Comunisti e movimento noglobal.
In merito ai documenti della conferenza dei Giovani Comunisti di milano. REDS. Aprile 2001.



vai al nostro commento critico come i comunisti devono stare nei movimenti

Per "movimento Seattle" intendiamo quel variegato cartello di forze che ha dato vita a varie manifestazioni che hanno tra l'altro attratto l'attenzione dei media in occasione di vertici dei potenti della Terra. Il documento 1 (del dibattito per la conferenza dei Giovani Comunisti di Milano) non esprime sostanzialmente critiche nei confronti di questo movimento e afferma che i comunisti devono portarvi i propri contenuti, ma su questi si dilunga assai poco. Al lato opposto il documento 2 critica aspramente questo movimento, chiamando i comunisti a scalzarne la direzione "piccolo-borghese".

I movimenti per il consumo critico e i comunisti

Tra gli anni ottanta e novanta si è sviluppato, in forme sempre più estese e partecipate, un associazionismo basato su una solidarietà concreta a quello che generalmente viene definito "Terzo Mondo". La forma più evoluta e di successo è stata la rete delle Botteghe del Commercio Equo e Solidale che in contatto con cooperative e gruppi di base dei Paesi latinoamericani, africani ed asiatici commercializza i loro prodotti. A loro volta queste entità sono spesso finanziate da ong occidentali e aiutate da volontari e cooperanti europei. Si è poi andata sviluppando anche in Europa un'attenzione, pure animata da un vivace associativismo, al "consumo critico", al boicottaggio di determinati prodotti, ecc. I militanti di questi movimenti hanno varia provenienza, anche se sostanzialmente vi incontriamo persone provenienti da gruppi cattolici e di sinistra radicale, che trovano in queste attività nuovi motivi di impegno. L'insieme di questa militanza, in gran parte giovanile, e' senz'altro superiore, per presenza sul territorio, capacità di iniziativa, ecc. a quella espressa nel suo insieme dal PRC, se si esclude l'attività istituzionale.

Questo associazionismo non cessa di suscitare in alcuni gruppi che si reputano marxisti una viva diffidenza. Il documento 2, quello affine alle posizioni di Falce e Martello, è un buon esempio a questo proposito. A partire dalla critica di quell'impostazione cercheremo di comprendere come invece i comunisti dovrebbero rapportarsi con i militanti dell'associazionismo legato al consumo alternativo. Nel documento 2, che ci apprestiamo a criticare, si afferma:

"Nel movimento di Seattle [...] di fatto si teorizza che il colpo principale al capitalismo non possa essere più dato nei rapporti di produzione, ma attraverso il consumo boicottandone marchi e prodotti. Questa concezione ipotizza che si possa costruire una catena produttiva e commerciale in qualche modo alternativa a quella delle multinazionali, basata su questi nessi: consumo critico - commercio equosolidale - produzioni naturali controllate da piccoli produttori. Questa proposta fa sicuramente piacere alla Coldiretti: ciò non toglie che sia semplicemente utopistica o inutile. E' impossibile risalire dall'ultimo anello della catena (il consumo) per mettere in discussione tutto il sistema. I prodotti delle grandi aziende conquistano il mercato per i propri prezzi stracciati e il loro strapotere nella distribuzione. [...] La piccola produzione naturale non farebbe altro che ripercorrere la strada che la piccola produzione capitalista ha già percorso trasformandosi in grande produzione. Non è questa la storia di oltre un secolo del movimento cooperativo? Nato da esigenze simili oggi è sempre più difficile distinguerlo dal resto delle aziende."

Il metodo con cui il documento 2 affronta questo nodo è errato. Si confondono vari piani: quello del movimento fisico (le associazioni che si muovono nell'ambito del consumo critico, alternativo, ecc.) e quello di alcune teorizzazioni (a volte dominanti e a volte no) presenti in quel movimento.

E' vero che in quel movimento vi è chi teorizza che, ad esempio, aumentando via via il numero di Botteghe del Commercio Equo e Solidale si possa sconfiggere lo strapotere delle multinazionali e imporre un tipo di società "diverso". Si tratta di concezioni che in alcun modo condividiamo. Se le accettassimo dovremmo concludere che l'ostacolo ad un mondo più giusto è proprio un consumo sbagliato (eccessivo, sprecone, distorto, ecc.) da parte della "popolazione" occidentale. Si finisce cioé per individuare nei consumatori il proprio avversario. L'imperialismo e lo sfruttamento esisterebbero perché i consumatori occidentali vogliono troppo, consumano beni superflui, e dunque in questa maniera alimentano lo sfruttamento del Terzo Mondo. E' vero che tutti gli occidentali di tutte le classi sociali sono privilegiati rispetto ai loro "omologhi" del Terzo Mondo perché in qualche modo condividono, seppur in maniera estremamente differenziata, il privilegio imperialista. Da qui a dire però che tutti insieme, indistintamente, sono responsabili dell'imperialismo, ce ne corre. Con siffatta teoria si salva implicitamente la pellaccia dei potenti, e ci si colloca in una situazione di totale impotenza: l'unica strada che rimarrebbe aperta per un reale cambiamento sarebbe quella del convincimento uno a uno dei consumatori occidentali, compito questo che ridurrebbe l'imponente ambizione di un sovvertimento dei rapporti tra Nord e Sud del mondo al successo di prediche colpevolizzanti. Il documento 1 e in generale la maggioranza del PRC non prendendo posizione contro queste teorie, spingono i propri militanti presenti nel movimento ad adaguarvisi.

Ma. Queste teorie non sono affatto condivise dalla maggioranza dei militanti di questo associazionismo. In realtà molti di questi attivisti non hanno affatto una teoria e sono impegnati su questo terreno per la semplice ragione che pare loro una maniera molto pratica e concreta di solidarizzare con le vittime dell'oppressione imperialista. Ma poniamo pure che quella che abbiamo illustrato sopra fosse l'ideologia dominante di questo movimento: non cambierebbe nulla nella necessità dei comunisti di parteciparvi e rafforzarlo. I comunisti non entrano nei movimenti alla sola condizione che questi risultino perfettamente allineati al marxismo. Perché se così facessero non troveremmo alcun comunista in alcun movimento.

La critica che viene mossa dal documento 2 (ma, come abbiamo detto, è una critica mossa anche da altri settori che si definiscono comunisti) tende a negare la ragione stessa dell'esistenza di questo movimento. Noi pensiamo invece che esso sia di per sé positivo per ciò che di oggettivo rappresenta, al di là della sua ideologia dominante: è un movimento di persone che si muovono contro lo strapotere delle multinazionali, e sono dunque portate a riflettere sullo sfruttamento del Terzo Mondo, ecc. La gran parte delle iniziative che in Italia si promuovono in solidarietà con il Terzo Mondo, ecc. non sono affatto organizzate dai comunisti, ma da questi settori, all'interno dei quali troviamo comunque molti comunisti, per fortuna.

E' giusto e sano che i comunisti siano impegnati in movimenti di questo tipo, perché ciò contribuirà, come minimo, a creare una coscienza critica, accumulerà forze, ecc. Lo stesso dicasi per le cooperative e i gruppi locali che dal Terzo Mondo riforniscono le Botteghe. Non le idealizziamo e sappiamo che dietro vi sono spesso piccole burocrazie, ecc. Ma non ci deve sfuggire il dato di fondo, e cioé che questi microprogetti sono serviti a molti gruppi contadini, di donne e di minoranze nazionali per autogestirsi, riunirsi, organizzarsi. Questa dinamica crea un ambiente favorevole alla crescita di una coscienza politica generale, che può essere poi spesa per lotte di più vasta portata.

L'esempio a negativo della storia della cooperazione in Italia, citato nel passo che abbiamo riportato del documento 2, c'entra poco. Certo oggi la COOP deve essere considerata una impresa capitalista come le altre, e ciò deve servire da monito a coloro che teorizzano che il capitalismo si "supera" con la cooperazione. Ma il giudizio che oggi diamo su quell'azienda, e altre di quel tipo, non può portarci a ritroso a maledire l'intera storia del movimento cooperativo. Un conto è respingere l'ideologia proudoniana, un altro è invece rapportarsi al movimento concreto di persone che hanno fatto la cooperazione. E allora è ben difficile negare che storicamente si è tratttao di una delle forme di organizzazione e di lotta che le classi oppresse si sono date in questo Paese e che è servita, al pari di altre, ad accumulare forze, esperienze, ecc. Ancora oggi le regioni dove questo movimento si é sviluppato hanno un tessuto sociale che tiene di più e dove la sinistra, le donne e i giovani sono più forti. Non stiamo affermando che ciò si deve alla COOP, ma che si tratta del portato storico di una esperienza che comprende anche il movimento cooperativo.

I comunisti devono essere contro il protezionismo?

Il documento 2 afferma:

"Un altro filone di pensiero nel movimento di Seattle è quello che esalta il protezionismo come via di sviluppo che difenda i paesi del terzo mondo. Come comunisti dobbiamo considerare protezionismo e neoliberismo due facce della stessa medaglia. E non sapremmo proprio dire quale delle due è più reazionaria. Il protezionismo non risolverebbe nulla per i paesi del terzo mondo. Innanzitutto protezionismo vuol dire concorrenza dei lavoratori di un paese contro quelli di un altro, esattamente come avviene col neoliberismo. In secondo luogo il protezionismo aumenterebbe i prezzi dei prodotti comprimendo ancora di più i consumi operai. La favola poi che "protezionismo" voglia dire meno colonialismo è una delle più ridicole mai sentite. Anzi: protezionismo vuol dire ancora più aggressività delle grandi potenze verso i mercati del terzo mondo. Infatti tutti i paesi capitalistici avanzati sarebbero ancora di più costretti a procurarsi direttamente dai paesi arretrati quella quota di merci che non arriva più attraverso lo scambio internazionale a causa dei dazi doganali."

I comunisti dovrebbero in ogni momento essere in grado di dire: se noi fossimo al governo faremmo questo e quest'altro. Bene, se fossimo al governo in un paese del Terzo Mondo noi che faremmo? Imporremmo alle merci di circolare liberamente? Il che significherebbe concretamente che le merci prodotte sottocosto da un Paese imperialista sarebbero in grado di entrare e di far chiudere l'industria locale. L'imperialismo nella sua storia ha proprio deliberatamente utilizzato questo strumento per asservire le economie dei Paesi coloniali e neocoloniali. Analogamente non si vede perché i Paesi dipendenti non possano utilizzare l'arma del protezionismo per difendersi. Il protezionismo non è una misura neutrale, dipende da chi lo applica. Un conto sono le guerre commerciali tra Paesi imperialisti, come quelle che spesso contrappongono Europa e USA: dovrebbero lasciarci del tutto indifferenti, quanto dovrebbe lasciarci indifferenti la concorrenza tra FIAT e Renault. Ma quando lo scontro è tra un Paese neocoloniale e un Paese imperialista, non possiamo avere dubbi a favore di chi dobbiamo schierarci. Nella battaglia tra multinazionali dei farmaci (e gli stati che le supportano) e il Sudafrica (sulla questione delle medicine antiAIDS) dobbiamo stare dalla parte di quest'ultimo, pur con tutti i dubbi che possiamo nutrire sulla sua dirigenza politica. Un Paese del Terzo Mondo ha tutti i diritti di utilizzare ogni arma di cui dispone per battere la potenza dell'imperialismo: dalla violazione del copyright alla duplicazione illegale, dall'uso di brevetti di altri all'innalzamento di barriere doganali, ecc. Negare questo diritto ai Paesi del Terzo Mondo significa nei fatti rendersi complici della spogliazione effettuata dai Paesi imperialisti nei loro confronti. L'arma del protezionismo del resto è stata utilizzata a varie riprese da direzioni nazionaliste antimperialiste, ad esempio, particolare che dovrebbe colpire i compagni di Falce e Martello che si definiscono trotskisti, anche dal regime messicano di Càrdenas (quello degli anni trenta) lodato dallo stesso Trotsky.

Passi intermedi

Il documento 2 afferma:

"Insomma il nodo centrale posto dal movimento di Seattle è a nostro avviso un altro e deve essere tagliato alla radice. E' il nodo della proprietà e del controllo. Non potrà esistere nessuna seria forma di controllo sociale sulla produzione e sul consumo fino a quando la gran parte delle risorse economiche produttive del mondo saranno concentrate nelle mani di un pugno di capitalisti. Né con i boicottaggi, né con le leggi si può imbrigliare il potere di questa ristretta élite. [...] Solo il proletariato mondiale [...] può andare a incidere su questo nodo attraverso l'esproprio delle principali multinazionali a livello mondiale. Per sottoporle al controllo dei lavoratori in un regime complessivo di democrazia operaia. Questo è quello che noi chiamiamo socialismo, ed è in ultima analisi l'unica alternativa credibile che tutt'oggi conosciamo a questo sistema."

Possiamo immaginare che cosa accadrebbe se usassimo questo metodo nel movimento sindacale? Dovremmo abolirlo perché lotta per i salari (quando va bene) invece che mettere in discussione i rapporti di proprietà. Eppure lo stesso documento 2 è, giustamente, pronto a valorizzare i parzialissimi movimenti di lotta che ci sono stati in Italia contro i licenziamenti, per il salario, contro il concorsone nelle scuole, e i cui militanti pensavano a tutto fuorché ai rapporti di proprietà. Dunque non si vede bene perché utilizzare due pesi e due misure: accontentarsi quando i lavoratori lottano per cinquantamila lire di aumento, ma esigere da tutti gli altri niente di meno che la lotta diretta per il socialismo.

Mentre il documento 1 ...

Abbiamo preso di mira il documento 2, perché ci offriva l'opportunità di precisare una serie di problematiche che periodicamente emergono nella sinistra radicale. Del resto era un po' più difficile compiere una critica circostanziata del documento 1, quello che esprime le posizioni della maggioranza, dato che nel capitolo che questo dedica al movimento Seattle ("Globalizzazione - I movimenti internazionali di lotta e la realtà locale.") non vi si trova alcuna considerazione degna di una qualche nota: non vi è una analisi seria del movimento, non una indicazione, non una critica.

Ci sentiamo dunque in dovere di sottolineare la gravità di questo fatto. Non siamo certo nostalgici di un partito e di gruppi dirigenti che "ci danno la linea", ne facciamo volentieri a meno. Pensiamo però che il partito dovrebbe essere un ambito dove, per lo meno, ci si sforza di trovare posizioni condivise. Senza elaborare indicazioni e strumenti di analisi riguardo al movimento Seattle, così come su altri piani, un giovane (ma anche un adulto) prima o poi si domanderà a che diavolo serve essere comunisti. Su come uno dovrebbe stare nei movimenti ci soffermeremo successivamente (Comunisti e movimenti), ma qui ci interessa sottolineare alcune conseguenze della non volontà di dar vita a posizioni condivise: si formano militanti che o sono totalmente interni ai movimenti, o totalmente interni al partito; non si aiutano i movimenti a crescere e a migliorare; si accentua la frustrazione dei compagni che, non vedendo alcun ruolo attivo di GC e PRC, sono portati a pensare che il problema non è l'assenza di elaborazione e proposta, ma i deficit di "immagine" e di "presenza visibile" (di qui tutte le lamentale sul ruolo delle tute bianche, ecc.). Problemi che derivano dal non comprendere che ruolo si debba avere nei movimenti.