti affidandosi passivamente a orientamenti e scelte delle loro direzioni ma deve elaborare capacità di proposta su scelte politiche piccole e grandi, in funzione della prospettiva anticapitalistica. La tematica delle forme di lotta, a partire dalla necessaria difesa del diritto di manifestare in piazza, contro ogni tentazione di ripiegamento; le questioni legate all'autodifesa di manifestazioni pacifiche e di massa contro le aggressioni violente da qualunque parte provengano; la tematica delle forme di organizzazione dei movimenti e del loro sviluppo democratico oggi centrale nel movimento antiglobalizzazione: sono terreni su cui il nostro partito non può tacere in nome di un blocco incondizionato con le direzioni egemoni dei movimenti. Ma deve avanzare indicazioni, certo collegate alla sensibilità degli interlocutori e alla concretezza dei problemi, ma sempre ispirate a un unico criterio di fondo: lo sviluppo della forza autonoma delle classi subalterne e dei movimenti di massa in direzione di un'alternativa di società e di potere. Come affermava Rosa Luxemburg: "La conquista del potere politico resta il nostro scopo finale e lo scopo finale resta l'anima della nostra lotta. La classe operaia non deve porsi nell'ottica [di chi dice] 'Lo scopo finale non è niente, è il movimento che è tutto.' No, al contrario: il movimento in quanto tale, senza rapporto con lo scopo finale, il movimento come fine in sé non è niente, è lo scopo finale che è tutto." (1898).

Solo questo programma di alternativa anticapitalistica fonda la ragione politica organizzativa del partito nel suo rapporto con i movimenti e la lotta di classe. Un partito che si viva come pura rappresentanza istituzionale di domande sociali, in funzione di una prospettiva di governo riformatore, si priva di una funzione strategica indipendente e perciò mette a rischio, al di là di ogni intenzione, la ragione stessa della sua esistenza. Privo di uno specifico progetto anticapitalistica il partito smarrisce la ragione di una propria distinzione rispetto al movimento. E così l'invito dell'apertura al movimento, in sé importantissima, si trasforma in un rischio di dissoluzione nel movimento stesso, o di trasformazione delle proprie strutture in indistinti "luoghi di movimento". Il risultato paradossale non è così il rafforzamento del partito nel movimento ma all'opposto un principio di dispersione delle forze e di loro sradicamento: a tutto danno sia del partito che del movimento stesso, privato di un riferimento organizzato capace di indicazione e proposta.

La logica proposta dalla maggioranza dirigente del PRC va dunque esattamente capovolta. Il partito ha sì l'esigenza prioritaria di partecipazione piena ai movimenti, senza distacchi dottrinari e anzi con la massima concentrazione in essi delle proprie forze. Ma ne ha esigenza come partito cioè come specifico progetto collettivo anticapitalista e rivoluzionario: ciò che richiede una specifica strutturazione, specifici strumenti che possano organizzare nei movimenti, a partire dalla classe operaia, la battaglia collettiva per quel progetto. Ed anche il più ampio sviluppo della democrazia interna del partito, condizione decisiva dell'elaborazione collettiva e della stessa formazione dei quadri. In questo senso la funzione d'avanguardia del partito non come imposizione burocratica, ma come progetto programmatico su cui sviluppare consenso ed egemonia, è la condizione stessa del suo radicamento e rafforzamento organizzativo.

(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)

 

Tesi 15 - IMPERIALISMO ITALIANO (torna alla tesi non alternativa)

Nel corso del decennio il capitalismo italiano ha lavorato ad aumentare la propria partecipazione alla spartizione imperialistica del mondo. Questo è avvenuto sia attraverso la partecipazione diretta ad imprese neocoloniali (guerra del Golfo, due interventi in Albania - 1992 e 1996 -, intervento in Somalia, in Bosnia, in Kosovo, e ora in Afghanistan), sia attraverso un relativo aumento del capitale esportato (sono circa 500mila i posti di lavoro esportati all'estero dall'industria italiana, in particolare nei Balcani).

L'imperialismo italiano, tuttavia, rimane tutt'ora appesantito dalle tradizionali debolezze del capitalismo che lo sostiene: scarsa presenza di grandi imprese, insufficiente concentrazione del capitale rispetto ai principali paesi concorrenti, ecc. Anche dal punto di vista strettamente militare, nonostante l'aumento delle spese militari già in corso e quelli previsti in futuro, rimane una forza secondaria, incapace di giocare un ruolo autonomo nei conflitti in corso e costretta ad accodarsi ai principali protagonisti, magari tentando di sopperire col numero di uomini impiegati (come è oggi il caso nei Balcani) a queste debolezze strutturali.

Pur restando inserita nel gruppo dei principali paesi imperialisti, l'Italia conferma la propria posizione di "imperialismo straccione", costretto a inserirsi nei varchi aperti dai conflitti fra i "pesi massimi" della politica mondiale, come confermano le ultime vicende relative all'intervento militare in Afghanistan.

Nonostante negli anni '90 la classe dominante abbia investito largamente sui tentativi di risanamento e razionalizzazione dei propri tradizionali punti deboli, i risultati acquisiti non possono certo considerarsi definitivi. Dieci anni costellati di finanziarie di lacrime e sangue, privatizzazioni a tappeto, attacco alle pensioni e allo stato sociale, attacchi diretti al salario, hanno solamente tamponato le falle più vistose, ma non hanno certamente rovesciato la situazione generale del capitalismo italiano, che all'interno della cerchia dei paesi a capitalismo avanzato rimane uno degli anelli deboli.

Queste contraddizioni si riflettono anche nelle divisioni del governo Berlusconi, che è chiaramente spaccato tra un'ala maggioritaria che si offre a Bush come cavallo di Troia americano nell'Unione europea (vicenda Airbus, conflitto con l'UE sulla giustizia, ecc.) e una minoritaria, capeggiata da Ruggiero, che tenta di mantenere la strategia filoeuropea perseguita dall'Ulivo negli scorsi anni.

Questa situazione di debolezza ha conseguenze ben precise: di fronte alla crisi economica internazionale, di fronte a un accrescersi della concorrenza internazionale sia sul terreno economico che su quello diplomatico-militare, la borghesia italiana sarà costretta a cercare la soluzione dei suoi problemi prevalentemente all'interno, sul piano dello scontro diretto con la classe operaia italiana e le masse popolari in generale, piuttosto che a cercare di scaricare all'esterno le proprie contraddizioni, politica questa che risulta solo parzialmente applicabile precisamente per la struttura relativamente debole del capitalismo italiano.

(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)

 

Tesi 16 - PARTICOLARITA' DEL CASO ITALIANO (torna alla tesi non alternativa)

In Italia l'evoluzione del Pds/Ds ha avuto, assieme alle caratteristiche comuni all'insieme della socialdemocrazia europea, caratteristiche peculiari legate ad aspetti specifici della situazione politica italiana. Essa infatti ha coinciso con il crollo della Democrazia cristiana e dell'insieme della rappresentanza politica borghese, crollo che ha aperto una fase estremamente instabile e confusa che dura ormai da un decennio, e che è stata impropriamente definita la "transizione italiana".

Per tutti gli anni '90 un settore della classe dominante ha lavorato sulla linea del cosiddetto Partito democratico, ossia della costruzione di una forza politica liberaldemocratica capace di conquistare un appoggio di massa nelle elezioni, e di dare alla borghesia italiana quel partito liberale "di massa" che mai era riuscita a costruire in oltre un secolo di storia dello Stato italiano. Questo progetto ha assunto forme diverse e variabili, ma aveva al suo interno la costante ricerca del dissolvimento del Pds prima e dei Ds poi all'interno del nuovo partito, recidendo così i loro legami storici con il movimento operaio e portando in dote al nuovo partito una parte significativa del proprio elettorato.

In base a questa prospettiva è maturata all'interno dei Ds la cosiddetta linea ulivista, cioè la proposta che in un futuro più o meno prossimo quel partito dovesse sciogliersi all'interno del partito democratico, incarnato di volta in volta da Prodi, dall'Asinello, dalla coalizione ulivista nel suo insieme, ecc. Tuttavia questo progetto non aveva e non ha alcuna possibilità di realizzarsi. Sia per fattori storici e di tradizione, sia per le specifiche debolezze e distorsioni del capitalismo italiano anche in questa fase, la rappresentanza politica borghese si è ricomposta non attorno a un partito democratico, ma attorno a partiti come An, la Lega e soprattutto Forza Italia. Questo riflette la storica debolezza della grande borghesia italiana, in particolare sul terreno politico. In 140 anni della sua storia, essa ha dovuto costantemente scendere a compromessi con altri settori sociali. All'origine dello Stato unitario vi fu il compromesso con i resti delle vecchie classi dominanti agrarie del mezzogiorno, successivamente fu l'accordo con gli interessi specifici della gerarchia cattolica, poi il lungo periodo di dominazione fascista, che significava un sostanziale esproprio della borghesia dal controllo diretto del potere politico. La stessa Democrazia cristiana come è noto rappresentò un compromesso tra un arco di forze che andavano dalla borghesia mafiosa, alla gerarchia cattolica, a settori di sindacalismo e di associazionismo, ecc., un compromesso cementato dalla repressione antioperaia e anticomunista negli anni '50 e dallo sviluppo economico del dopoguerra.

Crollata la Dc, la borghesia italiana si trova da ormai un decennio a dover scegliere fra il minore fra due mali (relativi): o governare attraverso la burocrazia operaia e in particolare sindacale (centrosinistra nelle sue varie forme), con il vantaggio di poter puntare al mantenimento della pace sociale, ma con lo svantaggio di dover accettare i tempi lunghi della concertazione e un relativo potere di veto da parte dei vertici sindacali; oppure governare attraverso le destre, certo più disposte ad applicare su vasta scala misure antioperaie, ma con contraddizioni e peculiarità al loro interno (conflitto d'interessi, rapporto privilegiato con la borghesia mafiosa, elementi di populismo di destra, presenza del secessionismo leghista, ecc.) e soprattutto con il rischio permanente di scatenare un conflitto sociale esplosivo e su vasta scala, come fu nel 1994.

Il passaggio da una posizione all'altra non corrisponde affatto a un "disegno strategico" maturato in chissà quale segreta stanza del potere, ma è il frutto dell'adattamento alle circostanze che da sempre è la prima caratteristica del rapporto fra la borghesia e la lotta politica.
Sconfitto Berlusconi nel 1994 era giocoforza scegliere la coalizione avversa; logorato l'Ulivo nei cinque anni di governo, era altrettanto naturale orientarsi nuovamente al polo delle destre.
In questo decennio, tutti i tentativi centristi, sia di matrice cattolica che laica sono crollati rapidamente, ultimo l'esperimento di D'Antoni e Andreotti con Democrazia europea. La causa profonda di questi fallimenti è da ricercarsi nella polarizzazione sociale e politica che sia pure in modo tortuoso e complesso ha caratterizzato la società italiana in questo decennio.

(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)

 

Tesi 18 - SUL "GOVERNO DELLA SINISTRA PLURALE" (torna alla tesi non alternativa)

La prospettiva avanzata del governo della sinistra plurale sulla base di un programma riformatore come soluzione post-Berlusconi non solo nega la necessità di un bilancio ma ripropone, nella sua sostanza di fondo, la politica di 10 anni. Il fatto di perseguirla dal versante dei movimenti, non solo non muta la sua natura, ma rappresenta un danno profondo per i movimenti stessi e per il futuro delle loro ragioni.

La proposta strategica della sinistra plurale di governo rappresenta un errore profondo ed è gravida di grandi rischi per il nostro stesso partito. Dopo aver perseguito per dieci anni senza successo la contaminazione prima del polo progressista poi del Centrosinistra, non possiamo riproporre, come se nulla fosse accaduto, il medesimo indirizzo di fondo; se non ripercorrendo un sentiero già battuto e già fallito. Non solo in Italia ma nel mondo.

Sul piano nazionale l'esperienza della sinistra plurale è già stata vissuta dal nostro partito in occasione del blocco col Polo progressista del '94 (DS, Verdi, Rete di Orlando, PRC). Il programma testuale su cui si realizzò (v. Liberazione, 4/2/94) rivendicava entro "una competizione per il governo del Paese" "una presenza autorevole e solida dell'Italia sui mercati e nel contesto internazionale" e l'appello "a quelle forze del mondo imprenditoriale che hanno a cuore la crescita sociale, civile, democratica dell'Italia". Su questa base proponeva di "coniugare l'equità sociale con le ragioni dell'efficienza e del mercato" di "promuovere quando sia il caso le privatizzazioni", di operare il "risanamento del disavanzo che implicherà austerità" seppur con "l'impegno a garantire che i sacrifici siano ripartiti con giustizia". La vittoria elettorale di Berlusconi impedì la sperimentazione di questo programma di governo, preservando il PRC all'opposizione sino al '96. Ma quel programma rifletteva e riflette l'unico profilo possibile di una sinistra plurale di governo con l'apparato DS: quello che subordina gli interessi del movimento operaio alle esigenze del capitalismo italiano.

Sul piano internazionale l'esperienza in corso della sinistra plurale di governo in Francia (PS-PCF- Verdi) è stata ed è inequivocabile. Se il primo governo della sinistra plurale francese ('81-'83) sotto la guida di Mitterand aveva accompagnato austerità e sacrifici dei lavoratori col linguaggio formale della tradizione riformista, il governo Jospin ha accompagnato austerità e sacrifici col linguaggio liberale (temperato) delle privatizzazioni e della flessibilità. E' la riprova che nel quadro attuale della crisi capitalistica e della competizione globale, un governo di "sinistra plurale" non differisce, nella sostanza del suo indirizzo, da un ordinario governo borghese liberale. Anche per questo aver invocato dopo le ultime elezioni politiche un "Mitterand italiano", aver a lungo esaltato il governo Jospin (che "contesta l'intera logica della flessibilità e introduce direttamente nell'economia il parametro della difesa degli interessi dei lavoratori" come dichiara il segretario del PRC sull'editoriale di prima pagina del 29/9/99) ha rappresentato un errore profondo che è giusto riconoscere.

Il fatto di perseguire la prospettiva del governo riformatore di sinistra plurale come sbocco dei movimenti e della loro azione "contaminante" non muta minimamente la valenza negativa della proposta. Anzi, per molti aspetti, l'aggrava. Invece di orientare il lavoro di massa in direzione dell'autonomia dei movimenti dal Centro borghese liberale, assume i movimenti come leva di pressione sull'apparato D.S. e dell'Ulivo. Invece di liberare il movimento e i movimenti da ogni illusione di poter contaminare i liberali, si promuove nel movimento quella stessa illusione. E' l'esatto capovolgimento di una politica autonoma di classe. E soprattutto è un danno profondo al movimento e alle sue ragioni: perché nessuna delle ragioni di fondo dei movimenti di massa, sia dal versante operaio, sia dal versante antiglobalizzazione, potrebbe trovare soddisfazione in un governo borghese di sinistra plurale.

Per l'insieme di queste ragioni, quella prospettiva va apertamente ed esplicitamente respinta dal V Congresso del nostro partito.

(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)

 

Tesi 19 - OPPOSIZIONE ALLA DESTRA, FRONTE UNICO E RUOLO DEI COMUNISTI (torna alla tesi non alternativa)

La fase che si apre presenta indubbiamente enormi possibilità di espansione del radicamento per il nostro partito. La crisi delle politiche di collaborazione di classe sia a livello sindacale (crisi della concertazione) sia a livello politico (sconfitte elettorale del centrosinistra), il processo di ripresa delle mobilitazioni sociali, il contesto internazionale, tutto questo concorre a smuovere la coscienza di massa, a rimettere in discussione fra milioni di persone le convinzioni e i pregiudizi cristallizzatisi negli anni scorsi.

La difesa intransigente di un programma di indipendenza di classe è la prima e indispensabile condizione affinché il Prc possa avanzare in questo nuovo contesto. È necessario, tuttavia, comprendere come sarà difficile, per non dire impossibile, che l'attuale crisi di direzione in cui si trova il movimento operaio dopo il fallimento del centrosinistra possa essere risolta attraverso una semplice accumulazione di consenso crescente da parte del nostro partito. Il Prc, a causa degli errori commessi negli scorsi anni, è oggi più debole e meno radicato di quanto non fosse in passato. L'autorità del partito è stata fortemente compromessa agli occhi di ampi settori, mentre per altri essa è ancora tutta da conquistare. Al tempo stesso, nonostante la crisi profonda nella quale versano i Ds, è evidente che la presa di quel partito sui lavoratori organizzati rimane largamente maggioritaria. Le divisioni che si sono aperte tanto nei Ds che nella Cgil segnalano indubbiamente una crisi politica e di strategia nella quale il Prc si può inserire con profitto, ma è indubbio che anche nei settori più organizzati e tradizionalmente d'avanguardia, così come pure fra la nuova generazione operaia in via di radicalizzazione, il nostro partito gode di un consenso che è fatto soprattutto di generica simpatia, di consenso d'opinione, ma raramente viene considerato come una struttura in grado di organizzre e condurre una battaglia sistematica contro le posizioni maggioritarie nella sinistra e nel movimento sindacale.

Accanto al nostro apparato rivendicativo e programmatico, è quindi necessario sviluppare la tattica necessaria per affrontare questa nuova fase e rilanciare non solo a parole la nostra battaglia per l'egemonia nel movimento operaio.
In questo contesto le linee essenziali sulle quali insistere potrebbero essere:
1) La questione della "rottura al centro". Questa parola d'ordine, correttamente agitata in alcune occasioni, non è poi mai stata sviluppata e approfondita. Proporre la rottura al centro significa tradurre in una proposta politica la conscienza, largamente diffusa, del fallimento del centrosinistra. Dobbiamo spiegare costantemente, argomentando da tutti i possibili punti di vista, come la crisi della sinistra, che ha condotto alla vittoria di Berlusconi, non può venire superata se non rompendo radicalmente con le politiche borghesi e di conseguenza con i partiti (oggi fondamentalmente la Margherita) che ne sono stati il principale veicolo nella coalizione del centrosinistra. Alla sinistra Ds, che indica come risposta alla sconfitta elettorale, l'allargamento della coalizione a Di Pietro e a Rifondazione, dobbiamo rispondere che qualsiasi accordo col Prc è a priori incompatibile con le contemporanee alleanze al centro. La costante della nostra posizione verso i Ds e le altre forze di sinistra (ad es. il Pdci) dovrebbe quindi essere di porli costantemente di fronte all'alternativa se allearsi col centro contro il Prc o se rompere col loro precedente orientamento.

2) La questione del fronte unico e dell'unità d'azione nei movimenti. In un contesto nel quale la Cgil, la Fiom o altri settori di burocrazia si trovano a promuovere, sia pure timidamente e strumentalmente, alcune mobilitazioni, cambia in modo significativo il quadro rispetto alla condizione prevalente negli ultimi anni. Senza mai dimenticarci che per i comunisti il movimento operaio non è qualcosa che viene acceso o spento da qualche dirigente, sia pure "di sinistra", senza mai dimenticarci che il nostro compito non è aspettare il "permesso" di Sabattini o Cofferati per promuovere le mobilitazioni, dobbiamo cogliere con tutte e due le mani le occasioni che questa nuova situazione ci offre. Sia sul terreno strettamente difensivo (art. 18, difesa dei contratti nazionali, ecc.) sia su quello offensivo (recupero salariale, lotta alla flessibilità e alla precarizzazione) dobbiamo costantemente sfidare sul terreno della mobilitazione i nostri avversari nel movimento operaio, dimostrandoci capaci di portare avanti nel modo più efficace e combattivo anche le battaglie limitate che oggi i dirigenti della Cgil sono costretti a organizzare (es. la lotta dei metalmeccanici), al tempo stesso rifiutando di agire come semplice massa di manovra o forza aggiuntiva, non rinunciando mai al nostro diritto di critica e di proposta alternativa e soprattutto cogliendo ogni occasione per spingere la mobilitazione oltre i limiti imposti dalle burocrazie.
Questo vale innanzitutto sul terreno sindacale, ma domani sarà indubbiamente valido anche in altri campi, considerato il programma di offensiva a 360 gradi del governo Berlusconi, che non minaccia quindi solo i diritti sindacali in senso stretto, ma anche i diritti delle donne, gli immigrati, la scuola pubblica, ecc.
Va infine sottolineato come la politica del fronte unico, o per usare un altro termine, dell'unità d'azione, deve sempre essere funzionale alla crescita della nostra influenza, a guadagnarci l'ascolto di settori vasti al di fuori del nostro partito, ad aprire contraddizioni nel fronte avversario. Non può quindi essere trasformata in un feticcio o in un dogma, ed è evidente che vi sono situazioni e contesti nella quale essa deve passare in secondo piano o, addirittura, diventa completamente inservibile, e deve lasciare spazio alla pura e semplice iniziativa di mobilitazione diretta sotto le bandiere e le parole d'ordine del nostro partito.

3) Quale alternativa al governo delle destre. Lo scontro tra il governo Berlusconi e il movimento operaio è solo all'inizio, ed è impossibile prevedere quali saranno i ritmi, le modalità e soprattutto gli esiti. È chiaro tuttavia che se un nuovo ciclo di lotte riuscirà a mettere in crisi o addirittura a rovesciare le destre al governo, assisteremo all'ennesimo tentativo di ingabbiare i lavoratori nella collaborazione di classe e in una qualche riedizione aggiornata del centrosinistra. Quali che siano le varie combinazioni che si presenteranno, la nostra alternativa dovrà ruotare attorno al concetto che solo un governo che si basi direttamente sulla classe lavoratrice e che risponda ad essa, dotato di un programma anticapitalista può dare una reale risposta alle contraddizioni generate dalla crisi del capitalismo internazionale e italiano. Su questa linea dovremo lavorare alla rottura della collaborazione di classe, sfidando le altre forze della sinistra alla rottura col centro così come oggi le dobbiamo sfidare sul terreno dell'opposizione e della mobilitazione contro le destre.

(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)

 

Tesi 20 - CRISI E DERIVA DS (torna alla tesi non alternativa)

Negli anni '80 e '90 abbiamo visto ovunque la crisi e il crescente slittamento delle forze socialdemocratiche su posizioni sempre più moderate. Gli anni '90 hanno visto i partiti dell'Internazionale socialista andare al governo, da soli o in coalizione, in tutti i paesi principali dell'Unione europea, ad eccezione della Spagna, dove la destra è tornata al potere dopo 17 anni di governo socialista.

Ovunque i gruppi dirigenti della socialdemocrazia hanno adottato questa o quella variante del liberalismo, ovunque le correnti di sinistra interne alla socialdemocrazia sono state messe in crisi e, per tutta una fase, virtualmente cancellate dalla scena: da Lafontaine in Germania, alla sinistra laburista.

Riassumendo in una frase, si può parlare del passaggio della socialdemocrazia da una politica di riforme a una di controriforme. Questo cambiamento è conseguenza di tre fenomeni, strettamente collegati:
1) Il mutato contesto economico rispetto agli anni '50 e '60, periodo "classico" della costruzione del welfare state in Europa. La competizione internazionale è sempre più intensa e l'Europa per fronteggiare la concorrenza Usa è costretta a incidere profondamente sulle conquiste sociali delle generazioni precedenti.
2) Il cambiamento dei rapporti internazionali, con il crollo dell'Unione sovietica che ha oggettivamente indebolito le possibilità del movimento operaio in Europa occidentale di ottenere mediazioni favorevoli nella lotta di classe.
3) Il riflusso dell'ondata di lotte degli anni '60 e '70, riflusso che a partire dalla metà degli anni '80 ha visto la borghesia riconquistare definitivamente l'iniziativa sia all'interno delle aziende che sul terreno politico più in generale.
L'insieme di questi fattori ha portato l'insieme della socialdemocrazia a uno slittamento verso destra quale obiettivamente non si vedeva da diversi decenni. Sarebbe tuttavia sbagliato vedere in questo fenomeno qualcosa di radicalmente nuovo, o un cambiamento qualitativo rispetto alla storia passata della socialdemocrazia internazionale. L'idea assai diffusa nella sinistra "radicale" e anche nel nostro partito, secondo la quale oggi la socialdemocrazia avrebbe subito uno "sradicamento" dalla propria base nel movimento operaio si basa su una valutazione puramente impressionistica dei fenomeni sopra accennati.

L'essenza della socialdemocrazia, infatti, non è né è mai stata quella di proporre "le riforme" sempre e comunque, oppure quella di prefigurare una linea gradualista, ma pur sempre orientata alla transizione socialista. Sostenere questa analisi significa in ultima analisi idealizzare la socialdemocrazia del passato, la quale invece non si è mai fatta scrupoli nel sostenere le peggiori politiche della borghesia, in particolare nei periodi di crisi sociale ed economica (basti pensare alle responsabilità della socialdemocrazia nella Prima guerra mondiale, nella repressione della rivoluzione tedesca del 1919, nelle imprese coloniali dell'imperialismo francese e britannico in particolare, ecc.)

Allo stesso modo, tentare di individuare differenze qualitative tra la cosiddetta linea"jospiniana" e quella "blairiana", vedendo in queste politiche una diversa matrice di classe (operaia e socialdemocratica la prima, borghese e liberaldemocratica la seconda) significa idealizzare la linea del Psf, a dispetto dei fatti e delle evidenze. Le differenze che indubbiamente esistono vanno infatti ricondotte non a una diversa base di classe di questi partiti, ma alle diverse condizioni politiche e sociali della Francia, nella quale non si è ancora spenta l'onda lunga delle mobilitazioni del 1995-96, che hanno lasciato una lunga scia di lotte sindacali e non solo e un generale fermento nel movimento operaio e giovanile in Francia, del quale il governo Jospin ha dovuto tenere in parte conto.

L'essenza della politica socialdemocratica, ossia della politica e dell'ideologia degli apparati che dominano il movimento operaio e sindacale, è sempre stata quella di "rappresentare", mediare e trattare gli interessi della classe lavoratrice all'interno delle compatibilità economiche e politiche del sistema capitalista. L'aspetto dominante della politica socialdemocratica non sono quindi le "riforme", ma è l'adattamento passivo a questa società. La socialdemocrazia è stata pacifista nei periodi di pace, ha accettato la guerra nei periodi di conflitti, è stata keynesiana nel periodo di espansione economica postbellica e liberista negli ultimi due decenni. In questo senso, non si distingue affatto da qualsiasi altro partito democratico borghese. L'aspetto decisivo che la distingue è la propria capacità di egemonizzare e controllare la classe lavoratrice, non solo e non tanto nel senso di conquistarne i voti nelle elezioni, ma di controllare le organizzazioni dei lavoratori a partire dai sindacati e di esercitare quindi un controllo sulle loro mobilitazioni.
Va di moda in questi anni sottovalutare questo aspetto della socialdemocrazia, e più volte si è parlato in varie forme di svolta liberale, di sradicamento "definitivo" di partiti quali i Ds o il Labour dal movimento operaio, ecc. Tutte queste analisi hanno il limite di essere del tutto statiche e formali, di limitarsi cioè ad indicare una serie di aspetti evidenti dell'evoluzione politica e ideologica delle burocrazie sindacali e socialdemocratiche, senza però scendere sul terreno dell'analisi concreta dei rapporti di classe.

La domanda che dovremmo porci è: ammesso che la socialdemocrazia si fosse effettivamente trasformata in un partito liberaldemocratico, attraverso quali canali si esprime oggi l'organizzazione politica della classe lavoratrice? Possiamo affermare seriamente che in Italia, Germania, Grecia, Spagna, Gran Bretagna, ecc. le uniche forze politiche che hanno un legame con la classe lavoratrice sono i partiti comunisti (che nel caso della Gran Bretagna è semplicemente inesistente, e in quasi tutti gli altri paesi, inclusa l'Italia, vedono una forte crisi del proprio radicamento operaio)?
L'egemonia socialdemocratica sul movimento operaio può mutare anche profondamente le proprie forme, può attraversare momenti di crisi e di caduta verticale della propria autorità (come è stato il caso dell'Italia negli scorsi due anni), ma non verrà cancellata, né può semplicemente crollare su se stessa, senza lasciare nulla e limitandosi ad aprire una voragine politica. Essa può sparire solo se verrà costruita un'alternativa conseguente, comunista e rivoluzionaria che sappia soppiantarla attraverso una battaglia sistematica e di lunga durata per quella che veniva in passato definita "la conquista della maggioranza", ossia la conquista da parte dei comunisti di una posizione dirigente riconosciuta nei settori decisivi della classe lavoratrice, a partire dalle sue avanguardie.

Le teorizzazioni sulla natura "liberale" della socialdemocrazia in realtà rimuovono questo problema, mascherandosi sotto un radicalismo puramente verbale, che domani facilmente lascerà il posto all'errore opposto, ossia a un adattamento di tipo opportunista alle correnti "di sinistra" della socialdemocrazia e dell'apparato sindacale una volta che queste comincino a rivitalizzarsi. Di questo pericolo vediamo già oggi chiari sintomi nella linea seguita dal Prc sul terreno sindacale verso elementi come Sabattini e altri dirigenti sindacali che hanno cominciato a criticare, sia pure in modo ambiguo e parziale, la linea concertativa dei Ds e della Cgil.

In questo contesto, i risultati del congresso dei Ds appariranno ben presto assai precari per tutti i suoi protagonisti. La contraddizione che si è espressa più forte che mai tra apparato sindacale e apparato di partito non può essere facilmente risolta. L'aspetto decisivo è che la linea di D'Alema e Fassino si rivelerà sempre più difficile da praticare. L'"opposizione governante" si troverà a dover fare i conti da un lato con l'aggressività del governo Berlusconi e della classe dominante, che sta utilizzando tutte le leve a sua disposizione per spingere a un'accelerazione dello scontro; dall'altro, la burocrazia sindacale non può stare a guardare l'opera di demolizione che il governo intende fare non solo e non tanto dei diritti dei lavoratori, ma direttamente del potere dello stesso apparato sindacale. Abbiamo già visto sia in occasione delle giornate di Genova, sia dello sciopero dei metalmeccanici come la corrente dalemiana si sia trovata presa tra i due fuochi e costretta a contraddirsi platealmente nel giro di poche ore. Nel caso di Genova con l'episodio vergognoso della partecipazione poi ritirata alla manifestazione del 21 luglio; nel caso dei metalmeccanici con il rifiuto di votare un ordine del giorno di solidarietà, rifiuto che poi hanno tentato di nascondere presentandosi in piazza durante la manifestazione di novembre. Questi salti mortali indicano come la linea che si prefiggono di percorrere sia in realtà impraticabile, e questo significa che nuove divisioni e nuove crisi si apriranno in quel partito, particolarmente quando la tensione sociale crescente si esprimera in tutta la sua forza nelle prossime mobilitazioni.

In questo nuovo contesto si possono aprire enormi possibilità per il Prc di conquistare maggiore radicamento e consenso nella classe lavoratrice e nei movimenti giovanili. Lo sviluppo delle mobilitazioni creerà un terreno estremamente favorevole, nel quale sarà sempre più difficile per i dirigenti dei Ds e della Cgil nascondere il loro operato agli occhi delle masse. La rottura della solidarietà burocratica tra le varie correnti dei Ds aprirà ulteriori spazi per il nostro inserimento.
Tutto questo, però, potrà giovare al Prc solo a due condizioni:
1) Che sappiamo mantenere una completa indipendenza politica e di iniziativa, sviluppando il nostro apparato rivendicativo e lavorando coerentemente e con continuità alla costruzione della mobilitazione, legandoci ai settori più avanzati e contribuendo a creare i necessari strumenti di autorganizzazione delle lotte e di battaglia interna al movimento sindacale.
2) Che si coniughi questo con la comprensione che il ruolo tutt'ora maggioritario delle correnti socialdemocratiche nel movimento operaio ci obbliga a un'applicazione coerente e sistematica della tattica del fronte unico, muovendo dalle attuali battaglie difensive (Articolo 18, scuola pubblica, ecc.) per far penetrare in settori sempre più vasti la coscienza della necessità di una controffensiva a tutto campo, che sia sul piano delle rivendicazioni che su quello delle forme e della radicalità della lotta sia all'altezza dell'attacco portato dall'avversario.

(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)

 

Tesi 22 - PER LA CACCIATA DEL GOVERNO BERLUSCONI (torna alla tesi non alternativa)

Il governo Berlusconi riassume al suo interno tutte le peggiori tradizioni reazionarie della borghesia italiana. Il suo programma, le tradizioni dei partiti che lo compongono, il personale politico che viene posto in prima fila, tutto spinge questo governo all'offensiva antioperaia e reazionaria.

Il contesto economico nazionale e internazionale accentua questa spinta, che oggi viene alimentata senza sosta dai portavoce e dai centri di potere decisivi della classe dominante: Banca d'Italia, Confindustria, la gran parte della "grande stampa", ecc.
Questo è anche il terreno su cui si tenteranno di ricomporre le contraddizioni esistenti nel governo e nel blocco di forze sociali che lo sostengono. La linea del governo si propone quindi di affondare il colpo isolando la Cgil in una sorta di ripetizione degli anni '50.
La domanda che si pone è quali siano le possibilità di applicazione di questa politica, e quali possano essere gli elementi di contrasto. In passato abbiamo visto governi reazionari come quelli di Reagan e Thatcher affermarsi nelle elezioni e aprire poi un lungo ciclo di reazione più o meno aperta, che si prolungò all'incirca per 15 anni.

Oggi tuttavia le condizioni sono radicalmente diverse. Le politiche reazionarie degli anni '80 si affermarono solo dopo aver battuto sul campo importanti mobilitazioni operaie nei primi anni di quel decennio: lo sciopero dei minatori inglesi, la lotta della Fiat in Italia e la lotta per la scala mobile, lo sciopero dei controllori di volo in Usa, ecc. Non è sufficiente quindi una vittoria elettorale (che per giunta in Italia è giunta in primo luogo per l'unificazione delle destre, e non per un aumento del loro consenso elettorale): perché la reazione si dispieghi in tutta la sua forza è necessario che conquisti sul campo della lotta di classe una vittoria significativa, che metta il movimento operaio in uno stato di demoralizzazione e di ritirata. Oggi non solo questo non è avvenuto, ma la situazione è opposta a quella dei primi anni '80: allora il movimento operaio vedeva le ultime fiammate delle lotte degli anni '60 e '70, in un contesto nel quale una generazione di lavoratori cominciava a perdere fiducia nelle proprie forze, dopo aver toccato livelli altissimi di mobilitazione. Oggi, al contrario, siamo di fronte all'inizio di un nuovo ciclo, che vede una nuova generazione operaia entrare nella scena della lotta di classe.
I tentativi di utilizzare metodi apertamente repressivi, come si è visto nelle giornate di Genova, rischierebbero di portare a un'esplosione sociale generalizzata. D'altra parte, l'idea che un'offensiva generalizzata possa affermarsi attraverso metodi concertativi è destinata a fallire: al di là delle parole il governo non ha nulla da offrire alla burocrazia sindacale, in particolare a quella della Cgil, e se questa accettasse di chiudere il contenzioso sull'art. 18 con un nuovo tradimento simile a quello del 31 luglio del 1992, si aprirebbe allora la possibilità a breve termine di una esplosione spontanea di lotte pari se non più profonda di quella dell'"autunno dei bulloni".
S'impone quindi una conclusione: oggi la reazione, rappresentata da questo governo, ha conquistato un vantaggio solo molto relativo con la vittoria elettorale, e non è affatto egemone nella società, né ha piegato in modo definitivo i rapporti di forza a proprio favore. Gli anni che si preparano non sono anni di riflusso, ma anni di rinnovata polarizzazione sociale e politica, di ripresa del conflitto sociale, un periodo nel quale una e più volte il movimento operaio avrà l'occasione di dimostrare quali siani i veri rapporti di forza nella società.

Peraltro, nonostante le difficoltà, vasti sono gli spazi per la costruzione di un'opposizione radicale di massa al governo delle destre. Nonostante il suo più forte insediamento, il governo Berlusconi non è nato sull'onda di un'espansione del consenso nella società italiana, ma sullo sfondo di un arretramento della coalizione delle destre rispetto al '94 e al '96. Parallelamente, nonostante i colpi subiti si moltiplicano nell'ultima fase i segni di ripresa del movimento operaio a partire dalla grande mobilitazione dei metalmeccanici con l'affacciarsi sul campo di una nuova generazione operaia. E questa ripresa di classe, seppur fragile ancora, si combina a sua volta con la continuità e lo sviluppo di un movimento antiglobalizzazione, prevalentemente giovanile, che ha acquisito in Italia un carattere di massa più ampio che in altri Paesi europei. Inoltre, in particolare a ridosso dei fatti di Genova, si è sviluppato un processo di attiva sensibilizzazione antigovernativa di settori rilevanti di popolo della sinistra, a sostegno del movimento antiglobalizzazione e richiamati da una sincera preoccupazione democratica (v. le manifestazioni del 24 luglio). Tutti questi fattori non innescano di per sé meccanicamente l'opposizione di massa al governo, ma misurano un potenziale di controffensiva al suo programma reazionario che si appoggia su una base sociale e politica più ampia che in passato. Il nostro partito ha il compito di raccogliere e sviluppare queste potenzialità, ricomponendole attorno a un programma e a un obiettivo di sbocco unificante.
Per questo, tanto più oggi, non possiamo attestarci sulla routine dell'opposizione parlamentare combinata con la lode della spontaneità dei movimenti. Ma dobbiamo favorire entro l'esperienza viva dei movimenti, le condizioni di un'esplosione sociale concentrata contro le classi dominanti e il loro governo. Solo un'esplosione sociale concentrata può ribaltare i rapporti di forza tra le classi e aprire il varco dell'alternativa anticapitalistica. E solo un'alternativa anticapitalistica può rispondere realmente alle ragioni di fondo delle classi subalterne e delle loro lotte. La rivendicazione della cacciata del governo Berlusconi può e deve essere interna alla prospettiva anticapitalistica, come una delle leve della sua maturazione. Per questo essa va posta apertamente all'interno dei movimenti, senza forzature "politiciste" ma senza autocensure, in un rapporto vivo con la dinamica obiettiva delle loro lotte.

(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)

 

Tesi 24- LA NOSTRA BATTAGLIA NEI SINDACATI (torna alla tesi non emendata)

L'intervento sul terreno sindacale mostra forse più chiaramente di qualsiasi altro le contraddizioni e le debolezze della linea seguita dal partito in questi anni.
Per circa un decennio abbiamo visto come le diverse opposizioni interne alla Cgil, da "Essere sindacato" a "Cambiare rotta" si siano dimostrate tutte incapaci di uscire dalla logica della pura opposizione d'apparato e di praticare sul campo una linea effettivamente alternativa a quella di Cofferati.

Così come la maggioranza della Cgil accettava scrupolosamente le "regole del gioco" della concertazione, la minoranza, che pure a parole criticava quelle regole, accettava altrettanto scrupolosamente le "regole del gioco" dell'apparato. I tentativi di promuovere fra i lavoratori, nelle aziende e nelle categorie, piattaforme alternative e mobilitazioni indipendenti sono stati così timidi e sporadici da non lasciare alcuna traccia nella coscienza dei lavoratori.
Al tempo stesso, numerosissime sono state le compromissioni al vertice, quando in nome di una parola o di una virgola inserite nella piattaforma o nel documento sindacale del momento giustificavano l'adesione della minoranza alle posizioni maggioritarie.
Il fatto nuovo degli ultimi anni, così, non viene da una crescita d'iniziativa e di influenza della sinistra Cgil, ma dal riposizionamento di settori di maggioranza, in particolare della segreteria della Fiom, che hanno cominciato sia pure parzialmente e in modo strumentale a "rompere" le righe e a promuovere momenti di conflitto, dalla vicenda Zanussi al contratto dei metalmeccanici.
Queste iniziative hanno mostrato le potenzialità esistenti fra i lavoratori quando questi vedono una direzione disposta a mobilitarli, come mostra in particolare lo sciopero della Fiom del 6 luglio scorso.
Tuttavia le basi programmatiche e i metodi su cui si sono condotte queste battaglie mostrano in modo inequivocabile la natura strumentale della battaglia condotta da questi settori. La piattaforma dei metalmeccanici non è certo tale da suscitare l'entusiasmo nelle fabbriche, e ancora più deleteria è la gestione della vertenza, che ha visto dopo lo sciopero riuscito del 6 luglio una tregua di oltre quattro mesi che ha seminato confusione fra i lavoratori e permesso al fronte avversario di ricompattarsi.

In questo contesto, l'allargamento formale della sinistra Cgil a nuovi settori precedentemente collocati in maggioranza, assume il significato concreto non di un rafforzamento politico e organizzativo significativo, non di una maggiore capacità di mobilitazione, ma paradossalmente di un nuovo arretramento. L'attuale sinistra in Cgil, per quanto formalmente più ampia e unita, è in realtà più che in passato impermeabile alle vere esigenze che sorgono dai luoghi di lavoro, più che mai impotente e velleitaria nelle proprie iniziative. Quello che avrebbe dovuto essere una leva per far valere nella Cgil le ragioni dei lavoratori si sta trasformando in una leva dell'apparato per ingabbiare gli attivisti più avanzati.
Parallelamente avanzano altri processi importanti nel campo sindacale. Il dilagare della precarizzazione e la rapida proletarizzazione di nuovi settori, particolarmente nel commercio e nei servizi, stanno cominciando a suscitare come reazione una spinta alla sindacalizzazione. Le cifre di crescita del Nidil-Cgil, per quanto in termini assoluti siano ancora modeste, dimostrano le potenzialità in questo settore, così come le dimostrano le lotte condotte da settori di precari, soprattutto giovani, sia nell'industria che nei servizi, in aziende come Fiat, McDonald's, Ikea, Zanussi, Tim, ecc. Queste lotte hanno spesso visto il coinvolgimento di lavoratori interinali e a termine, smentendo le previsioni di chi vedeva questi settori come condannati all'atomizzazione e all'"aconflittualità".
Questi settori di nuova sindacalizzazione, che sono inevitabilmente destinati a crescere significativamente, tendono nella gran maggioranza dei casi a rivolgersi alla Cgil come struttura più radicata sul territorio, nella ricerca di un sostegno per la difesa dei loro diritti.
L'insieme di questi fattori (parziale ripresa d'iniziativa del gruppo dirigente della Cgil, crisi politica della sinistra Cgil, inizio del processo di sindacalizzazione di una nuova generazione operaia) ci deve portare a un riesame critico della politica sindacale fin qui seguita dal Prc.

Nel corso degli anni '90 si è infatti oscillato fra un evidente adattamento all'apparato Cgil, in particolare quando questo promuoveva delle mobilitazioni (il primo episodio significativo di questo si ebbe nel movimento del 1994, quando venne teorizzata la "sospensione della critica" nei confronti dei vertici sindacali; l'ultimo nell'attuale vertenza dei metalmeccanici, dove risulta effettivamente impossibile distinguere la posizione dei sindacalisti del Prc da quella di Sabattini e della Fiom) e un ammiccamento più o meno aperto verso l'idea che prima o poi si debba rompere con la Cgil e promuovere la costruzione di una nuova confederazione, linea che è stata chiaramente espressa nella conferenza operaia di Treviso.
È anche necessario trarre un bilancio del percorso compiuto dai sindacati di base in questo decennio. Sulla carta, non potevano esistere condizioni più favorevoli per chi si proponeva di promuovere un'uscita di massa dalle confederazioni. Eppure a quasi dieci anni dal punto di svolta del 3 luglio 1992, il bilancio è quantomeno controverso. Sigle storiche del sindacalismo di base sono praticamente scomparse dal panorama sindacale; più in generale, nell'industria il sindacalismo extraconfederale si è fortemente indebolito. Se è vero che in alcuni settori (scuola e trasporti in particolare) c'è stato un rafforzamento significativo, è altrettanto vero che con la sola eccezione delle ferrovie in nessuna categoria sono riusciti a conquistare una egemonia indiscussa. Le recenti elezioni delle Rsu del pubblico impiego confermano quanto già si era visto in quelle precedenti, e cioè che i lavoratori vedono i sindacati di base come un utile strumento di pressione e anche di organizzazione, ma che la radicalizzazione che li spinge in determinati momenti verso queste organizzazioni è la stessa che li porta a votare la Cgil, che ha ottenuto una vittoria più chiara di quella di due anni fa.
Su queste basi gli accenni alle "rotture" che dovremmo compiere sul terreno sindacale assumono un carattere del tutto avventuristico, salvo poi tradursi in un nulla di fatto.

Il terreno decisivo sul quale ci troveremo a condurre la nostra battaglia nella prossima fase, non sarà quindi lungo la linea che divide il sindacalismo extraconfederale dalle Confederazioni, ma lungo una linea che attraversa le stesse confederazioni, e in primo luogo la Cgil.
Pur essendo coscienti che l'attuale frammentazione della presenza sindacale dei comunisti non può essere superata facilmente, dichiariamo che solo una lotta aperta all'interno del sindacato confederale, e in primo luogo alla Cgil, può aprirci la strada per raggiungere le più ampie masse di lavoratori e sfidare così la burocrazia sindacale sul terreno decisivo. Una lotta che va condotta fin da subito, uscendo dalla logica d'apparato e di attesa di questo o quel dirigente "più a sinistra", ma rivolgendosi direttamente ai lavoratori e ai delegati. Il nostro obiettivo, quindi, è quello di portare tutti i lavoratori comunisti a combattere su questo terreno, salvo situazioni particolari, ad esempio dove i sinacati alternativi hanno un radicamento significativo o per ragioni specifiche legate alle esigenze reali del conflitto sociale, ma comunque all'interno di un orientamento generale che vede i comunisti impegnati in una grande contesa di massa nelle organizzazioni "maggiormente rappresentative".
Questa analisi non significa che il Prc possa superare "per decreto" l'attuale situazione nella quale i comunisti militano in diverse organizzazioni sindacali. Nessun "ordine di partito" può sostituire un percorso le cui tappe saranno definite non dalle decisioni, ma dallo sviluppo concreto della lotta sindacale. In questa fase il discrimine decisivo sono le piattaforme, i programmi, le rivendicazioni e le capacità di costruire percorsi unitari di mobilitazione. Su questi punti il Prc si impegna ad un lavoro sistematico per creare ambiti unificanti di dibattito e di coordinamento di tutti i propri militanti sindacali, ovunque collocati.

(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)

 

Tesi 25 - INTERVENTO NEL MOVIMENTO ANTIGLOBALIZZAZIONE IN ITALIA (torna alla tesi non emendata)

Il movimento antiglobalizzazione in Italia ha conseguito una reale dimensione di massa e racchiude rilevanti potenzialità anticapitalistiche. Ma è decisiva la sua convergenza di lotta con la classe operaia come condizione dell'affermazione delle sue stesse ragioni. Lavorare nella classe operaia per l'assunzione delle istanze del movimento antiglobalizzazione entro un programma di classe. Lavorare nel movimento antiglobalizzazione per la sua aperta proiezione di lotta verso il movimento operaio entro il conflitto centrale tra capitale e lavoro. Questa è oggi una necessità centrale della battaglia di egemonia dei comunisti per la ricomposizione di un blocco sociale anticapitalistico. Ma richiede un impegno di lotta, entro la costruzione del movimento, contro le posizioni prevalenti nelle sue attuali direzioni.

Il movimento antiglobalizzazione ha conquistato un ruolo obiettivo di grande rilevanza nello scenario italiano. Più che in altri Paesi europei esso ha conseguito una reale dimensione di massa, in particolare tra i giovani, testimoniata dalla grande manifestazione di Genova; ha coinvolto reali settori di avanguardia della classe lavoratrice e delle sue rappresentanze sindacali; ha esercitato ed esercita un rilevante impatto politico sull'intera situazione nazionale. Più in generale esso si circonda di una diffusa simpatia popolare, quale effetto indiretto della crisi di egemonia del liberismo presso ampi settori di massa. Per questo il movimento rivela un potenziale prezioso di ulteriore espansione, che gli eventi di guerra non hanno pregiudicato.

Ma proprio questa realtà e potenzialità sottolineano i problemi irrisolti dell'orientamento del movimento. La sproporzione tra il livello complessivamente arretrato della coscienza politica diffusa del movimento e l'elevato livello di scontro con l'apparato dello Stato e lo stesso governo, documentata dai fatti di Genova; lo scarto tra l'elementare pulsione critica antiliberista e il livello di confronto imposto dalla precipitazione della guerra imperialistica in Afghanistan, descrivono una contraddizione obiettiva e pericolosa, in parte inscritta inevitabilmente nell'inesperienza della giovane generazione, in parte amplificata dalla cultura riformistico-paficista della direzione maggioritaria del movimento.
Il nostro partito, forte di una presenza diffusa nel movimento, può e deve impegnarsi ad affrontare e superare in avanti quella contraddizione, nell'interesse del movimento e delle sue ragioni. Non può concepire il proprio ruolo né come pura rappresentanza istituzionale delle istanze di movimento; né come mediatore tra movimento e istituzioni; né come puro collante dell'unità del movimento intesa come blocco politico-diplomatico con le componenti associative centrali della sua leadership. Ma deve invece combinare un'azione leale di costruzione quotidiana del movimento di massa antiglobalizzazione con un'aperta battaglia di orientamento politico nel movimento stesso: una battaglia tesa a sviluppare la coscienza politica del movimento sul terreno anticapitalistico e antimperialista, la sua autonomia e contrapposizione a centrodestra e centrosinistra, la sua convergenza di lotta con la classe operaia sul terreno del blocco sociale alternativo. Una battaglia aperta di egemonia alternativa.

L'azione di costruzione del movimento implica innanzitutto un'aperta responsabilità di proposta sullo stesso terreno delle forme di lotta e di organizzazione del movimento. In questo ambito va contrastata ogni posizione, ciclicamente affiorante, che di fatto propone al movimento una sorta di ripiegamento seminariale e un arretramento dei suoi livelli di mobilitazione (come nella fase successiva alle manifestazioni di Genova, alla vigilia della manifestazione di Napoli contro la NATO, in relazione alla stessa manifestazione di Roma del 10 novembre). Va posta invece la centralità delle manifestazioni, pacifiche e di massa, quale terreno di lotta indispensabile ai fini dell'aggregazione, dell'impatto politico, della stessa visibilità e popolarizzazione delle ragioni del movimento. Va affrontata seriamente, in questo quadro, la problematica dell'autodifesa delle manifestazioni da qualsiasi forma di aggressione, quale strumento di tutela del carattere pacifico e di massa delle manifestazioni medesime (v. servizi d'ordine). Va inoltre affrontata la questione dell'organizzazione democratica nazionale di un movimento che proprio per la sua espansione, non può più reggersi su un puro patto di vertice inter-associativo, ma deve coinvolgere democraticamente la massa degli attivisti, oggi privi di ogni potere decisionale, nella definizione delle scelte del movimento stesso e delle sue rappresentanze ad ogni livello: pena il combinarsi di una crisi di democrazia, di un'elusione delle scelte, di una debole rappresentatività delle decisioni.

Sul piano politico è necessario sviluppare, nel movimento la proposta di convergenza di lotta con la classe operaia, sul terreno dell'opposizione aperta al padronato e al governo Berlusconi. Non si tratta semplicemente di rappresentare la nostra "sensibilità" di classe entro il mosaico del movimento. Si tratta di lottare per conquistare il grosso del movimento ad una prospettiva di classe, quale condizione dell'affermazione delle sue stesse ragioni, e quale terreno di valorizzazione delle sue stesse potenzialità d'impatto.
Nell'attuale quadro, il movimento antiglobalizzazione, già forte di una diffusa simpatia in settori vasti della società, potrebbe realmente trasformarsi nel detonatore di un'esplosione sociale: ma alla condizione che dal movimento emerga un indirizzo nuovo e una proposta nuova. L'incontro con i lavoratori non può ridursi ad una somma di buone relazioni con le rappresentanze del sindacalismo di classe, né ad un'azione di pressione su Cofferati o alla semplice registrazione dell'adesione FIOM al GSF (che certo è importante). Ma può e deve tradursi in una pubblica proposta di azione comune, basata su una piattaforma di rivendicazioni semplice e unificante, che sappia stabilire un rapporto di sintonia con le domande sociali delle più vaste masse e che proprio per questo possa sfidare all'unità d'azione le stesse organizzazioni sindacali ponendo ognuna di fronte alle proprie responsabilità. In questo senso la proposta della vertenza generale del mondo del lavoro e dei disoccupati va posta apertamente non solo tra i lavoratori ma nello stesso movimento antiglobalizzazione, indicando così da entrambi i versanti, il possibile terreno comune di un'azione di lotta unitaria e concentrata. La stessa prospettiva dello sciopero generale contro padronato e governo va indicata come occasione straordinaria di una preziosa convergenza di lotta tra lavoratori e giovani, in una dinamica di rottura con la borghesia.

Lo stesso successo della mobilitazione contro il G8, unito alla nuova situazione creata dallo scoppio della guerra in Afghanistan, ha creato una situazione nuova nel movimento. Da un lato, l'onda d'urto generata dalla mobilitazione di Genova si è allargata ulteriormente ampliando i settori potenzialmente coinvolgibili nel movimento. Dall'altro sia le proposte politiche dominanti che le forme di lotta proposte (disobbedienza civile) sono entrate obiettivamente in crisi. Il tentativo di risolvere la crisi attraverso la strutturazione della rete dei social forum non solo non ha risolto questa crisi, ma l'ha resa più evidente. I SF, particolarmente nelle grandi città e su scala nazionale, sono oggi molto distanti dall'esprimere la potenzialità rivoluzionaria del movimento; prevale una diplomazia soffocante nei rapporti tra le diverse componenti, la logica assembleare e quella del "minimo comun denominatore" si sommano creando una gestione sostanzialmente antidemocratica. C'è quindi un'evidente forzatura nel rappresentare i SF come la "strutturazione del movimento" in quanto tale: sia per composizione che per metodi e programmi, la maggior parte sei SF sono distanti miglia e miglia dalle aspirazioni più profonde e radicali espresse dalle centinaia di migliaia di persone che hanno partecipato alle mobilitazioni contro il G-8.
La discussione sulla guerra e l'assemblea nazionale di Firenze hanno mostrato un processo di cristallizzazione di diverse posizioni all'interno dei SF. Si tratta di una chiarificazione positiva, che però si produce purtroppo senza alcun ruolo del Prc. Al contrario, la linea seguita è stata fino all'ultimo quella di oscurare e mascherare le divergenze in seno ai SF. Quando poi queste sono diventate evidenti e pubbliche, si è avuto l'episodio dell'adesione dei Gc al "laboratorio della disobbedienza sociale", con il che dopo aver negato la necessità di una chiarificazione di posizioni all'interno dei SF, quando questa si produce nostro malgrado scegliamo di abbracciare non il settore più radicale (che pure presenta chiari limiti politici, ma che comunque da Genova in poi ha tentato di esprimere posizioni più chiaramente classiste e antimperialiste), ma un'area sostanzialmente moderata come quella delle "tute bianche".
L'accettazione della "disobbedienza sociale", nonostante la retorica movimentista di cui si ammanta, costituisce in realtà un allontanamento dal movimento reale, verso la logica delle azioni "esemplari", eclatanti, simboliche, logica che è del tutto incapace di prospettare uno sviluppo di massa del movimento e un suo reale legame con il movimento operaio.

(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)

 

Tesi 35 - DEMOCRAZIA DEL PARTITO (torna alla tesi non alternativa)

Questa riforma politica profonda della nostra concezione e costruzione del partito richiama una riforma altrettanto profonda della sua democrazia, quale terreno decisivo della stessa rifondazione comunista.

Abbiamo bisogno di rendere tutti i compagni "padroni di casa" nel proprio comune partito: di incoraggiare, non emarginare, le disponibilità dei giovani compagni; di valorizzare, non di comprimere, spirito d'iniziativa e indipendenza di giudizio, che sono lievito indispensabile per un partito vitale; e soprattutto di rendere tutti i militanti del partito partecipi delle elaborazioni e decisioni ai vari livelli del partito stesso: perché gli orientamenti democraticamente definiti sono anche quelli maggiormente sostenuti nell'azione pratica, mentre le scelte passivamente subite, quand'anche condivise, non mobilitano le energie e l'iniziativa.

Parallelamente va affermato il diritto di ogni compagno del partito a conoscere il dibattito, le deliberazioni, le posizioni diverse che emergono nel partito e di contribuirvi consapevolmente (e non per impressioni ricevute magari dalla stampa avversaria). E' essenziale in questo senso uno strumento di dibattito interno nazionale, con verbali e atti degli organismi direttivi, a partire dalla Direzione nazionale, ed un'ampia possibilità di contributi delle federazioni, circoli, singoli o gruppi di militanti. Al contempo Liberazione deve essere aperto agli interventi dell'insieme del partito e rispettarne la vita democratica, senza alcuna intromissione politica da parte di redattori o responsabili del giornale.

E' necessario inoltre che la formazione dei compagni - che va assunta come tema centrale del partito - sia concepita anche come sviluppo reale della sua democrazia interna; perché solo lo sviluppo di conoscenze, competenze, preparazione, rafforza l'autonomia di giudizio e quindi la libertà reale della valutazione.

L'esperienza di questi ultimi anni mostra evidenti fenomeni di disgregazione organizzativa: calo del tesseramento unito alla moltiplicazione nel numero di circoli, crescenti difficoltà a mantenere una "massa critica" di militanti sufficiente ad assicurare a una parte rilevante dei circoli una gestione vitale e continua dell'intervento, scarsissima capacità di formare nuovi quadri, ecc. Le teorie sulla "contaminazione" non fanno che razionalizzare queste nostre debolezze, aggravando i pericoli ai quali siamo sottoposti. Al di là di qualsiasi intenzione soggettiva, è evidente che il messaggio lanciato dal gruppo dirigente in particolare nell'ultimo anno, messaggio secondo il quale le strutture del partito (circoli e federazioni) non sarebbero di perse sedi idonee alla costruzione di una forza comunista ha assunto un carattere in molti casi apertamente smobilitante. Gli slogan ripetuti abbondatemente secondo i quali "il partito è il movimento", e simili non possono che porre la domanda a tutti i militanti: se questo è vero, a che pro impegnarsi nella costruzione del partito?
Parallelamente dopo l'ultimo congresso si è espressa con maggiore chiarezza che in passato una crescente strutturazione di aree e correnti all'interno del partito, in un processo che coinvolge un numero sempre crescente di federazioni e di circoli.
Si tratta di un problema complesso, che in ultima analisi può trovare una soluzione definitiva solo sul terreno del dibattito e, se necessario, della lotta politica all'interno del partito. Sarebbe sbagliato, oltre che illusorio, pensare che la rifondazione comunista possa approdare a un esito positivo senza un processo profondo di discussione nel quale le diverse tradizioni e filoni politici presenti al nostro interno si possano strutturare ed esprimere liberamente e con pari dignità di fronte a tutti i compagni.

In questi anni è stata sferrata una vasta offensiva, sia fuori che dentro il nostro partito, contro l'idea del centralismo democratico. Questa offensiva si è basata in primo luogo sulla sistematica e voluta confusione tra il vero centralismo democratico che era alla base del regime interno del partito bolscevico e dei partiti comunisti nei loro primi anni con la caricatura burocratica imposta dallo stalinismo nelle sue diverse varianti.
Per noi il centralismo democratico non è altro che l'applicazione più alta e cosciente, nel campo del partito, dei principi fondamentali dell'autunomia e dell'unità di classe: massima libertà nella discussione, massima unità nell'azione, costruzione del partito e dei suoi gruppi dirigenti al di fuori di ogni logica di cordata o pseudoparlamentaristica, ma in base a una reale selezione e a una verifica sistematica delle capacità e delle competenze di ogni compagno posto in posizione dirigente, ecc.
Contrariamente alla caricatura che ne è stata fatta per decenni, il centralismo democratico leninista prevedeva il diritto di organizzarsi in tendenze quando fosse risultato impossibile comporre altrimenti un dibattito con posizioni differenti. Il divieto di organizzare frazioni nel Partito comunista russo, approvato nel X congresso del 1921 fu una misura eccezionale e concepita come temporanea nella fase più aspra e difficile al termine della guerra civile e durante la carestia, ma non venne mai elevata a principio, tanto che in tutti gli altri partiti comunisti (a partire da quello italiano) per diversi anni ancora continuarono a esistere raggruppamenti e frazioni che si scontravano apertamente, anche su piattaforme diverse, nei congressi nazionali e internazionali.

Se questo è vero, è però altrettanto vero che il rispetto del diritto di tutte le voci a farsi sentire nel modo più adeguato non può significare una "correntizzazione" completa del partito in tutti i suoi livelli. Il nostro fine non può in nessun caso essere una struttura di partito che ricalchi il modello della democrazia parlamentare, con i congressi nazionali al posto delle elezioni politiche, gli organismi nazionali e locali come parlamentini pletorici e con gli esecutivi come coalizioni più o meno instabili di rappresentanti di diverse correnti.
Questo sistema ha portato da un lato al rigonfiamento oltre ogni proporzione ragionevole degli organismi dirigenti a partire dal Cpn, che dovrebbero essere drasticamente ridimensionati. In secondo luogo, se ha creato il costume di un relativo rispetto formale delle posizioni alternative, in particolare nelle fasi congressuali, ha favorito un inaridimento della democrazia reale e sostanziale nel partito; gli organismi "sovrani" sono spesso e volentieri impossibilitati ad esprimere una funzione realmente dirigente sulle scelte politiche, che vengono trasferite a segreterie che spesso sono in realtà la conferenza dei "capicorrente" e che quindi svolgono impropriamente il dibattito politico che dovrebbe invece svolgersi nel Cpn e nei Cpf. Un ulteriore effetto negativo di questa situazione è stato lo sviluppo di una serie di "fedeltà" di corrente che nuocciono gravemente al dibattito complessivo del partito, soprattutto in quei contesti dove più forte si fa sentire la carenza di quadri formati con una indipendenza di giudizio politico e di proposta.
La nostra concezione deve puntare alla ricostruzione dell'unità di pensiero e azione del partito, una unità non meccanica ma reale, profondamente sentita dal corpo militante in quanto derivante da un dibattito trasparente e aperto. Se è vero che oggi questa condizione è assai lontana, è giusto tuttavia richiamarla e metterla in discussione, poiché il progetto rivoluzionario che abbozziamo con queste tesi non sarebbe completo se non indicasse quale dovrebbe essere lo strumento della sua attuazione.

(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)