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PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA
V Congresso Nazionale

Tesi di minoranza

Un progetto comunista rivoluzionario nella nuova fase storica
Tesi Congressuali votate dalla minoranza del Comitato Politico Nazionale (link anche agli emendamenti)

INTRODUZIONE - SINTESI (vai all'introduzione alternativa)
Tesi 1 - CRISI DELL'UMANITA'
Tesi 2 - CRISI CAPITALISTICA E "GLOBALIZZAZIONE"
Tesi 3 - IMPERIALISMO
Tesi 4 - GUERRA
Tesi 5 - UTOPIA DEL RIFORMISMO
Tesi 6 - ATTUALITA' DEL SOCIALISMO
Tesi 7 - IL NODO DEL POTERE
Tesi 8 - RIVOLUZIONE D'OTTOBRE E DEGENERAZIONE BUROCRATICA
Tesi 9 - CENTRALITA' STRATEGICA DELLA CLASSE OPERAIA
Tesi 10 - MOVIMENTO ANTIGLOBALIZZAZIONE
Tesi 11 - CAPITALE E QUESTIONE AMBIENTALE
Tesi 12 - PROGRAMMA TRANSITORIO
Tesi 13 - LIBERAZIONE DELLA DONNA
Tesi 14 - INTERNAZIONALE COMUNISTA
Tesi 15 - IMPERIALISMO ITALIANO (vai all'emendamento sostitutivo)
Tesi 16 - ANNI NOVANTA E CENTROSINISTRA (vai all'emendamento sostitutivo)
Tesi 17 - BILANCIO DI LINEA DEL PRC
Tesi 18 - SUL "GOVERNO DELLA SINISTRA PLURALE" (vai all'emendamento sostitutivo)
Tesi 19 - POLO AUTONOMO DI CLASSE (vai all'emendamento sostitutivo)
Tesi 20 - CRISI E DERIVA DS (vai all'emendamento sostitutivo)
Tesi 21 - PRC E GIUNTE LOCALI
Tesi 22 - PER LA CACCIATA DEL GOVERNO BERLUSCONI (vai all'emendamento sostitutivo)
Tesi 23 - OPPOSIZIONE DI CLASSE A BERLUSCONI E VERTENZA GENERALE
Tesi 24 - RIFONDAZIONE SINDACALE (vai all'emendamento sostitutivo)
Tesi 25 - INTERVENTO NEL MOVIMENTO ANTIGLOBALIZZAZIONE IN ITALIA (vai all'emendamento sostitutivo)
Tesi 26 - SCUOLA
Tesi 27 - QUESTIONE MERIDIONALE
Tesi 28 - PER UN MOVIMENTO DI MASSA DELLE DONNE
Tesi 29 - INTERVENTO SULL'IMMIGRAZIONE
Tesi 30 - IMPOSTAZIONE PROGRAMMATICA DELL'ALTERNATIVA DI CLASSE
Tesi 31 - RUOLO DELLA CHIESA E BATTAGLIA ANTICLERICALE
Tesi 32 - NATURA DEL PARTITO
Tesi 33 - PARTITO, EGEMONIA, MOVIMENTO
Tesi 34 - RIFORMA DEL PRC, NON DILUIZIONE NEL MOVIMENTO
Tesi 35 - DEMOCRAZIA DEL PARTITO (vai all'emendamento sostitutivo)
Tesi 36 - I GIOVANI COMUNISTI

firmatari

INTRODUZIONE - SINTESI (torna all'indice)

Il capitalismo mondiale riversa sempre più la propria crisi sulla condizione generale dell'umanità, minacciando una vera e propria regressione storica di civiltà. La ripresa delle guerre che ha segnato l'ultimo decennio -prima in Irak, poi nei Balcani, oggi in Afghanistan-, ne è il riflesso materiale e simbolico.
La rappresentazione della cosi detta "globalizzazione" capitalistica come avvento di un "nuovo capitalismo" capace di superare le sue antiche contraddizioni, è stata smentita dalla realtà.

La crisi che da un quarto di secolo segna l'economia del mondo non solo non è superata ma si ripropone oggi nella forma classica della recessione.
Le contraddizioni tra i blocchi capitalistici non solo non si sono dissolte in un "impero" indistinto e omogeneo ma si ripropongono acuite dopo il crollo dell'URSS e sotto la spinta della crisi.
La contraddizione tra capitale e lavoro, lungi dall'essere superata o ridimensionata, è riproposta nella sua centralità dalla crisi e dalla nuova competizione globale capitalistica.

Lo stesso sviluppo del militarismo e della guerra in corso -con i suoi effetti regressivi sul terreno delle libertà democratiche e delle conquiste sociali- è inseparabile dal contesto generale della crisi capitalistica. Lungi dall'essere un conflitto tra "due fondamentalismi" ideologici (il Mercato e il Terrore) è una guerra dell'imperialismo contro i popoli oppressi: mira al controllo del Medio Oriente e dell'Asia centrale; vuole intimidire i movimenti di liberazione nazionale (a partire dal popolo palestinese); mira a contrastare la recessione economica col grande rilancio delle spese militari; risponde all'interesse dell'imperialismo americano a controbilanciare l'ascesa economica europea con il rilancio della propria indiscussa egemonia militare.

Su un altro piano, gli sviluppi politici e le dinamiche del capitale degli anni novanta sono stati devastanti per l'ambiente. Tutti i vecchi problemi si sono estesi, sono emerse nuove emergenze su scala planetaria. A fronte di tutto questo, tanto gli approcci etico-culturali quanto il riformismo verde si sono rivelati inadeguati e impotenti: nessun nuovo modello di sviluppo sarà possibile senza un nuovo modo di produzione, senza il rovesciamento del capitalismo.

In definitiva, a dieci anni dal crollo dell'URSS, la ricomposizione capitalistica dell'unità del mondo non si è affatto tradotta in un universo pacificato e più stabile, ma in un'accentuazione della crisi internazionale.

Questo quadro generale di crisi e regressione rivela una volta di più il carattere utopico di ogni progetto riformistico.
L'idea di "governi riformatori" favorevoli ai lavoratori; di un possibile capitalismo "equo" imbrigliato dalle regole di una "società civile progressista"; di una riforma pacifista dell'ordine mondiale, fondata su una rivalutazione dell'ONU e sospinta dalla cultura gandhiana della "non-violenza", rappresentano, oggi più che mai, un'illusione impotente. Non una via concreta di costruzione di un altro mondo possibile, ma la rassegnazione di fatto a questo mondo reale, seppur nutrita di sogni.

Il V Congresso del nostro partito è chiamato dunque a rimuovere e a contrastare ogni utopia riformista assumendo un nuovo orizzonte strategico, apertamente anticapitalista e rivoluzionario.
Un altro mondo è possibile. Si chiama Socialismo. Non si tratta solo di evocarne il nome ma di recuperarne il programma generale quale unica vera risposta alla crisi dell'umanità.
Solo l'abolizione della proprietà privata, a partire dai duecento colossi multinazionali che oggi dominano l'economia del mondo. Solo una economia mondiale democraticamente pianificata liberata dal dominio del profitto; solo la conquista del potere politico da parte delle classi subalterne come leva decisiva della transizione, possono creare le condizioni di un nuovo "modello di sviluppo": che liberi nuove relazioni tra gli uomini e i popoli, un nuovo rapporto dell'uomo con l'ambiente, un controllo degli indirizzi e delle applicazioni della scienza in funzione delle qualità della vita quale nuova frontiera del progresso. Recuperare e attualizzare dunque il programma originario del comunismo e della rivoluzione d'Ottobre come scenario di liberazione dell'umanità, scevro da ogni retaggio burocratico staliniano, è compito centrale dei comunisti e del nostro partito. Assumendolo come bussola di una nuova impostazione strategica che riconduca gli obiettivi immediati di ogni lotta e di ogni movimento alla necessità della rivoluzione sociale.

Peraltro proprio l'inizio di ripresa oggi della lotta di classe e dei movimenti di massa nel mondo (ciò che nel partito abbiamo chiamato "il disgelo") -sintomo dopo vent'anni dalla crisi di egemonia delle politiche dominanti - rappresenta una straordinaria occasione di rilancio della prospettiva socialista presso la giovane generazione: come risposta rivoluzionaria nel cuore dei movimenti, alle loro stesse domande sociali ambientali, democratiche, di pace, tutte incompatibili, nelle loro istanze profonde, con l'attuale ordine borghese. Non si tratta allora di abbandonarsi alla mistica retorica dei movimenti, tantomeno di disperdere la centralità di classe: si tratta di ricondurre il prezioso sentimento antiliberista della giovane generazione ad una chiara prospettiva di classe anticapitalista. La sola che possa offrire un futuro ai movimenti stessi; la sola che possa svilupparli oggi sul terreno della mobilitazione contro l'imperialismo e la guerra fuori da ogni illusione pacifista; la sola che possa fondare il riferimento alla classe operaia a al mondo del lavoro nella sua nuova composizione ed estensione, quale soggetto centrale del blocco storico alternativo. Da qui la necessità di una battaglia nei movimenti per l'egemonia di classe: che non è autoimposizione burocratica ma lotta aperta e leale per la prospettiva socialista contro quelle culture neoriformiste che conducono i movimenti stessi nel vicolo cieco della sconfitta. Il complesso lavoro di rifondazione di un'internazionale comunista e rivoluzionaria che assuma la battaglia per l'egemonia anticapitalistica su scala mondiale è tanto più oggi una necessità di fondo per i comunisti.

Ma questa nuova impostazione strategica implica una svolta profonda di linea e di scelte sul piano nazionale. Entro il nuovo scenario politico italiano, la ripresa delle dinamiche di movimento sul versante operaio e giovanile e la crisi verticale e deriva liberale dei D.S., creano le condizioni di un forte e necessario rilancio del nostro partito quale unico possibile riferimento politico alternativo per vasti settori di lavoratori e di giovani. Ma ciò implica un nuovo indirizzo di fondo del PRC. Per 10 anni il nostro partito ha respinto la proposta di costruzione del polo autonomo di classe per perseguire una linea di "condizionamento" dell'apparato D.S. e delle sue coalizioni (polo progressista e centrosinistra) sulla base di un "programma di riforme": sia dal governo, che dall'opposizione, sia sul piano nazionale che sul piano locale. E' onesto riconoscere che questa linea ha registrato un sostanziale fallimento. Essa infatti non ha dato risultati: né dal punto di vista della costruzione del PRC e della sua influenza elettorale e di massa; né soprattutto dal punto di vista degli interessi e delle prospettive del movimento operaio, che proprio il Centrosinistra e l'apparato D.S., alfieri degli interessi della grande borghesia per tutta la precedente legislatura hanno condannato alla sconfitta sociale e politica. L'unico effetto pratico della linea di "contaminazione" del centrosinistra è stato, al
contrario, il coinvolgimento del PRC per metà della legislatura dell'Ulivo nel sostegno a politiche antioperaie e antipopolari (varo del lavoro interinale col "Pacchetto Treu", privatizzazioni, tagli della spesa sociale) del tutto opposte alle ragioni sociali del nostro partito.

La prospettiva avanzata per il dopo Berlusconi di un "governo della sinistra plurale" sulla base di un "programma riformatore", non solo rimuove ogni bilancio ma ripropone di fatto l'ispirazione fallita di dieci anni. E' quanto viene esplicitato nel documento precongressuale votato dalla maggioranza del partito nel CPN di ottobre che afferma: "(...) questo non significa che non si possa costruire una sinistra plurale, in Italia e in Europa, capace di proporsi il tema della conquista della maggioranza dei consensi e della candidatura al governo ai fini di realizzare un programma riformatore, ma vuol dire che per arrivarci bisogna battere strade diverse da quelle della tradizionale politica unitaria, in primo luogo facendo irrompere nell'intero campo delle sinistre e dei rapporti tra di loro, la novità e la rottura del movimento." Questa prospettiva non solo quindi preserva il riferimento all'esperienza negativa della gauche plurielle di Jospin ma la ripropone con un apparato D.S. che nella sua larga maggioranza ha rotto con la funzione della stessa socialdemocrazia. Assumere questa prospettiva come finalità di sbocco dei movimenti significherebbe contraddire le potenzialità anticapitaliste dei movimenti stessi e subordinarli ad un accordo coi liberali.

Il V Congresso respinge dunque questa prospettiva politica a partire da una svolta di fondo: quella della costruzione del PRC attorno alla linea del polo autonomo di classe e anticapitalistico, alternativo sia al Centrodestra reazionario sia al Centrosinistra liberale. Questo orientamento implica innanzitutto una coerenza di collocazione politica del nostro partito come forza di opposizione. Non può esservi contraddizione tra le ragioni sociali che il PRC esprime e la sua collocazione politica istituzionale: ciò vale in prospettiva sul piano nazionale, come vale anche sul piano locale dove va superata la collaborazione di governo nelle giunte di Centrosinistra, a partire dalle Regioni e dalle grandi città, dove siamo di fatto subordinati a politiche e interessi del tutto estranei alle ragioni dei lavoratori. Ma più in generale la proposta del polo autonomo di classe è rivolta all'insieme del movimento operaio e dei movimenti di massa. L'esperienza dell'ultima legislatura, ha dimostrato a milioni di lavoratori il disastro sociale e politico della collaborazione del movimento operaio con le forze sociali e politiche del Centro Borghese. "Rompere col Centro" non è allora una petizione astratta: fa leva sull'esperienza di massa per rivendicare l'autonomia di classe dei lavoratori e delle lavoratrici di fronte agli interessi delle altre classi e delle loro rappresentanze. Per dire che solo una mobilitazione indipendente dei lavoratori e dei movimenti sul terreno anticapitalistico può difendere le loro ragioni e aprire il varco ad un'alternativa vera.

Questa esigenza di autonomia è più attuale che mai. Di fronte alle destre e a Berlusconi tutte le forme di alleanze con le forze di Centro hanno fallito. Solo la grande mobilitazione indipendente della classe operaia nel '94 riuscì a piegare il governo Berlusconi e a porre le condizioni della sua caduta. Il nostro partito deve costruire tra le masse la memoria di questa esperienza, e assumerla come riferimento per la propria azione.
Il nuovo governo Berlusconi ha un insediamento sociale e istituzionale più forte che nel 94; ma proprio per questo la sua eventuale stabilizzazione, come si è visto a partire da Genova, comporta un rischio reazionario più elevato. Il PRC non può vivere allora la propria opposizione come routine istituzionale combinata con l'affidamento alla spontaneità dei movimenti. Ha l'onere di una proposta al movimento operaio e della costruzione attiva di uno sbocco politico. In questo senso il V Congresso del PRC assume l'obiettivo della cacciata del governo Berlusconi-Bossi- Fini per una alternativa di classe come terreno di mobilitazione unitaria del movimento operaio e dei movimenti di massa e di tutte le tendenze politiche e sindacali che su di essi si basano. Perché solo una vera esplosione sociale concentrata contro il padronato e il governo delle destre può realmente scompagnare lo scenario politico italiano e porre le condizioni dell'alternativa di classe.

Da qui la proposta di una vertenza generale attorno ai temi di un forte aumento salariale per tutto il lavoro dipendente, del salario minimo garantito intercategoriale, di un vero salario garantito ai disoccupati e ai giovani in cerca di prima occupazione, dell'abolizione delle leggi di precarizzazione del lavoro (v. "Pacchetto Treu" e le ulteriori leggi in materia introdotte dal governo Berlusconi) con l'assunzione a tempo indeterminato di tutti i lavoratori precari, della riduzione generalizzata dell'orario. Questa proposta di mobilitazione può e deve essere avanzata dal nostro partito in tutti i luoghi di lavoro, in tutte le organizzazioni sindacali, sul territorio, nello stesso movimento antiglobalizzazione: sostenendo le tendenze interne del movimento che già oggi spingono per un suo impegno diretto a fianco dei lavoratori e delle lavoratrici. E' proprio dalla ricomposizione unitaria di lotta della giovane generazione, dal versante operaio in primo luogo come dal versante antiglobalizzazione che può innescarsi la dinamica dell'esplosione sociale contro il governo delle destre e le classi dominanti. Ricondurre a questo sbocco tutto il lavoro di massa del partito, estendere il quadro delle rivendicazioni ad ogni settore sociale colpito dalle politiche dominanti (v. Immigrazione e Scuola), collegare il quadro delle rivendicazioni immediate a un programma più generale di rottura con la proprietà capitalistica e lo Stato, sviluppare in ogni movimento la coscienza politica anticapitalistica, questo è l'impegno necessario dell'opposizione comunista per l'alternativa di classe.
E in questo ambito il nostro partito non può teorizzare un principio di adattamento silenzioso nei movimenti affidandosi passivamente a orientamenti e scelte delle loro direzioni ma deve elaborare capacità di proposta su scelte politiche piccole e grandi, in funzione della prospettiva anticapitalistica. La tematica delle forme di lotta, a partire dalla necessaria difesa del diritto di manifestare in piazza, contro ogni tentazione di ripiegamento; le questioni legate all'autodifesa di manifestazioni pacifiche e di massa contro le aggressioni violente da qualunque parte provengano; la tematica delle forme di organizzazione dei movimenti e del loro sviluppo democratico oggi centrale nel movimento antiglobalizzazione: sono terreni su cui il nostro partito non può tacere in nome di un blocco incondizionato con le direzioni egemoni dei movimenti. Ma deve avanzare indicazioni, certo collegate alla sensibilità degli interlocutori e alla concretezza dei problemi, ma sempre ispirate a un unico criterio di fondo: lo sviluppo della forza autonoma delle classi subalterne e dei movimenti di massa in direzione di un'alternativa di società e di potere. Come affermava Rosa Luxemburg: "La conquista del potere politico resta il nostro scopo finale e lo scopo finale resta l'anima della nostra lotta. La classe operaia non deve porsi nell'ottica [di chi dice] 'Lo scopo finale non è niente, è il movimento che è tutto.' No, al contrario: il movimento in quanto tale, senza rapporto con lo scopo finale, il movimento come fine in sé non è niente, è lo scopo finale che è tutto." (1898).

Solo questo programma di alternativa anticapitalistica fonda la ragione politica organizzativa del partito nel suo rapporto con i movimenti e la lotta di classe. Un partito che si viva come pura rappresentanza istituzionale di domande sociali, in funzione di una prospettiva di governo riformatore, si priva di una funzione strategica indipendente e perciò mette a rischio, al di là di ogni intenzione, la ragione stessa della sua esistenza. Privo di uno specifico progetto anticapitalistica il partito smarrisce la ragione di una propria distinzione rispetto al movimento. E così l'invito dell'apertura al movimento, in sé importantissima, si trasforma in un rischio di dissoluzione nel movimento stesso, o di trasformazione delle proprie strutture in indistinti "luoghi di movimento". Il risultato paradossale non è così il rafforzamento del partito nel movimento ma all'opposto un principio di dispersione delle forze e di loro sradicamento: a tutto danno sia del partito che del movimento stesso, privato di un riferimento organizzato capace di indicazione e proposta.

La logica proposta dalla maggioranza dirigente del PRC va dunque esattamente capovolta. Il partito ha sì l'esigenza prioritaria di partecipazione piena ai movimenti, senza distacchi dottrinari e anzi con la massima concentrazione in essi delle proprie forze. Ma ne ha esigenza come partito cioè come specifico progetto collettivo anticapitalista e rivoluzionario: ciò che richiede una specifica strutturazione, specifici strumenti che possano organizzare nei movimenti, a partire dalla classe operaia, la battaglia collettiva per quel progetto. Ed anche il più ampio sviluppo della democrazia interna del partito, condizione decisiva dell'elaborazione collettiva e della stessa formazione dei quadri. In questo senso la funzione d'avanguardia del partito non come imposizione burocratica, ma come progetto programmatico su cui sviluppare consenso ed egemonia, è la condizione stessa del suo radicamento e rafforzamento organizzativo.

(vai all'introduzione alternativa)

 

Tesi 1 - CRISI DELL'UMANITA' (torna all'indice)
I dieci anni che sono trascorsi, dopo la svolta d'epoca segnata dal crollo dell'URSS, hanno interamente smentito le profezie liberali che accompagnarono quell'evento. Il capitalismo mondiale riversa sempre più la propria crisi sulla condizione generale dell'umanità, minacciando una vera e propria regressione storica di civiltà. La ripresa della guerra che ha segnato l'ultimo decennio -prima in Irak, poi nei Balcani, oggi in Afghanistan- col suo carico di morti e distruzioni ne è il riflesso materiale e simbolico.

La perdurante crisi economica capitalistica, le ripetute sconfitte del movimento operaio degli anni '80 e '90, il venir meno col crollo dell'URSS di un contrappeso statuale per quanto distorto alla potenza dell'imperialismo, i vasti processi di restaurazione capitalistica che hanno investito, in forme diverse, vaste aree del mondo, hanno prodotto come effetto congiunto un arretramento delle condizioni di vita e di lavoro della maggioranza dell'umanità.

Nei paesi imperialisti di tutti i continenti (USA, Europa, Giappone), la caduta dei salari, il degrado del lavoro, lo smantellamento progressivo delle protezioni sociali, descrivono nel loro insieme un attacco profondo ai livelli acquisiti di sicurezza sociale.
Nei paesi a capitalismo restaurato (Russia ed est Europa) o in via di restaurazione (Cina) la reintroduzione del dominio del mercato procede alla distruzione di ogni forma di difesa sociale producendo un drammatico salto regressivo nella vita di centinaia di milioni di uomini e di donne.
Nel blocco dei paesi dipendenti, interi continenti, a partire dall'Africa e da larga parte dall'America Latina, conoscono una ulteriore precipitazione della condizione di massa, assieme ad un aggravamento dei livelli di dipendenza coloniale dall'imperialismo.
Più in generale l'intera dimensione della vita è investita da una profonda tendenza regressiva, segnata dal moltiplicarsi dei sintomi del degrado, dell'intolleranza, dell'irrazionalismo.
Il ritorno della guerra, che ha costellato il decennio, è il riflesso eloquente di questa drammatica regressione. Anche solo venti anni fa la previsione di una guerra nel cuore dell'Europa sarebbe apparsa un fantasioso azzardo. Venti anni dopo non solo la guerra ritorna materialmente nello stesso vecchio continente, col suo carico terribile di morte e distruzione (Balcani): ma si rilegittima progressivamente nell'immaginario collettivo di settori di massa. Ed oggi il potente rilancio del militarismo internazionale a guida anglo-americana, trainato dalla guerra imperialistica all'Afghanistan, lo stesso riarmo della Germania e del Giappone, segnano anche simbolicamente la svolta d'epoca del nostro tempo.
Su un altro piano, si fanno di anno in anno più drammatiche le manifestazioni e le conseguenze della crisi ambientale planetaria, una drammatica conferma dell'incapacità dell'attuale ordine sociale di operare in modi non distruttivi nei confronti dell'ambiente. E le conseguenze sociali di questa crisi tendono sempre più a combinarsi con quelle della crisi sociale e politica in cui sprofondano molti paesi del cosiddetto Terzo mondo, ciò che provoca vere e proprie "catastrofi umanitarie" e sospinge masse crescenti di uomini e di donne a migrare in una sorta di disperata "fuga per la sopravvivenza".

Per la prima volta dal dopoguerra, ad ogni latitudine del mondo, l'orizzonte delle nuove generazioni non si presenta come orizzonte di progresso ma come preannuncio di nuove regressioni. Non si tratta peraltro di uno scenario eccezionale. Al contrario, se guardiamo le cose col raggio di visuale del lungo periodo osserviamo il ritorno del capitalismo alla normalità storica del proprio declino. Ciò che semmai è superata è l'eccezionalità di quella parentesi storica postbellica che agli occhi di più generazioni era apparsa la norma.

Tesi 2 - CRISI CAPITALISTICA E "GLOBALIZZAZIONE" (torna all'indice)
Le tesi emergenti negli anni Novanta circa la nascita di "un nuovo capitalismo" capace di superare le sue antiche contraddizioni, sono state smentite dalla realtà. La crisi economica capitalistica ripropone più che mai l'attualità della lettura marxista della "globalizzazione" fuori da ogni "apologia" del capitale.

Negli anni Novanta -sullo sfondo del crollo dell'URSS, dell'arretramento del movimento operaio, della prosperità economica USA, di una vasta innovazione tecnologica- è venuta affermandosi una rappresentazione dominante della realtà del mondo come "globalizzazione", spesso intendendo con questo termine l'emergere di un "nuovo capitalismo", strutturalmente diverso dal capitalismo "tradizionale" e per questo capace di superare le proprie vecchie contraddizioni. Nella versione liberista il mito della globalizzazione è stato impugnato come annuncio di una nuova era di prosperità. Nella versione opposta di tanta parte del pensiero critico alternativo come l'avvento di una nuova dominazione totalizzante. Nell'un caso come nell'altro il nuovo capitalismo è stato presentato come l'alba di un nuovo regno e come riprova del fallimento o dell'invecchiamento della lettura marxista.

Queste rappresentazioni ideologiche hanno per molti aspetti capovolto la realtà delle cose: e la realtà ha finito col confutarle.
L'economia capitalistica internazionale vive da un quarto di secolo un'onda lunga di crisi, segnata dall'esaurimento storico della spinta propulsiva del secondo dopo-guerra e dal prevalere di una spinta alla stagnazione. La caduta del saggio medio del profitto su scala mondiale ne rappresenta il riflesso.
A partire dall''89-'91, il crollo dell'URSS e i processi di restaurazione capitalistica che si sono affermati nell'insieme dell'Est europeo, assieme alle emergenti tendenze restaurazionistiche che si sono sviluppate in altri Paesi non capitalistici (Cina) hanno configurato certamente un processo di ricomposizione capitalistica dell'unità del mondo. Ma la riconquista compiuta o tendenziale, di tanta parte del pianeta non ha significato il rilancio storico dell'economia capitalistica. L'Est europeo, più che volano di un nuovo sviluppo economico internazionale, rappresenta in larga misura una semicolonia del sottosviluppo: la massiccia concentrazione di miseria sociale e il basso livello di consumi che ne deriva rappresentano un freno all'espansione del mercato capitalistico. Parallelamente la forte riduzione dei margini di manovra dei Paesi dipendenti, conseguente al crollo dell'URSS, ha finito con l'integrarli più direttamente nella stagnazione mondiale: così il sottoconsumo del Terzo mondo sospinto dal calo o dal crollo delle materie prime ha costituito un ulteriore fattore della stagnazione medesima. Complessivamente, nonostante l'espansione del mercato capitalistico, il peso del commercio internazionale nell'economia mondiale è analogo a quello del 1914. Così nonostante i nuovi processi di decentramento internazionale della produzione, le stesse multinazionali concentrano tuttora il grosso del proprio volume di investimenti entro il perimetro degli Stati dominanti e dei propri mercati regionali piuttosto che in un mondo indifferenziato. La globalizzazione economica dunque ha investito essenzialmente non la produzione reale ma l'economia finanziaria, dove ha realmente raggiunto un livello storicamente nuovo: ma proprio l'espansione abnorme del parassitismo finanziario -che conferma oltre le sue stesse previsioni, l'analisi di Lenin dell'imperialismo- riflette la crisi del saggio medio di profitto nella produzione. Come all'inizio del Novecento lungi dall'essere misura della prosperità capitalistica, il parassitismo dei rentier è figlio della crisi di stagnazione e concausa della stessa.
La forte concentrazione di innovazione tecnologica (rivoluzione informatica) e la diffusione di nuove forme di organizzazione del lavoro (il cosiddetto toyotismo) si collocano e si spiegano in questo contesto. Come in altre epoche storiche (si pensi allo sviluppo del fordismo negli anni Venti-Trenta), l'innovazione tecnologica intensa e le nuove sperimentazioni nell'organizzazione produttiva non promanano dal benessere del capitalismo ma dalla sua crisi: come tentativo di rilancio del saggio di profitto attraverso l'incremento di produttività e la configurazione di nuovi mercati trainanti. Ma contrariamente all'ottimismo borghese degli anni Novanta, la rivoluzione informatica e le sue applicazioni tecnologiche, per quanto rilevanti non hanno esercitato la forza di trascinamento economico che potevano avere, in un altro contesto, le ferrovie del secolo scorso o l'automobile degli anni Cinquanta. Non solo non hanno garantito l'uscita dalla stagnazione ma, oltre una certa soglia, hanno concorso paradossalmente ad aggravarla: la crisi profonda della new economy oggi nel cuore del capitalismo americano, è esattamente un'espressione classica di sovrapproduzione i cui effetti recessivi più generali sono direttamente proporzionali all'intensità dello sviluppo economico precedente del settore. La teoria di un "nuovo capitalismo" capace di superare il ciclo economico non poteva trovare smentita più clamorosa.

Tesi 3 - IMPERIALISMO (torna all'indice)
L'imperialismo è, oggi più che mai, il quadro dominante della realtà del mondo. Le tesi del suo superamento in direzione di una globalizzazione indistinta non trovano alcuna conferma nel mondo reale. Riattualizzare l'analisi marxista dell'imperialismo oggi, nelle sue profonde contraddizioni e sullo sfondo dell'attuale instabilità internazionale è condizione decisiva per la comprensione delle tendenze storiche future.

Negli anni Novanta in significativi settori intellettuali della "sinistra critica" e nella stessa Direzione nazionale del nostro partito, è venuta emergendo la tesi del superamento della categoria stessa dell'imperialismo in direzione della rappresentazione di un "impero" globale, omogeneo ed uniforme, a esclusiva dominazione nord-americana, capace di dissolvere ruolo e funzioni dei vecchi Stati nazionali. Da qui anche la rappresentazione dell'Europa come semplice articolazione subalterna dell'Impero e la relativa rivendicazione di una sua autonomia su base "sociale e democratica".
Questa concezione generale da un lato si basa su un'incomprensione profonda della complessità del mondo contemporaneo; e dall'altro lato, negando il carattere imperialistico dell'Europa, disorienta gravemente la stessa azione politica dei comunisti.

Lungi dal ricomporre le contraddizioni intercapitalistiche, il crollo dell'Urss dell'89-'91 le ha in qualche modo liberate, entro uno scenario storico profondamente nuovo. I giganteschi processi di restaurazione capitalistica nell'Est europeo e, in forma incompiuta, nella stessa Cina, i nuovi rapporti di forza nei confronti dei Paesi dipendenti, la necessità di ridefinire complessivamente equilibri geostrategici e zone di influenza, hanno alimentato inevitabilmente una nuova competizione mondiale tra gli Stati capitalistici dominanti. E i terreni della competizione stanno interamente dentro il quadro storico dell'imperialismo: riguardano il controllo dei mercati di sbocco, i settori di investimenti e di esportazione del capitale, il controllo di materie prime e mano d'opera a basso costo, i livelli di concentrazione monopolistica del capitale finanziario, il controllo politico-militare delle aree strategiche.

La superiorità oggi dell'imperialismo USA è obiettivamente indiscutibile: sia sul versante della concentrazione di capitale finanziario, sia sul versante della forza militare, dove proprio il crollo dell'URSS ha rafforzato il tradizionale primato americano e il suo impiego criminale nel mondo. Ma l'Europa è tutt'altro che una semplice area dipendente. All'opposto, sia la vasta restaurazione capitalistica nell'Est Europa e nei Balcani, sia il declino non congiunturale del Giappone, hanno alimentato un vero e proprio sviluppo dell'imperialismo europeo come polo economico concorrente con gli USA. La stessa costruzione dell'Unione Europea a partire dal '92, lungi dal rappresentare un puro fatto di ingegneria istituzionale "non democratica e liberista", ha costituito e costituisce il tentativo strategico, non privo di contraddizioni, di assicurare all'imperialismo europeo un quadro politico unificante all'altezza delle sue nuove ambizioni. Il potente sviluppo dei livelli di concentrazione monopolistica europea in settori strategici (banche, assicurazioni, telecomunicazioni, industria militare) che proprio il quadro di Maastricht ha incoraggiato; l'egemonia economica europea (in particolare tedesca e italiana) nella penisola balcanica e nell'Est Europa; le nuove entrature dell'imperialismo europeo nei Paesi arabi e in Medio-Oriente (v. Irak e Iran) e in larga parte dell'America Latina; il decollo di un militarismo europeo con lo sviluppo del progetto della difesa comune descrivono, nel loro insieme, un nuovo e più forte posizionamento europeo negli equilibri mondiali.
Il forte sviluppo dell'iniziativa bellica dell'imperialismo USA negli anni Novanta (in Irak, nei Balcani, in Afghanistan) è stato ed è anche un tentativo di riequilibrare con la propria egemonia militare l'ascesa economica europea e di limitare il nuovo spazio di manovra della UE. Di converso la partecipazione dei Paesi europei alle imprese militari a egemonia americana non ha rappresentato un puro atto di "servilismo", ma la volontà di partecipare alla conquista di bottini coloniali precostituendo le migliori condizioni per il proprio interesse imperialistico nel momento della loro spartizione. Anche l'unità d'azione dei Paesi imperialistici maschera dunque, come sempre, la loro competizione. E i diversi Stati nazionali capitalistici, lungi dall'essere assorbiti da un'indistinta globalizzazione, costituiscono lo strumento decisivo -politico, diplomatico, militare ma anche economico- delle diverse borghesie imperialistiche concorrenti.

Peraltro proprio il quadro delle nuove contraddizioni intercapitalistiche sospinge l'emergere di nuove potenze regionali o di nuove ambizioni. L'imperialismo britannico lavora a utilizzare le contraddizioni tra USA e UE ponendosi come crocevia delle relazioni diplomatico-militari tra i due poli ai fini del proprio rafforzamento. La Russia borghese di Putin entra nel varco aperto dalla competizione tra USA ed UE per rilanciare un proprio spazio strategico internazionale. La burocrazia cinese a sua volta mira a capitalizzare il declino del Giappone per investire la propria eccezionale potenza economica in un disegno di egemonia su larga parte dell'Asia: entro un progetto di restaurazione capitalistica interna che, ancora incompiuto, pone incognite serie sulla futura stabilità sociale e politica di quel Paese.

In definitiva l'intero quadro internazionale capitalistico porta il segno dominante non dell'omogenea uniformità "unipolare", ma di una crescente instabilità potenziale.

Tesi 4 - GUERRA (torna all'indice)
La ripresa della guerra e delle guerre negli anni Novanta ha caratteri e finalità imperialistiche. Non riflette un generico "fondamentalismo del mercato globale" contrapposto al "fondamentalismo del terrore". Riflette il grande rilancio delle politiche coloniali del capitalismo, liberate dal crollo dell'URSS, sospinte dalla crisi economica internazionale, alimentate dalle stesse contraddizioni tra i diversi blocchi capitalistici. Oggi la guerra contro l'Afghanistan rientra pienamente in questo quadro. Per questo la lotta contro la guerra e "per la pace", va assunta dai comunisti come lotta di massa anticapitalistica oltre un puro orizzonte pacifista. Senza alcun avallo al ruolo filo-imperialistico dell'ONU e senza riconoscere all'imperialismo alcun "diritto di polizia internazionale".

Dopo il crollo dell'URSS, il ricorso alla guerra ha costituito uno strumento centrale di definizione del nuovo ordine imperialistico del mondo. La guerra all'Irak, alla Serbia, all'Afghanistan riflettono ad un tempo la nuova potenza dell'imperialismo e la nuova instabilità del mondo: entro una relazione contraddittoria in cui il dispiegamento della forza più criminale dell'imperialismo è anche la risposta alla sua crisi di egemonia, alla difficoltà di riorganizzare sotto il proprio controllo un assetto stabile dei nuovi equilibri mondiali.

I fatti d'America dell'11 settembre e i successivi sviluppi si collocano in questo quadro generale: e vanno analizzati col metodo marxista, non con le categorie dell'impressionismo o del pacifismo astratto.
L'atto terroristico di New York e più in generale il terrorismo panislamista non riflettono semplicemente un principio ideologico ("il fondamentalismo del terrore"): rappresentano una risposta distorta e inaccettabile alla barbarie capitalistica, in particolare alla oppressione criminale dei popoli del Medio-Oriente, a partire dalla nazione araba e dal popolo palestinese. Una barbarie la cui portata e i cui crimini a tutte le latitudini del mondo sono infinitamente più grandi del peggiore atto terroristico. Il fondamentalismo islamico è da sempre storicamente un avversario delle aspirazioni sociali e democratiche dei popoli oppressi e della nazione araba. Per questo, nel contesto dell'ordine mondiale del dopo-guerra, esso è stato ripetutamente sostenuto dalle potenze coloniali contro i movimenti di liberazione e le tendenze laico-democratiche dei Paesi dipendenti. Dopo il crollo dell'URSS il fondamentalismo islamico ha perso la propria funzionalità filo-occidentale e si è trasformato in un fattore obiettivo di destabilizzazione. Parallelamente la crescente disperazione sociale e politica di larghi settori di masse oppresse, unita alla più organica subalternità all'imperialismo dei regimi borghesi arabi, ha purtroppo trasformato di fatto il fondamentalismo nel canale distorto di una pressione diffusa di rivolta.

La reazione militare degli Stati dominanti ai fatti dell'11 settembre ha qui la propria radice. Come nel '91 contro l'Irak, come nel '98 contro la Serbia, la guerra contro l'Afghanistan non riflette un astratto "fondamentalismo del mercato" e una "risposta sbagliata" al terrorismo. Rappresenta invece la volontà di riaffermare il controllo imperialistico sul mondo contro ogni fattore possibile di ingovernabilità. Da qui il tentativo di utilizzare l'atto terroristico dell'11 settembre e le sue enormi ricadute emotive come occasione di rilancio degli interessi imperialistici in aree strategiche del pianeta.
Molteplici sono le finalità concrete dell'operazione:
a) consolidare ed estendere il controllo diretto su Medio-Oriente ed Asia centrale, zona cruciale per gli equilibri internazionali;
b) intimidire i movimenti di liberazione dei Paesi dipendenti;
c) colpire il movimento operaio internazionale, compreso quello occidentale, cogliendo il pretesto della guerra per operare massicce ristrutturazioni (con licenziamenti di massa), attaccare diritti sociali e cercare di disperdere la ripresa internazionale dei movimenti di lotta;
d) combattere la recessione economica con il rilancio delle spese militari.
Entro questo quadro di finalità comuni imperialistiche (sostenute per interesse proprio dalla Russia borghese e dalla burocrazia cinese) si conferma il quadro mobile delle contraddizioni internazionali: tra l'imperialismo americano e l'imperialismo europeo; tra l'imperialismo britannico e l'Europa continentale; tra l'area di testa dell'imperialismo europeo (Germania, Francia e Inghilterra) e l'imperialismo italiano; tra la nuova Russia di Putin e gli interessi contraddittori di USA ed Europa; tra le mire nuove della Cina e l'espansione imperialistica in Asia centrale. Ciò che ancora una volta configura non un quadro pacificato di globalizzazione unipolare ma, all'opposto, la nuova instabilità mondiale e il peso in essa degli interessi statuali nazionali e/o di area.

In questo quadro generale il PRC deve ridefinire la propria impostazione politica di fronte alla guerra. Importante e preziosa è stata ed è l'opposizione del nostro partito all'intervento militare in Serbia ed oggi in Afghanistan. Ma va superato l'approccio pacifista in direzione di una chiara battaglia antimperialistica. L'appello all'ONU, al "diritto internazionale", all'intervento alternativo di "polizia internazionale" sono stati e sono profondamente errati. L'ONU ha sostenuto e coperto lungo tutto l'arco degli anni Novanta le peggiori piraterie dell'imperialismo sino a promuovere l'odioso embargo genocida anti-irakeno. Esso non rappresenta né può rappresentare, neppure in forma distorta, la cosiddetta sovranità internazionale. In una società di classe e tanto più nell'epoca dell'imperialismo non è mai esistito e non potrà esistere un diritto internazionale neutro, al di sopra delle classi e degli Stati. Il diritto internazionale è solo la copertura giuridica degli interessi degli Stati dominanti. E l'unico diritto che gli Stati dominanti esercitano e rivendicano è il diritto a piegare col terrore ogni forma di resistenza al proprio dominio sul mondo.
Per questo i comunisti devono sviluppare la lotta contro la guerra come lotta di classe anticapitalistica ed antimperialistica al fianco dei popoli oppressi aggrediti. Non vi è alcuna "polizia internazionale" da rivendicare "contro il terrorismo"; l'unica polizia internazionale da invocare contro la barbarie del capitalismo è la prospettiva rivoluzionaria internazionale delle masse oppresse. Che è l'unica vera risposta alternativa al fondamentalismo terrorista.

Tesi 5 - UTOPIA DEL RIFORMISMO (torna all'indice)
L'idea della riforma sociale e umanitaria del capitalismo, da sempre fallita, è oggi più utopica che mai. L'idea di "governi riformatori" che in Italia, in Europa, nel mondo possano operare una riforma antiliberista in ambito capitalistico, costituisce oggi più che mai non solo un'illusione ma una trappola per le classi subalterne e i movimenti. Il sostegno che il PRC ha dato all'esperienza di governo francese della "gauche plurielle" ha costituito un errore profondo. Proprio la svolta storica del nostro tempo ripropone l'attualità di una rottura strategica col riformismo come fondamento decisivo di una rifondazione comunista rivoluzionaria.

L'attuale quadro internazionale conferma più che mai l'esaurimento di uno spazio storico riformistico.
Già l'esperienza storica di due secoli avvalora la posizione originaria di Marx e del marxismo rivoluzionario contro ogni illusione riformistica e "governativa". E smentisce nella maniera più radicale la svolta strategica impressa dallo stalinismo al movimento comunista internazionale a partire dalla metà degli anni Trenta attorno alla prospettiva dei cosiddetti "governi riformatori" o di "democrazia progressiva". Quand'anche consentiti da condizioni eccezionali di prosperità economica e da grandi movimenti di massa, i governi riformatori sono stati sempre, senza eccezione, avversarsi dei lavoratori: le stesse concessioni riformatrici, talora strappate dalla pressione di massa, sono state elargite in funzione del contenimento delle spinte più radicali dei movimenti e della conservazione della società borghese. Proprio per questo lungi dal rappresentare una fase della transizione al socialismo, i governi riformatori hanno spesso spianato la strada a svolte reazionarie o a profondi arretramenti del movimento operaio. Così è stato per i governi riformatori di fine '800, primo '900 (giolittismo); così è stato per i governi riformatori di "fronte popolare" negli anni 30 (v. Francia e Spagna). Così è stato per i governi riformatori in Europa nei primi anni 70 (v. Portogallo).

Ma tanto più oggi l'illusione governista è smentita alla radice dall'assenza di uno spazio storico riformistico. La crisi capitalistica e il crollo dell'URSS, nella loro combinazione, hanno eroso i presupposti materiali delle concessioni riformatrici in Occidente quali erano maturate nel secondo dopoguerra. Ovunque le classi dominanti lavorano a riprendersi con gli interessi quanto in precedenza avevano concesso. Ovunque i governi borghesi - siano essi di centrodestra, di centrosinistra o socialdemocratici - gestiscono le medesime politiche antipopolari, di restrizioni e sacrifici per le grandi masse. Ovunque, anche se in forme e con intensità diverse, i vecchi partiti riformisti del movimento operaio assumono culture e pose liberali in rottura con la propria stessa tradizione. Ovunque l'eventuale presenza al governo di "partiti comunisti" non solo non muta per nulla l'indirizzo strategico del governo ma corresponsabilizza quegli stessi partiti a pesanti politiche controriformistiche esponendoli al logoramento dei loro rapporti di massa.

In particolare va riconosciuto onestamente, in questo quadro, il profondo errore compiuto dal nostro partito nel sostegno all'esperienza del governo Jospin in Francia.
L'analisi proposta dal IV Congresso del PRC a sostegno della "anomalia francese" è stata smentita dai fatti. Come sono state smentiti l'elogio della legge francese sulle 35 ore e più in generale le ripetute esaltazioni del governo Jospin sul nostro quotidiano di partito ("Svolta a sinistra in Francia", "Un socialista in Europa"). In realtà il governo Jospin ha gestito e gestisce gli interessi organici dell'imperialismo francese sia sul piano interno (con il record di privatizzazioni e una politica di flessibilità a favore del padronato) sia sul piano della politica estera (con l'attiva gestione degli interventi di guerra nei Balcani e in Afghanistan). Lungi dal rappresentare un'alternativa antiliberista, esso rappresenta un governo controriformatore, basato su un liberismo temperato: ciò che spiega sia la crescita della contestazione sociale delle politiche del governo, sia la crisi drammatica del PCF che sostiene criticamente quelle politiche. L'aver assunto a riferimento la sinistra plurale francese è stato tanto più paradossale a fronte del fatto che l'unica sinistra che oggi cresce in Europa è quell'estrema sinistra francese che si oppone al governo della sinistra plurale.

Pertanto proprio la profondità della crisi capitalistica e la svolta storica del nostro tempo ripropone l'attualità di una rottura strategica col riformismo come fondamento decisivo di una vera rifondazione comunista. Non solo come recupero della posizione originaria del marxismo e di rottura reale con la tradizione staliniana. Ma come risposta necessaria oggi alla barbarie del capitalismo, alla regressione di civiltà che la sua crisi trascina.

Tesi 6 - ATTUALITA' DEL SOCIALISMO (torna all'indice)
Il rilancio internazionale di una prospettiva socialista e rivoluzionaria, nella sua complessità, è il tema centrale, sinora rimosso, dalla rifondazione. "Un altro mondo è possibile": non come riforma del capitale ma come alternativa di sistema, come socialismo. Esso non risponde ad una petizione "ideologica", né riguarda solamente l'identità dei comunisti: risponde invece all'interesse generale delle classi subalterne, dei popoli oppressi, della larga maggioranza dell'umanità.

La crisi congiunta di capitalismo e riformismo rilancia l'attualità storica della prospettiva socialista come unica via d'uscita dalla crisi dell'umanità.

Nel quadro della crisi capitalistica e del dominio dell'imperialismo, tutte le questioni decisive che attengono alla condizione del genere umano e al suo futuro, non solo non possono trovare soluzione, ma sono destinate ad aggravarsi. Di converso tutte le esigenze e domande di emancipazione e liberazione cozzano sempre più entro la morsa della crisi con la proprietà borghese e la natura borghese dello Stato.

Le domande sociali più elementari (difesa dei salari, salvaguardia o conquista del lavoro, difesa delle protezioni sociali) si scontrano ovunque, quotidianamente, con gli opposti imperativi del profitto e della competizione globale.
Le rivendicazioni nazionali dei popoli oppressi, a partire dal popolo palestinese, confliggono sempre più, tanto più dopo il crollo dell'URSS, col monopolio del controllo imperialistico sul mondo e col più stretto allineamento ad esso delle stesse borghesie nazionali dei Paesi dipendenti.
Le rivendicazioni ambientaliste sono frustrate dalla crescente assimilazione della natura al mercato capitalistico e dallo spietato abbattimento dei costi indotto dalla crisi.
Le rivendicazioni di pace e antimilitariste confliggono più che mai coi venti di guerra del capitale, con le nuove rincorse coloniali, con il keynesismo militare degli Stati imperialisti.
Le stesse domande democratiche cozzano con le restrizioni delle libertà, le nuove spinte xenofobe, l'involuzione del diritto trascinati dalla crisi sociale e dalle intossicazioni belliciste.

Su ogni terreno e da ogni versante tutte le petizioni di progresso richiamano oggi obiettivamente un nuovo ordine del mondo, una nuova organizzazione della società umana, liberata dal capitalismo e dalle sue compatibilità. Non si tratta di chiedere al capitale di essere sociale, democratico, ambientalista e pacifico. Si tratta di impugnare ogni rivendicazione di classe, democratica, ambientalista, di pace, contro il capitale per il suo rovesciamento.
"Un altro mondo è possibile". Non come riforma del capitale, del tutto utopica e impossibile invece. Ma come socialismo: come abolizione della proprietà capitalistica; come acquisizione alla proprietà sociale dei mezzi di produzione, di comunicazione e di scambio; come organizzazione di una economia mondiale democraticamente pianificata in cui lo stesso modello di sviluppo possa essere ridefinito in base al primato della qualità della vita, dei bisogni sociali, della relazione con l'ambiente e tra i popoli. Nulla è più irrazionale di un sistema economico in cui la crescita della povertà (recessione e disoccupazione) viene determinata da un eccesso di ricchezza prodotta (sovrapproduzione). Nulla è più ipocrita di una celebrata "democrazia" internazionale in cui un pugno di duecento colossi multinazionali in lotta per il controllo dell'economia del mondo concentra nelle proprie mani un potere incontrollato e incontrollabile. Solo una rivoluzione socialista può cancellare queste autentiche mostruosità.
Lo stesso sviluppo impetuoso della scienza e della tecnica (nel campo dell'informatica, della biotecnologia) pone più che mai l'esigenza di un nuovo ordine sociale mondiale. Asservite alla proprietà privata e agli imperativi del profitto, le innovazioni tecnologiche e scientifiche, fonte potenziale di nuovi orizzonti di progresso, si tramutano paradossalmente in strumenti di nuova subordinazione e di nuovo colonialismo (v. i brevetti).
Peraltro lo stesso indirizzo della ricerca scientifica e tecnologica, le sue strutture di gestione e finanziamento sono sempre più incorporati al capitale finanziario e ai consigli d'amministrazione delle grandi imprese, e quindi subordinati alle leggi capitalistiche. Solo un'economia democraticamente pianificata può dunque segnare una svolta storica nel rapporto tra l'umanità e la scienza. Solo abolendo la proprietà privata, solo affermando il controllo sociale di produttori e consumatori su "cosa, come, per chi produrre", in ogni Paese e su scala mondiale, sarà possibile liberare le straordinarie potenzialità della scienza per la vita della specie.

In definitiva il superamento della proprietà privata e del mercato - cioè l'essenziale del programma del Manifesto di Marx ed Engels - resta inevitabilmente un punto centrale della prospettiva comunista.

Certo: il recupero di questo programma generale non esaurisce, ovviamente, la rifondazione comunista. Il programma marxista va infatti continuamente sviluppato, arricchito sulla base dei mutamenti storici prodottisi e delle grandi esperienze del movimento operaio di questo secolo. Ma proprio l'aggiornamento del programma presuppone prima di tutto il suo recupero e il suo riscatto dalle profonde distorsioni di cui è stato oggetto.

Tesi 7 - IL NODO DEL POTERE (torna all'indice)
Un'economia democraticamente pianificata presuppone e richiede la conquista del potere politico da parte delle classi subalterne. Rimuovere la questione del potere, aggirare la questione della sua conquista e della rottura rivoluzionaria dello Stato borghese, significa rimuovere, al di là delle parole, la prospettiva socialista e l'idea stessa di rivoluzione. In questo senso il PRC è chiamato a superare il richiamo gandhiano alla "non violenza" come proprio riferimento culturale.

Nell'ultimo decennio diverse tendenze politico-culturali "neoriformistiche" hanno teso a teorizzare il superamento degli Stati nazionali e del loro potere come corollario del "nuovo capitalismo". Ne è scaturita l'esplicita cancellazione del tema stesso del potere politico e della sua conquista (v. Revelli), in nome del recupero più o meno aggiornato di antiche suggestioni "cooperativistiche", quale leva di "un'altra società possibile". In realtà queste teorie non solo non sviluppano il marxismo ma regrediscono a un premarxismo ingenuo, talora subalterno nelle traduzioni pratiche alle stesse politiche liberiste (v. il ruolo del Terzo settore come frequente surrogato del servizio pubblico e luogo di concentrazione di manodopera flessibile).

Invece natura e crisi del capitalismo contemporaneo e dell'imperialismo ripropongono più che mai il tema dello Stato e del potere come nodo strategico decisivo. Contro l'ipocrisia ideologica del liberismo, gli Stati nazionali e i governi borghesi che li gestiscono sono e restano un supporto decisivo del profitto: sia nella promozione attiva delle politiche di flessibilità, privatizzazione, compressione salariale e di spesa sociale; sia nell'espansione abnorme del sostegno finanziario diretto al capitale in crisi come si evince oggi sempre più scopertamente dal nuovo corso della politica economica americana. Ma soprattutto la ripresa del militarismo e le politiche di restrizioni antidemocratiche e di repressione diretta sul versante interno dell'ordine pubblico -connesse alla crisi di consenso sociale- ripropongono oggi più che mai il cuore autentico e profondo della natura dello Stato borghese: quello di "un corpo d'uomini in armi" (Engels) detentore del monopolio della violenza: contro i popoli oppressi del mondo e contro le classi subalterne nelle stesse metropoli imperialistiche. L'esperienza della repressione di Genova ne è un manifesto vissuto. Come lo sono le politiche di terrore dispiegate dall'imperialismo, in tempi di guerra come "di pace".

Nessun nuovo ordine sociale, nessun socialismo, potrà affermarsi all'ombra dell'apparato dominante dello Stato borghese. Né è pensabile che quell'apparato possa essere strumento delle classi subalterne nella transizione ad una società di liberi e di eguali. Al contrario la rottura dell'apparato statale e il suo rovesciamento rappresentano la condizione necessaria di un processo di liberazione sociale. In questo senso la rottura dell'apparato statale borghese è il principio fondante della concezione stessa della rivoluzione. E viceversa l'evocazione della categoria della rivoluzione fuori dal richiamo strategico alla rottura rivoluzionaria con lo Stato si riduce ad una "frase scarlatta" priva di ogni contenuto reale.

Il PRC è dunque chiamato a superare il richiamo gandhiano alla "non violenza" come principio culturale di riferimento. In primo luogo questo riferimento, coerentemente assunto, costituirebbe un atto di rottura con la storia stessa della lotta di classe come leva universale del progresso: ed in particolare con due secoli di lotta del movimento operaio e dei popoli oppressi contro il capitalismo e l'imperialismo. L'esercizio della forza delle classi subalterne ha costituito e costituisce nella storia del mondo un ricorso spesso insostituibile per difendere o conquistare libertà democratiche elementari, diritti sindacali, conquiste sociali, autodeterminazioni nazionali. Equiparare la violenza delle classi dominanti e la violenza delle classi subalterne in nome di un indistinto rifiuto della "violenza" in generale, significherebbe attestarsi su un pacifismo metafisico. Ma soprattutto la metafisica della "non violenza" costituisce un fattore di rottura con la prospettiva stessa della rivoluzione. L'apparato dello Stato borghese si è sempre contrapposto e si contrapporrà sempre con tutti i mezzi disponibili, alla prospettiva di emancipazione delle classi subalterne. E questo tanto più nell'epoca dell'imperialismo, del rilancio del militarismo, del diffuso rafforzamento delle tendenze repressive (v. Genova). Per questo il problema della forza resta inscritto, in tutta la sua complessità, nell'orizzonte strategico della rivoluzione. Pensare di eluderlo attraverso il richiamo filosofico alla "non violenza" significherebbe riproporre vecchie illusioni riformistiche che grandi masse e i comunisti stessi hanno già pagato a caro prezzo: come nel Cile del 1973. Forte naturalmente è la denuncia delle teorie e pratiche del terrorismo, così come, su un piano diverso, di culture e pratiche violentiste di tipo nichilistico-distruttivo (Black Block). Ma questa denuncia va mossa non da un'angolazione pacifista, tantomeno da un'identificazione nello Stato o nella sua azione repressiva, bensì da un'angolazione rivoluzionaria: da una politica protesa a costruire nelle lotte di classe la consapevolezza profonda della necessità strategica della rivoluzione come processo di massa, e proprio per questo irriducibilmente avversa a forme d'azione che invece rafforzano lo Stato, danneggiano i movimenti, distorcono l'identità stessa della prospettiva rivoluzionaria nella percezione della maggioranza dei lavoratori e dei giovani.

Tesi 8 - RIVOLUZIONE D'OTTOBRE E DEGENERAZIONE BUROCRATICA (torna all'indice)
Il recupero del programma della rivoluzione d'Ottobre è condizione decisiva della rifondazione. Ciò che è fallito nell'URSS non è la pianificazione economica dello Stato ma la gestione burocratica dell'economia pianificata. Ciò che è fallito nell'URSS non è il potere dei lavoratori ma la casta burocratica che l'ha distrutto.

La rifondazione comunista deve recuperare a pieno il programma originario della Rivoluzione d'Ottobre.

Ciò che è fallito nell'URSS non è la pianificazione economica di Stato al posto del mercato capitalistico. Al contrario l'esproprio della borghesia e la concentrazione nelle mani dello Stato delle leve della produzione ha garantito a quelle popolazioni grandi conquiste sociali, non a caso oggi nel mirino della restaurazione capitalistica. La insospettabile Banca Mondiale oggi dichiara: "La pianificazione ha dato risultati impressionanti: crescita della produzione, industrializzazione, educazione di base, cure sanitarie, abitazione e lavoro per l'intera popolazione. Nel sistema a pianificazione i Paesi del COMECON erano società con alto livello di educazione. Anche in Cina i livelli dei risultati educativi erano, e sono ancora, eccezionali se comparati con i Paesi in via di sviluppo. In URSS e nei Paesi del COMECON le aziende erano spinte ad impiegare il massimo di persone possibile, e perciò era molto più comune avere scarsità di mano d'opera che disoccupazione."
Ciò che è fallita è la gestione burocratica dell'economia pianificata, che ha espropriato progressivamente i lavoratori e i loro organismi democratici di ogni funzione di gestione e controllo, a tutto vantaggio di uno strato sociale privilegiato e parassitario. Uno strato sociale che ha concluso la sua parabola storica trasformandosi in agente della restaurazione capitalistica e, quindi, in una nuova classe borghese sfruttatrice. Un processo che ha confermato la validità dell'analisi marxista sulla degenerazione dell'URSS così sintetizzata da Trotsky nel 1938: "Il pronostico politico ha un carattere alternativo: o la burocrazia, diventando sempre di più l'organo della borghesia mondiale nello Stato operaio, distrugge le nuove forme di proprietà e respinge il Paese nel capitalismo, o la classe operaia schiaccia la burocrazia e si apre una via verso il socialismo." (Programma di transizione).

E ancora: ciò che è fallito in URSS non è la conquista del potere politico, la rottura della macchina statale borghese, il potere dei soviet. Ed anzi il superamento rivoluzionario della falsa democrazia borghese e la costruzione di una democrazia nuova e superiore ha rappresentato non solo un'esperienza storica straordinaria ma anche un riferimento decisivo, teorico e pratico, per la stessa nascita del movimento comunista di questo secolo. Ciò che è fallito al contrario, è il potere di una burocrazia che ha via via smantellato la democrazia dei soviet e del partito, trasformando la dittatura del proletariato nella dittatura della burocrazia sul proletariato. I suoi crimini efferati contro lavoratori e comunisti, nell'URSS e nel movimento comunista internazionale, non hanno rappresentato una astratta patologia del "potere" in quanto tale: ma un mezzo brutale di difesa del privilegio burocratico contro il programma originario della rivoluzione d'Ottobre. Per questo rimuovere la categoria stessa della conquista rivoluzionaria del potere politico nel nome della "rottura con lo stalinismo" significherebbe paradossalmente celebrarne, di fatto, la vittoria postuma.

Occorre invece trarre le lezioni dall'esperienza dell'URSS, rilanciando il programma fondamentale di Lenin e Trotsky e, in Italia, di Gramsci: quello che combina l'abolizione della proprietà borghese con la costruzione di un nuovo potere, della democrazia dei consigli. Una democrazia che ridefinisce natura e soggetto del potere, supera la scissione tra masse e istituzioni, abolisce i privilegi dei rappresentanti eletti, sancisce la revocabilità permanente di questi ultimi. Una democrazia che supera e rimuove quella rete di poteri legali e illegali, palesi e occulti, che restano il cuore di ogni democrazia borghese come strumento di intimidazione permanente contro i lavoratori. Una democrazia, infine, che è superiore proprio perché supera e rimuove la separatezza burocratica dello Stato borghese e perché coniuga il rispetto del pluralismo politico con il carattere pubblico della proprietà.

In definitiva, dal fallimento dello stalinismo occorre uscire non in direzione di un "socialismo di sinistra" riformistico-pacifista, ma nella direzione opposta della rifondazione comunista rivoluzionaria.

Tesi 9 - CENTRALITA' STRATEGICA DELLA CLASSE OPERAIA (torna all'indice)
La classe operaia e il mondo del lavoro, nella sua nuova composizione ed estensione, rappresenta il soggetto centrale di una prospettiva socialista. La crisi di egemonia del liberismo e l'affacciarsi di una giovane generazione di lavoratori segnano l'attuale disgelo delle lotte, che conferma e rilancia le grandi potenzialità del movimento operaio. A sua volta la classe lavoratrice potrà assolvere il ruolo storico di "classe generale" solo ricomponendo su un terreno anticapitalistico l'insieme delle domande di emancipazione e liberazione.

Nell'ultimo decennio in particolare, più in generale negli ultimi vent'anni, sullo sfondo dell'avanzata capitalistica i circoli dominanti internazionali hanno dispiegato una vasta offensiva politico-culturale tesa ad affermare la crisi strutturale o la "scomparsa" della classe operaia. Non solo la socialdemocrazia internazionale, ma vasti settori politici e intellettuali della stessa "sinistra critica" hanno accolto e riproposto, in forme diverse, questa leggenda. Lo stesso nostro partito, che pur ha respinto giustamente le conclusioni ultime di quella impostazione non ha sviluppato contro di essa una controffensiva adeguata.
La realtà mondiale smentisce radicalmente la propaganda dominante. Lungi dal registrare la scomparsa o il ridimensionamento della classe lavoratrice, lo scenario mondiale è segnato da un vasto processo di proletarizzazione che accresce complessivamente la massa sociale del lavoro dipendente modificando al tempo stesso la sua composizione. Nei paesi imperialistici la riduzione del livello di concentrazione della classe operaia industriale, colpita da una vasta offensiva capitalistica, si combina con processi di proletarizzazione di vasti settori impiegatizi nel campo dell'istruzione, dei servizi, dei trasporti, delle assicurazioni e del credito, delle comunicazioni, e con una integrazione nel lavoro salariato, nella forma particolarmente oppressiva del precariato, di settori crescenti di giovani disoccupati. Gli stessi rapporti di lavoro para-subordinato formalmente autonomo sono di fatto espressioni di lavoro salariato. Nei paesi dipendenti lo stesso processo internazionale di decentramento produttivo determina una massiccia concentrazione di classe operaia industriale, spesso sottoposta ai più classici meccanismi di sfruttamento taylorista. Complessivamente dunque la stessa classe operaia dell'industria conosce sul piano mondiale un'indubbia estensione.
Ugualmente infondata è la teoria della crisi di ruolo della classe operaia e della marginalizzazione della lotta di classe. La contraddizione tra capitale e lavoro permea come non mai tutti gli ambiti della società capitalistica contemporanea. Da un lato la crisi capitalistica spinge le classi dominanti ad una continuità della propria offensiva centrale contro il lavoro, al di là di ogni variazione del ciclo economico congiunturale. Dall'altro lato il mondo del lavoro, che pur ha subito ripetute sconfitte e un arretramento profondo negli anni 80 e 90, conserva un gigantesco potenziale di lotta: nessuna delle principali sconfitte subite negli ultimi vent'anni è stata determinata di per sé dalla cosiddetta "crisi strutturale della classe lavoratrice" bensì dalle responsabilità politiche e sindacali delle sue burocrazie dirigenti. Certo ogni volta la sconfitta subita, con l'arretramento sociale e gli effetti di demoralizzazione che ne conseguivano, si rifletteva sui rapporti di forza e spesso indirettamente sulla composizione sociale proletaria. Ma non era quest'ultima a determinarla, semmai ne era in larga parte determinata. La lotta di classe, entro la contraddizione tra capitale e lavoro, resta dunque più che mai l'asse centrale di formazione, scomposizione, ricomposizione dei blocchi sociali e dei rapporti di forza in ogni paese capitalistico e su scala internazionale.

Peraltro contro ogni profezia disfattista (v. Marco Revelli), la tendenza alla ripresa del movimento di classe segna oggi, in forme diverse, larga parte del quadro mondiale. Già negli anni 90, pur in un contesto complessivamente negativo, le mobilitazioni operaie sviluppatesi nell'Europa capitalista (Italia '94 e Francia '95) e in Asia (Corea '95) indicavano le potenzialità dell'azione sociale concentrata e di massa del movimento operaio, smentendo radicalmente le tesi sociologiche di tanta parte della letteratura "postfordista". Oggi l'affacciarsi di una nuova generazione operaia su scala internazionale si accompagna ad una ripresa più visibile e diffusa delle lotte dei lavoratori. Il "disgelo" è un fenomeno mondiale ed ha una base materiale profonda: la crescente crisi di egemonia delle politiche liberiste, dopo vent'anni, presso la maggioranza della popolazione mondiale. Le classi dominanti hanno accresciuto per vent'anni il proprio potere sui lavoratori e il proprio dominio nella società: ma a scapito del consenso sociale. Il loro potere è aumentato, la loro egemonia si è ridotta. Ed oggi la crisi di egemonia della borghesia internazionale alimenta una nuova reazione di lotta che trova nei giovani lavoratori la propria leva naturale. Milioni di giovani lavoratori e lavoratrici non si rassegnano più ad un futuro peggiore di quello dei loro padri. Ed il capitale in crisi non ha nulla da offrire loro se non un peggioramento ulteriore delle condizioni di lavoro e di vita. Questa contraddizione segnerà nel profondo tutta la prossima fase storica. Il rilancio e l'estensione delle mobilitazioni di classe, al di là delle imprevedibili dinamiche contingenti e dei possibili riflussi temporanei, tenderà a pervadere lo scenario internazionale.
Il rilancio di una prospettiva socialista e rivoluzionaria può e deve trovare la propria radice centrale in questa ripresa del movimento operaio internazionale, quale soggetto centrale dell'alternativa anticapitalistica.
Ciò non significa né deve significare un ripiegamento "operaistico-sindacalistico". Il movimento operaio internazionale potrà configurarsi come leva centrale di un'alternativa rivoluzionaria alla condizione di non limitarsi ad una pura azione sindacale o di fabbrica: ma ricomponendo su un terreno anticapitalistico e di classe l'insieme delle domande di emancipazione e liberazione, l'insieme dei soggetti portatori di tale domande su scala mondiale.
Sotto questo profilo le cosiddette teorie del "policentrismo" (abbracciate dallo stesso PRC), che assimilano la contraddizione tra capitale e lavoro all'insieme indistinto delle altre contraddizioni (ambientali, di pace, di genere...), capovolgono il nodo strategico reale. Non si tratta di accostare alla "cultura di classe" la "cultura ambientale", la "cultura di genere", la "cultura di pace" spesso assunte nella loro espressione ideologica neoriformistica. Si tratta, all'opposto, di sviluppare l'egemonia anticapitalistica e di classe sul terreno dell'ambiente, della pace, della liberazione della donna, entro un processo di ricomposizione unificante per l'alternativa di sistema.

 

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