Conferenza provinciale
di Milano dei Giovani Comunisti. Documento 2.
Il
documento 2 affine alle posizioni della rivista Falce e Martello.
Aprile 2001.
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critico i comunisti
e il movimento Seattle
vai al nostro commento critico come i comunisti devono stare nei movimenti
Dario Salvetti, Samira Giulitti (Paderno), Stefano Meacci (Cinisello), Giuseppe Lania (Sesto San Giovanni), Daniela Soggiu (Cormano), Nunzio Vurchio (Pogliano)
18/12/2000
Giovani Comunisti: un bilancio nazionale
Come sempre per i comunisti, ogni tentativo di porsi davanti nuovi compiti e analizzare nuove prospettive, non può che partire prima di tutto da un bilancio del periodo che ci lasciamo alle spalle e del lavoro svolto fino ad oggi. Prima ancora di addentrarci in particolare nel bilancio dei Gc di Milano, è necessario interrogarci sullo stato della nostra organizzazione giovanile a livello nazionale. Dal '97 ad oggi il tesseramento dei Gc è stato in continuo calo. Il '99 si è chiuso con 10.000 iscritti circa, cioè il 20% in meno del '98. Per il tesseramento 2000 non abbiamo dati precisi, ma è probabile che si registri un ulteriore calo, magari scendendo sotto la quota delle 10.000 tessere. La nostra discussione non può che partire dal cercare di fornire una motivazione a questo dato.
Si potrebbe giustificare questo calo di iscritti tirando in ballo la "democrazia malata" e il calo di partecipazione politica generale. Ma crediamo che sarebbe paradossale appellarsi alla crisi della democrazia borghese per giustificare la crisi di un'organizzazione giovanile comunista. Il rapporto tra i due processi dovrebbe essere semmai inverso.
Cosi come un'altra giustificazione per il calo degli iscritti dei Gc potrebbe ricercarsi nel fatto che anche gli iscritti del Partito sono calati. Le due cose sono effettivamente in stretto rapporto. Non era e non deve essere scontato, però, che ad un calo degli aderenti al Partito corrisponda un calo degli iscritti giovani; i Giovani Comunisti rimangono un 10% circa dell'intero corpo del Partito. Una percentuale non piccola soprattutto se messa in relazione con gli aderenti giovanili agli altri partiti. La domanda è, allora, perché questo 10%, che dovrebbe essere la parte più viva e intraprendente del Partito, non sia riuscita a giocare un ruolo di controtendenza rispetto alla crisi di tesseramento e di militanza di tutto il Partito?
La realtà è che tutt'oggi i Giovani Comunisti rimangono una struttura fumosa. Una struttura che ha - è vero - un certo grado di autonomia, ma ancora maggiore è l'autonomia del Partito nell'usarne la firma, nel determinarne il tesseramento e gli investimenti economici. Tutt'oggi, il tesseramento dei Gc nei circoli è trascurato, quasi come se la tessera giovani fosse vista dai segretari a metà tra una scocciatura ed un pericolo. Questo non lo facciamo presente per giovanilismo, per una qualche volontà di separatismo giovanile. Lo facciamo presente perché crediamo che solo facendo camminare i giovani sulle proprie gambe con un tesseramento, una vita politica e un autofinanziamento indipendente potremo creare giovani quadri del futuro, mettendo ogni giovane compagno di fronte alle reali difficoltà di costruzione della propria organizzazione, che ovviamente deve rapportarsi con il partito ma in modo flessibile senza veti né imposizioni.
Tuttavia la strutturazione non è l'elemento determinante. Anche perché una struttura di solito rispecchia il programma e i fini che un'organizzazione si dà. Il problema principale dei Giovani Comunisti rimane proprio quello di passare da una contingenza all'altra, dando l'adesione a questa o quella iniziativa, promuovendo questa o quella campagna, senza che mai sedimenti un programma chiaro e dei quadri adeguatamente formati. Se il turn-over, infatti, è già alto nel partito, nei giovani diviene addirittura disarmante. Lo stesso Coordinamento Nazionale dei Gc, che dovrebbe cercare di combattere politicamente questo turn-over, invece finisce per rappresentarlo in pieno. Dei 40 compagni eletti originariamente nel Coordinamento Nazionale nella Conferenza del '97, ne rimangono 13. Il resto del Coordinamento è stato rimpilzato a suon di cooptazioni.
Il problema dei Gc, insomma, può essere riassunto in 2 parole: programma e quadri, cioé militanza politicamente formata. L'unico modo che tutt'oggi conosciamo per cercare di darsi un programma, senza che questo venga elaborato a spizzichi e bocconi sulla base delle urgenze, è quello di fare una Conferenza nazionale dei Giovani Comunisti. Eppure l'ultima Conferenza dei Gc è stata fatta nel dicembre del '97. Da allora ci sembra ne sia passata d'acqua sotto i ponti: nel '97 il partito era nella maggioranza di Governo, e solo per fare un esempio che ci riguarda da vicino, i Giovani Comunisti lavoravano alla costruzione della Rasc. Di cose ne sono cambiate: tra il febbraio del '96 e il dicembre del '97 i Gc hanno fatto ben 2 assemblee nazionali e una Conferenza Nazionale. Dal '97 ad oggi, sono stati fatti 3 campeggi, una manifestazione e una giornata nazionale di lotta contro i McDonald's. Questo è quello che si legge sul nostro sito alla voce "Storia dei Giovani Comunisti". E crediamo sia una storia che fotografi in pieno dove la direzione dell'organizzazione voglia farci approdare. I campeggi sono importanti e sicuramente divertenti, ma difficilmente sostituiranno il ruolo di un dibattito nazionale e democratico che abitui i nostri aderenti a ragionare sul futuro e sulla costruzione della nostra organizzazione. A questo proposito non è ininfluente rammentare che la Conferenza dei giovani si sarebbe dovuta convocare ogni 2 anni.
Globalizzazione e lotta di classe
Da marxisti, non possiamo che iniziare la nostra analisi, anche in una Conferenza provinciale, dallo stato internazionale dell'economia e del capitalismo stesso. Nonostante gli strateghi del capitale abbiano pronosticato negli ultimi 10 anni "la fine della storia", "la nascita di un nuovo ordine mondiale", "la fine della ciclicità dell'economia capitalista", lo scenario internazionale che ci si presenta davanti agli occhi è ben diverso.
In ogni settore economico a livello internazionale assistiamo allo svilupparsi di fenomeni di sovrapproduzione. Questo avviene non soltanto nei settori classici dell'economia (acciaio, alimentari, ecc.) ma anche nei cosiddetti settori della new economy: telecomunicazioni, informatica, internet ecc. L'estrema finanziarizzazione dei mercati è l'altra faccia di questa medaglia. A causa della sovrapproduzione, i capitalisti tentano di saltare direttamente la fase della produzione, cercando di ricavare denaro dal denaro attraverso la semplice speculazione borsistica e finanziaria.
Con i mercati letteralmente saturi di merci e il crollo del blocco sovietico, la competizione internazionale per la conquista di ogni briciola di mercato si è fatta sempre più accanita. Ne sono un esempio a diversi livelli la guerra in Kossovo, gli scontri in Palestina, le guerre in Africa, il riaffiorare dei conflitti etnici e nazionali anche nei paesi capitalisticamente avanzati, la crisi economico-sociale nel sud-est asiatico. Ancora più significativo è il dato della ripresa del riarmo da parte delle principali potenze. Il bilancio militare Usa nel 1997 è stato di 254 miliardi di dollari, mentre nel 1999 è salito a 305 miliardi di dollari. Per dare un'idea la spesa militare media degli Usa durante la guerra fredda era (espressa in dollari del 1996) di 295,5 miliardi di dollari. Il riarmo degli Stati Uniti- costringe tutti gli altri paesi ad agire di conseguenza: la Germania prevede un aumento del 3,2% nel 2001 della propria spesa militare e il Giappone, con una svolta storica, ha iniziato a ricostituire un esercito degno di tal nome.
Nello scenario internazionale sicuramente gli Usa rappresentano una potenza enorme, senza precedenti in tutta la storia dell'umanità. Il loro bilancio militare è superiore a quello combinato di tutte le successive 12 potenze. Tuttavia, osservare solo questo aspetto del processo vorrebbe dire avere una visione eccessivamente univoca della realtà.
Guerre, controrivoluzione e rivoluzioni sono indissolubilmente legate. E' un'esigenza economica fondamentale per il gendarme a stelle e strisce, cercare di organizzare il mercato mondiale sotto la propria egemonia; e questo compito si presenta oggi sempre più difficile.
Dovunque assistiamo allo svilupparsi tra le masse di sentimenti "antiamericani": antiamericanismo che a volte si sposa con i più biechi nazionalismi, ma in altri casi rappresenta la forma più istintiva ed embrionale di un sentimento anticapitalista. Un esempio su tutti è stata la visita di Clinton in Colombia per presentare il Plan. Il presidente americano è potuto rimanere poche ore a Bogotà, scappando via con la coda tra le gambe per la situazione sociale esplosiva che si era creata attorno alla sua visita.
Questi ultimi anni non sono stati solo anni di rafforzamento dell'imperialismo e di pace sociale. Al contrario abbiamo assistito a movimenti rivoluzionari o prerivoluzionari in Albania, Indonesia, Iran, Ecuador e in generale a situazioni sociali estremamente tese in Sud Corea, Filippine, Venezuela, Perù ecc. Pochi di questi movimenti hanno trovato spazio, approfondimenti e commenti sul nostro quotidiano Liberazione che addirittura in alcuni casi ha mancato proprio di riconoscerne le caratteristiche rivoluzionarie. In compenso non ha mancato nell'accodarsi alla borghesia internazionale nel chiamare "rivoluzione" ciò che è stato oggettivamente un movimento reazionario: l'ascesa al potere di Kostunica in Jugoslavia. Negli stessi Stati Uniti abbiamo assistito a fenomeni di ripresa delle lotte sindacali (Ups, General Motors, Bell, Verizon solo per citare alcune aziende) e sociali.
Oggi più che mai la questione fondamentale che si presenta davanti ai comunisti è chi metterà in discussione l'egemonia dell'imperialismo Usa: un altro blocco di potenze capitaliste o il movimento operaio internazionale? E' evidente che il prevalere di una di queste due alternative non è indifferente. Da questo punto di vista riteniamo assolutamente sbagliate, se non nocive, le due principali posizioni che si sono sviluppate nel nostro partito, e di riflesso tra i giovani comunisti, sulla questione internazionale.
Da una parte c'è chi teorizza lo svilupparsi internazionale di un "superimperialismo", una sorta di dominio internazionale delle multinazionali avulso dallo stato nazionale. Questa tesi ci porta inevitabilmente ad appoggiare lo stato-nazione in contrapposizione alle multinazionali, dimenticando che tutt'oggi lo stato-nazione è il principale strumento coercitivo e di repressione al servizio della borghesia. Dall'altra parte, invece, si teorizza una sorta di blocco antagonista formato da Russia, Cina e altri paesi asiatici da opporsi al blocco statunitense. Questa teoria finisce per far accodare il movimento operaio internazionale a quei partiti comunisti dell'est, che da decenni hanno abbandonato la prospettiva internazionalista e che di fatto si sono accodati alle proprie borghesie nazionali diventando gli agenti della reazione capitalista. Non vediamo cosa ci sia di progressista in un partito comunista come quello di Zyuganov che marcia a braccetto con i fascisti di Panjat e sostiene apertamente la guerra reazionaria cecena.
Il risultato è in entrambi casi lo stesso: la dipendenza del proletariato dalla borghesia. Non è casuale, infatti, che entrambe queste tesi si trovino poi d'accordo sull'appoggio all'Onu o sulla concezione dell'Europa (pur chiedendo illusorie modifiche di entrambe) come polo possibile da contrapporre agli Usa.
Il movimento di Seattle e il programma dei comunisti
Un sintomo significativo delle contraddizioni che si accumulano a livello internazionale è stata proprio la nascita e lo sviluppo del cosiddetto "movimento di Seattle". Questo movimento è stato in grado di uscire dalla semplice lotta economica, per porre direttamente in discussione alcuni dei tratti fondamentali dello sviluppo del capitalismo: il continuo ravvivarsi di guerre e conflitti, il crescente divario tra paesi sviluppati e terzo mondo, la distruzione ambientale e l'impatto devastante del capitalismo sulla nostra salute. Tuttavia poche volte è stato altrettanto lucido nel proporre le soluzioni a tali problemi. Uno dei nostri compiti doveva essere precisamente rimediare a questo limite, contribuendo al dibattito con il nostro bagaglio teorico e politico.
Il "movimento di Seattle" ha un'estrema eterogeneità: eterogeneità sia sociale che politica. Anche questa colpa non può essere attribuita al movimento: è normale che un movimento nasca eterogeneo. Anche qua era proprio nostro compito intervenire nel cercare di dargli un'omogenità politica su contenuti comunisti. Certo che tale compito non potremo mai adempierlo se chiameremo ciò che è male bene, ovvero se cadremo nella fraseologia della varie "Reti" anti-globalizzazione che teorizzano che questa eterogeneità sia una ricchezza ed una forza.
Per quanto possa essere eterogeneo, un movimento finisce prima o poi per essere egemonizzato da posizioni politiche precise. Nostro compito dovrebbe essere quello di lottare politicamente perché queste posizioni siano quelle comuniste.
Nelle varie iniziative anti-globalizzazione abbiamo assistito alla partecipazione di ogni genere di forza sociale e politica: lavoratori e sindacati, studenti, disoccupati e piccola borghesia. La partecipazione di parti della piccola borghesia a questo movimento rappresenta una novità. Basta citare la partecipazione della Coldiretti, vecchio bastione democristiano, alle manifestazione di Mobiltebio. Questa novità riflette lo stato di continuo impoverimento e crisi a cui è sottoposta la piccola borghesia in competizione con la grande borghesia. E non si tratta in sé di una novità negativa: anzi è positivo il fatto che settori della piccola borghesia, un tempo bastioni dell'ordine, oggi siano in piazza a contestare il grande capitale.
Detto questo, però, il problema è ben altro. Non è tanto quello di stabilire se la partecipazione della piccola borghesia sia negativa o positiva, ma di lavorare perché questa partecipazione non avvenga su posizioni reazionarie. Il problema è precisamente: quale classe finirà per guidare questo movimento? Il ché in pratica equivale a chiedersi quale programma prevarrà all'interno del movimento di Seattle. Prevarrà il programma scientifico del proletariato, che noi riconosciamo nel marxismo, o una serie di illusioni fugaci della piccolo-borghesia come il protezionismo, il cooperativismo, il ritorno alla piccola bottega ecc.? Tale questione è fondamentale eppure fino ad oggi tutto il dibattito nazionale dei Giovani Comunisti è stato assorbito semplicemente dal quesito "ai cortei ci mettiamo le tute bianche o no?": Cari compagni, i nostri compiti in questo movimento vanno ben oltre che disquisire su caschi, scudi, gomma piuma, abbigliamento e tute.
Fino ad oggi le 2 iniziative dove c'è stata maggiore partecipazione dei lavoratori sono state Seattle e Nizza. Anzi, il successo di Seattle è stato proprio dovuto alla partecipazione dell'Afl-Cio, principale sindacato americano. Anche a Nizza è significativo come la presenza dei lavoratori non sia avvenuta sotto la pressione di una nostra campagna martellante che collegasse le questioni sindacali alle questioni politiche. I Giovani Comunisti non hanno fatto nulla di tutto questo. La partecipazione dei lavoratori è avvenuta sotto l'egida delle burocrazie sindacali costrette a portare i lavoratori in piazza a causa della pressione esercitata dai lavoratori stessi e contro la propria stessa volontà.
Dall'altra parte parecchie delle posizioni e dei metodi espressi dalle frange più radicali del movimento di Seattle nel migliore dei casi non avvicinano i lavoratori, nel peggiore dei casi li allontanano proprio. Ci pare quindi necessario tentare un'analisi rapida delle concezioni che prevalentemente vengono espresse dal ceto politico delle varie Reti di Seattle, poiché qua sta la chiave del problema: con quali programmi, tattiche, strategie si può passare da una fase di contestazione ad un'offensiva effettiva, che coinvolga la maggioranza dei lavoratori?
Nel movimento di Seattle, esiste una chiara linea di pensiero che si fonda sul concetto del "boicottaggio del consumo". Di fatto si teorizza che il colpo principale al capitalismo non possa essere più dato nei rapporti di produzione, ma attraverso il consumo boicottandone marchi e prodotti Questa concezione ipotizza che si possa costruire una catena produttiva e commerciale in qualche modo alternativa a quella delle multinazionali, basata su questi nessi: consumo critico - commercio equosolidale - produzioni naturali controllate da piccoli produttori. Questa proposta fa sicuramente piacere alla Coldiretti: ciò non toglie che sia semplicemente utopistica o inutile. E' impossibile risalire dall'ultimo anello della catena (il consumo) per mettere in discussione tutto il sistema. I prodotti delle grandi aziende conquistano il mercato per i propri prezzi stracciati e il loro strapotere nella distribuzione. Non c'è nessuna forma di consumo critico che tenga quando il lavoratore deve fare i conti col proprio salario e con la necessità di arrivarci alla fine del mese. Ammettiamo pure, per ipotesi irreale, che il consumo critico riesca a "vincere". Le multinazionali sarebbero semplicemente costrette a vendere prodotti con il marchio "biologico". Innanzitutto non ci sarebbe nessuna garanzia di questo, visto che la produzione rimarrebbe sotto il controllo della borghesia. In secondo luogo, questo non cambierebbe di una virgola le contraddizioni del capitalismo che non risiedono nel consumo, ma nei rapporti di produzione; la cattiva qualità dei prodotti deriva dalla necessità dei capitalisti di fare profitti e risparmiare sui costi. Anche trovando strane alchimie (e non ce ne sono!) per imporre una buona qualità dei prodotti, i costi verrebbero tagliati da altre parti: magari dal capitolo sulla sicurezza sul lavoro!
Continuando nella nostra ipotesi irreale di vittoria del consumo alternativo, inoltre, il settore del commercio alternativo crescerebbe. All'intemo di questo settore si aprirebbero contraddizioni dettate dalla concorrenza e il settore "alternativo" del mercato finirebbe per assumere logiche di quello "dominante". La piccola produzione naturale non farebbe altro che ripercorrere la strada che la piccola produzione capitalista ha già percorso trasformandosi in grande produzione. Non è questa la storia di oltre un secolo del movimento cooperativo? Nato da esigenze simili oggi è sempre più difficile distinguerlo dal resto delle aziende. Per quanto riguarda, poi, l'esaltazione della piccola produzione, basta ricordare che anche McDonald's era un piccolo produttore nel '47. Se la piccola borghesia, si appella alle "cose naturali" è solo perché non ha la forza economica per tagliare i costi di produzione col transgenico.
Un altro filone di pensiero nel movimento di Seattle è quello che esalta il protezionismo come via di sviluppo che difenda i paesi del terzo mondo. Come comunisti dobbiamo considerare protezionismo e neoliberismo due facce della stessa medaglia. E non sapremmo proprio dire quale delle due è più reazionaria. Il protezionismo non risolverebbe nulla per i paesi del terzo mondo. Innanzitutto protezionismo vuol dire concorrenza dei lavoratori di un paese contro quelli di un altro, esattamente come avviene col neoliberismo. In secondo luogo il protezionismo aumenterebbe i prezzi dei prodotti comprimendo ancora di più i consumi operai. La favola poi che "protezionismo" voglia dire meno colonialismo è una delle più ridicole mai sentite. Anzi: protezionismo vuol dire ancora più aggressività delle grandi potenze verso i mercati del terzo mondo. Infatti tutti i paesi-capitalistici avanzati sarebbero ancora di più costretti a procurarsi direttamente dai paesi arretrati quella quota di merci che non arriva più attraverso lo scambio internazionale a causa dei dazi doganali.
Infine una delle critiche che vengono portate agli organismi intemazionali (Wto ecc.) è quella di decidere senza essere democratici e nominati da nessuno. Verità sacrosanta, ma renderli eleggibili difficilmente li renderebbe democratici. Per i comunisti il problema sono i rapporti di produzione. Gli organismi internazionali non sono democratici perché non è democratico nemmeno il controllo della produzione. Se un organismo è formalmente democratico, ma i rapporti di produzione non lo sono, la democrazia di tale organismo rimane una finzione, uno specchietto per le allodole. Il Parlamento italiano ed europeo sono eleggibili. Eppure giocano lo stesso ruolo, su un altro livello, giocato da altri organismi internazionali.
Qualcuno potrebbe obiettare che, partecipando ai vari cortei antiglobalizzazione, mai si siano sentite tali posizioni espresse dai manifestanti. Abbiamo i nostri dubbi, ma un fondo di verità c'è: mentre il popolo di Seattle si occupa dei particolari organizzativi un pugno di intellettuali ne detta la linea dai convegni delle Reti, dalle pagine de "Le Monde Diplomatique" o attraverso i centri sociali. Il problema è che i comunisti devono partecipare al movimento antiglobalizzazione, non solo organizzativamente, ma portando le proprie posizioni puntando a scalzare l'attuale direzione.
Egemonia o contaminazione?
Insomma il nodo centrale posto dal movimento di Seattle è a nostro avviso un altro e deve essere tagliato alla radice. E' il nodo della proprietà e del controllo. Non potrà esistere nessuna seria forma di controllo sociale sulla produzione e sul consumo fino a quando la gran parte delle risorse economiche produttive del mondo saranno concentrate nelle mani di un pugno di capitalisti. Né con i boicottaggi, né con le leggi si può imbrigliare il potere di questa ristretta élite. 10 grandi banche hanno un bilancio complessivo pari al 30% del prodotto mondiale lordo. Un gruppo di 37mila imprese, con le loro 200mila affiliate, controlla il mercato mondiale. Le prime cento di esse hanno un fatturato pari al 25% del prodotto mondiale lordo. Lì sono concentrate le leve decisive dell'economia, della finanza e anche della politica Solo il proletariato mondiale -unendo attorno a sé tutte quelle altre forze sociali (disoccupati, studenti, contadini nei paesi arretrati e piccola borghesia) spinte alla rovina da questo sistema ma che per loro natura sociale non possono dare una risposta complessiva alla sua crisi- può andare a incidere su questo nodo attraverso l'esproprio delle principali multinazionali a livello mondiale. Per sottoporle al controllo dei lavoratori in un regime complessivo di democrazia operaia. Questo è quello che noi chiamiamo socialismo, ed è in ultima analisi l'unica alternativa credibile che tutt'oggi conosciamo a questo sistema.
Il compito dei Giovani Comunisti è proprio quello di far si che le idee comuniste siano egemoni in questo movimento. Non ci basta qualche riconoscimento perché "le nostre bandiere erano presenti" oppure "alcuni Giovani Comunisti erano con noi agli scontri". Ci serve un'attività propagandistica, discussione e materiale perché il marxismo sia politicamente egemone. Per noi egemonia non vuol dire mettere il cappello, ma vuol dire, come voleva dire per Marx, Engels, Lenin e Gramsci: far sposare il programma scientifico e completo del proletariato con le rivendicazioni necessariamente parziali e incomplete che sorgono da un movimento.
Non solo i Giovani Comunisti non si sono attrezzati da Seattie in poi per praticare questo tipo di egemonia, ma sono nate concezioni (per nulla nuove e originali) che vanno nella direzione opposta: quelle della contaminazione. La contaminazione si riassume a nostro parere in questo: dato il nostro ritardo, dato il successo di alcune Reti o centri sociali, data la nostra incapacità di elaborazione, non andiamo a portare posizioni nel movimento, ma a farci contaminare dalle posizioni altrui. Tutta questa teoria naturalmente si basa sulla speranza che la contaminazione sarà biunivoca: noi un po' verremo cambiati e un po' cambieremo gli altri. Non si spiega come sia possibile "contaminare gli altri", senza una nostra Conferenza programmatica, senza nessuna elaborazione o altro. Ma naturalmente stiamo chiedendo l'impossibile: sarebbe ingiusto provare ad elaborare una nostra visione, visto che dovrebbe venire dal movimento. E allora dove sta la ''biunivocità della contaminazione"? E' un gioco delle tre carte. Noi dovremmo cercare di contaminare la base di Casarini, il melting del Nord Est, quando non teniamo una nostra Conferenza e in compenso Casarini tiene le sue conferenze ai nostri campeggi nazionali?
Contaminazione, in realtà, equivale a dire che non soltanto non dobbiamo far sloggiare le attuali posizioni piccolo-borghesi dal movimento, ma dobbiamo aprire loro le porte nella nostra organizzazione giovanile. Un tempo per rivendicare determinate posizioni si stilava un documento politico e si andava ad una Conferenza. Oggi invece la Conferenza dei Giovani Comunisti nazionale è ancora in alto mare eppure i nostri dirigenti hanno già cambiato linea. Non perché siano d'accordo con queste assurde teorie: figuriamoci! Il protezionismo, la disobbedienza civile, il boicottaggio dei consumi ci sono imposti direttamente dalla necessità di contaminazione!
Siamo sicuri che tutte le nostre critiche sul movimento di Seattle, non saranno prese come critiche distruttive. Il miglior modo per far avanzare un movimento è proprio quello di cercare di vederne i limiti ed eliminarli attraverso l'elaborazione politica.
A partire da Seattle abbiamo visto più volte lo spettacolo dei "grandi" del mondo ovunque si -riuniscano, a Davos come a Washington, Praga, Nizza costretti a incontri blindati, chiusi negli alberghi e nelle sale convegni, protetti da migliaia di poliziotti in assetto da guerra, spostandosi ad ore incredibili. Sia detto di sfuggita che per quanto tale spettacolo possa essere consolante o addirittura entusiasmante, queste manifestazioni non possono essere tuttavia l'approdo finale del movimento. I padroni noi li vogliamo assediare nelle aziende e nelle scuole. E lì purtroppo molto ancora è da fare. Quello è un compito che spetta a noi giovani comunisti.
Lavoro: primi risvegli delle lotte sociali
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un bombardamento di teorie elaborate da svariati intellettuali di sinistra sulla "fine della conflittualità della classe operaia", o addirittura sulla fine della classe operaia, sulla fine del lavoro e altro ancora. Il tutto sarebbe causato dalla precarizzazione, dalle nuove forme di organizzazione del lavoro e dal rimpicciolimento delle aziende. Abbiamo subito un bombardamento nauseante sul passaggio dal taylorismo-fordismo al post-fordismo, toyotismo o che dir si voglia. Spesso queste teorie hanno trovato più ascolto nel nostro partito, tra i gc, sulle pagine di Liberazione che le stesse idee classiche del marxismo.
La realtà è che come spiega Marx nello stesso Manifesto del Partito Comunista il capitalismo è costretto in continuazione a rivoluzionare i metodi di produzione, senza che questo -ci permettiamo di aggiungere- abbia mai pregiudicato le possibilità di mobilitazione e organizzazione della classe operaia.
Negli ultimi 200 anni il capitalismo è passato da ogni tipo di organizzazione produttiva: dal lavoro a domicilio, fino ai giorni nostri, il proletariato è sempre riuscito a trovare la via della mobilitazione e della sindacalizzazione. Storicamente, ogni passaggio da un metodo di produzione ad un altro ha comportato momenti di disorientamento e teorie che preconizzavano la fine della conflittualità operaia. All'inizio del secolo si teorizzava che i lavoratori dequalificati non fossero sindacalizzabili. Prima del '68, si teorizzava che le grosse concentrazioni operaie fossero un deterrente alla lotta a causa del maggior controllo delle gerarchie aziendali sui lavoratori. Tutte queste teorie sono impressioniste: in ogni momento di riflusso sociale, salta fuori chi sostiene che cambiamenti di vario genere comportano un addormentamento definitivo del proletariato e che bisogna mettersi alla ricerca di altri "soggetti rivoluzionari". Tutte queste teorie, manco a dirlo, si sciolgono come neve al sole allo scoppio delle prime lotte operaie.
Anche recentemente si teorizzava l'aconflittualità della classe operaia asiatica. Nessuno osa più dirlo e purtroppo non sono stati i Giovani Comunisti a sconfiggere queste teorie, ma la stessa classe operaia sud-coreana e asiatica in genere con la propria mobilitazione spontanea.
La realtà è che le cause dell'attuale minimo storico degli scioperi in Italia sono da ricercare principalmente in fattori soggettivi e non oggettivi. Per la prima volta i lavoratori italiani si sono trovati con le proprie organizzazioni apertamente complici di una politica di svendita sociale. La morsa della concertazione ha messo i lavoratori di fronte al doppio compito di lottare contro il padrone e contro i propri stessi dirigenti. Per dirla con un esempio: il calo degli scioperi non è avvenuto dopo l'approvazione del Pacchetto Treu che ha precarizzato il lavoro. Il calo degli scioperi è avvenuto prima dell'approvazione del Pacchetto Treu a causa della complicità delle organizzazioni operaie in politiche borghesi. La precarizzazione del lavoro è stata conseguenza e non causa del calo degli scioperi. Il calo degli scioperi è stato a sua volta conseguenza della concertazione.
A fronte di chi ci prevedeva una classe aconflittuale, indebolita, tanto da andare alla ricerca del nuovo soggetto rivoluzionario, oggi ci troviamo di fronte ad uno scenario diverso. Basta avere la volontà di vederlo. La concertazione non si sta rompendo solo da destra, con lo spostamento a destra della borghesia. Ma si sta rompendo anche a sinistra con un primo abbozzo della ripresa della mobilitazione dei lavoratori e una sempre minor disponibilità dei lavoratori ad ingoiare altri rospi. E- questo non avviene soltanto tra i settori classici del proletariato, ma anche in quei settori considerati "nuovi" e impossibili da mobilitare. Ne sono un esempio i recenti scioperi alla Fiat, con un'adesione massiccia proprio negli stabilimenti meridionali. Per la prima volta si sono rivisti cortei interni agli stabilimenti a cui si sono uniti anche precari, Cfl e interinali. Anche alla Ducati di Bologna gli interinali si sono uniti ai "fissi" aggiungendo la rivendicazione della trasformazione di tutti i contratti in contratti a tempo indeterminato. A Bologna c'è stata anche la mobilitazione delle Promoters, uno dei settori più precari del proletariato. Si può continuare citando i docenti, i lavoratori Telecom e Tim ecc. Per non parlare poi di situazioni in cui l'ambiente tra i lavoratori è stato espresso attraverso altre forme. Come alla Zanussi con la bocciatura del lavoro a chiamata e la bocciatura del seguente accordo in alcuni stabilimenti come quello di Solaro, nonostante l'approvazione complessiva dell'accordo a livello nazionale. Ci sono esempi anche più vicini al nostro lavoro, come quello della Pirelli di Bollate dove l'ultimo contratto è stato bocciato con 324 voti contro, 4 astenuti e nessuno favorevole e dove in seguito un Giovane Comunista è stato eletto nella Rsu con il numero più alto di voti. Oppure l'Amisco di Cinisello dove, sempre per l'azione di un Giovane Comunista, si sono riusciti a far scioperare tutti i precari. O ancora si possono citare i fenomeni di sindacalizzazione che stanno coinvolgendo i call-center di diversi tipi. E non possiamo che finire questa rassegna con il caso dei lavoratori dei McDonald's: ci viene da dire che la loro presa di coscienza sarebbe stata molto più rapida se fossinno andati con volantini che spiegassero loro come si abusava dei Contratti Formazione Lavoro, piuttosto che presentarci davanti ai fast-food con lambrusco e salame. Quindi non solo non ci troviamo di fronte ad un proletariato aconflittuale, atomizzato o disgregato dalle nuove forme di produzione ma ci troviamo di fronte ad un proletariato che potenzialmente va dai settori "classici" dell'industria fino ai call center e ai McDonald's, dal nord del paese fino al sud dove il processo di industrializzazione ha creato nuovi insediamenti industriali con una classe operaia inesperta ma giovane e combattiva.
Sicuramente rimane una differenza enorme tra il processo di rottura della concertazione da destra e da sinistra. Mentre a destra, la borghesia rompe la concertazione con un piano cosciente, con una direzione soggettiva e con il favore delle proprie organizzazioni, il proletariato è costretto a cercare da solo, per successive approssimazioni, senza una direzione e contro le proprie stesse organizzazioni, la via per rompere la cappa concertativa. Si tratta di una differenza non da poco.
La sinistra Cgil si è dimostrata fino ad oggi incapace di svolgere il ruolo di direzione e organizzazione verso lo scontento che cova nelle aziende. La battaglia di poltrone, istituzionale, giocata ai Congressi e alle assemblee, invece che nelle aziende, ha portato Alternativa Sindacale e l'Area dei Comunisti spesso a prendere posizioni accomodanti su tutta una serie di scelte sindacali. In questo campo il nostro partito non è stato da meno: anche escludendo il periodo in cui stavamo in maggioranza (voto favorevole al Pacchetto Treu), rimane pur sempre la decisione incomprensibile ad esempio di astenersi sul Contratto Metalmeccanici del '98. Citiamo quella decisione non perché sia stata unica nel suo genere ma solo perché è stata la più palese, essendo stata votata direttamente dal Cpn. Dal nostro punto di vista, la costruzione di una sinistra interna alla Cgil rimane l'unica via percorribile per mettere in discussione l'egemonia della burocrazia sindacale su milioni di lavoratori. Allo stesso tempo è chiaro che i comunisti non possono affidare questa battaglia solo al prossimo Congresso Cgil o relegarla semplicemente alle assisi sindacali nazionali o regionali.
Quel che vale per l'intero Partito, a maggior ragione vale per i Gc. Non soltanto è prioritario che i Gc si dotino di un programma complessivo rivolto a giovani lavoratori, precari e non, e a giovani disoccupati, ma è necessario che i Gc in ogni città individuino alcune aziende dove svolgere lungo tutto il corso dell'anno un lavoro costante di propaganda e volantinaggio.
A nostro parere
un programma del genere non potrebbe che partire dalle seguenti rivendicazioni:
-riduzione d'orario a parità di salario, a 32 ore per i turnisti
-no al ciclo continuo; no al lavoro notturno per le donne
-salario minimo garantito per tutti i disoccupati, corrispondente ad una cifra
di circa 1 milione di lire
-trasformazione di tutti i contratti flessibili, a tempo determinato, in contratti
a tempo indeterminato
-no al lavoro interinale. Ritiro del Pacchetto Treu e nazionalizzazione di tutte
le agenzie private di collocamento interinale, per trasformarle in uffici di
collocamento pubblici gestiti democraticamente dagli organi dei lavoratori
-nazionalizzazione di tutte le aziende in crisi sotto il controllo dei lavoratori.
Rinazionalizzazione e rimunicipalizzazione di tutte le aziende privatizzate.
Quale programma per il movimento studentesco?
Prima ancora di affrontare un bilancio sul nostro intervento tra gli studenti medi, è necessario cercare di capire qual è lo stato del movimento studentesco in generale. Gli ultimi anni hanno registrato una parabola discendente e non ascendente delle mobilitazioni studentesche.
Dal '97 ad oggi a Milano ogni autunno attorno al 18-20 novembre abbiamo registrato la punta massima delle lotte. I1 20/11/'98 sono scesi in piazza circa 20.000 studenti, il 20/11/'99 ne sono scesi in piazza circa 10.000 e lo scorso 18/11 circa 5.000. Il dato è ancora più allarmante se si considera -che tutt'oggi Milano rappresenta una delle punte avanzate del movimento studentesco.
Dal 1993 ad oggi il movimento studentesco è tornato più e più volte in piazza a mobilitarsi contro l'Autonomia Scolastica e la controriforma della scuola pubblica. Ma il conto con cui si chiude questo periodo è estremamente salato: l'Autonomia Scolastica e la parità sono passate con la complicità dei partiti di sinistra, le Regioni in mano al Polo (e non solo) hanno trovato la forza e il consenso per applicare in maniera peggiorativa le misure del Governo ma soprattutto in ogni scuola l'autoritarismo da parte dei presidi e i ritmi di studio hanno toccato l'apice. Tutto ciò, ovviamente, non è una colpa da attribuire alla generosità con cui gli studenti si sono battuti contro questi provvedimenti. Anzi, se non fosse stato per il movimento studentesco, l'Autonomia Scolastica sarebbe passata già in blocco nel 1993.
La realtà è che negli ultimi anni le strutture egemoni tra gli studenti hanno sottoposto il movimento studentesco ad una continua ginnastica movimentista: autogestioni e cortei si sono succeduti spesso senza preparazione e prospettiva, con la logica più di impressionare i mass-media che di costruire una presenza duratura nelle scuole. Tale ginnastica movimentista raffrontata dagli studenti con le sconfitte subite, ha diffuso un clima di sfiducia sulle possibilità di cambiare i rapporti di forza nella scuola attraverso la via della lotta, dei cortei e delle autogestioni. Con gli ultimi autunni sono aumentati i casi di autogestioni bocciate a maggioranza degli studenti o convocate contro il parere dei collettivi. In generale si è trattato spesso di autogestioni con una partecipazione minoritaria. Siamo sicuri che non saranno mancate le eccezioni, ma qua si tratta di chiarirsi su quale sia stata la linea di tendenza generale.
Detto questo, il movimento degli studenti non è però sconfitto. Negli ultimi anni la tattica dei vari Governi è stata quella non di cercare lo scontro e la sconfitta frontale del movimento studentesco, ma di prendere il movimento per stanchezza, attendendo spesso l'estate per far passare a piccoli tasselli l'intera controriforma della scuola. Questa tattica della borghesia, apparentemente furba, avrà un costo: una prossima legislatura di destra potrebbe coincidere con un risveglio ancora più radicale delle mobilitazioni studentesche. La reazione degli studenti alla mozione Storace di censura dei libri di testo ne è un'anticipazione. Non è casuale che la destra non si stia solo adoperando per concludere istituzionalmente la distruzione della scuola pubblica, ma si stia dando da fare anche per rivitalizzare le proprie strutture giovanili per avere una base di manovra nelle scuole da contrapporre agli attivisti di sinistra.
Il movimento studentesco è la dimostrazione classica che il nostro problema non è soltanto quello di "costruire rnovimento" perché anche dove movimento c'è stato, non siamo riusciti a dare una svolta qualitativa alle mobilitazioni. I comunisti non fanno né il movimento, né le rivoluzioni. Movimento e rivoluzioni scoppiano spontaneamente per lo scontento che si accumula nella società. Il ruolo dei comunisti però è quello di far vincere i movimenti attraverso il proprio programma e i propri metodi.
La parabola discendente delle lotte studentesche, quindi, non è da imputare a qualche sortilegio abbattutosi sulle scuole. Anche qua il problema non è oggettivo, ma sta nella mancanza del fattore soggettivo, nella direzione data al movimento dalle strutture studentesche principali. Una direzione che, come già detto, ha privilegiato la visibilità e il movimento fine a sé stesso, piuttosto che il radicamento, la discussione e l'elaborazione programmatica, che sono in ultima analisi le condizioni fondamentali per un movimento studentesco vittorioso e non semplicemente testimoniale e contestativo.
Coordinamento dei collettivi: limiti e compiti
Per quanto riguarda, invece, la situazione milanese è innegabile che i Giovani Comunisti abbiano avuto un ruolo egemone nelle lotte studentesche. Non è nostro interesse sminuire questo ruolo per amor di polemica. Anzi, proprio il ruolo egemone dei Gc ci mette ancora di più sul banco degli imputati: per che cosa abbiamo usato la nostra egemonia e la nostra forza, siamo riusciti ad usarla per risolvere i principali limiti del movimento?
Nel documento presentato dal Coordinatore si fa una valutazione positiva del'attività del Coordinamento dei Collettivi Studenteschi (Ccs) pur osservando "forti limiti di collettivizzazione con il resto del Coordinamento dei Giovani Comunisti" del lavoro svolto da parte dei compagni che intervengono nel Ccs. Ci sembra che in sé questa non sia l'osservazione principale da portare ai compagni. Nel bene o nel male, il Ccs ha svolto una grossa mole di lavoro. Lavoro che lascia spazio per osservazioni ben più ampie che i semplici "limiti di collettivizzazione". Faremo molta più giustizia al lavoro dei compagni, scendendo direttamente nel merito del loro lavoro con osservazioni e critiche. Siamo sicuri che tali critiche potranno essere tanto più apprezzate, in quanto negli ultimi anni non siamo stati alla finestra, ma ci siamo impegnati nell'attività studentesca, verificando direttamente sul campo le difficoltà e i passi avanti o indietro fatti.
Oggi il Ccs può vantare una certa preponderanza nel movimento studentesco. Proprio questa preponderanza aumenta le sue responsabilità sull'esito stesso del movimento. A nostro parere errori ne sono stati fatti e limiti rimangono. La nostra speranza è che una breve analisi di tali limiti possa aiutare prima di tutto i compagni nel proprio lavoro. Uno dei limiti fondamentali del Ccs è quello di costruirsi non su basi programmatiche, ma coordinando i collettivi nelle scuole, in maniera indipendente dalla loro piattaforma programmatica, basandosi semplicemente sulla logica del "minimo comune denominatore" e sul loro nome. Si coordinano i collettivi perché si chiamano "collettivi", appunto, non perché abbiano un determinato programma. Nella stessa definizione del Ccs: "lottiamo per tutta un'altra scuola e per un altro futuro cercando di riempire tali aggettivi dei contenuti che costruiamo collettivarmente ogni giorno".
Sempre nelle parole del Ccs: "non siamo né vogliamo essere una organizzazione definita, non abbiamo nessuna aspirazione da partitino giovanile, siamo una realtà di movimento che vive della militanza, dell'impegno e delle lotte di tante e tanti studenti, compagne e compagni, collettivi delle scuole". Crediamo, invece, che i Giovani Comunisti dentro il Ccs dovrebbero lottare perché il Ccs abbia una piattaforma definita, chiaramente riconoscibile e che sia una piattaforma che definisca la natura stessa del Ccs. Non quindi una struttura indefinita, ma definita sulla base di una discussione democratica tra gli aderenti al Ccs. Altrimenti la logica con cui si costruirà il Coordinamento è appunto una logica da rninimo comune denominatore, costruendo una struttura che riunisce oggi tutti i collettivi contrari al buono-scuola, domani tutti quelli contrari alla mozione Storace. Ma gli attivisti nelle scuole non possono limitarsi a dire contro cosa lottano, devono avere un programma che li renda chiaramente identificabili agli occhi degli studenti. Il Ccs è una macchina per cortei e iniziative varie. Ma il fatto che sia eccessivamente sbilanciato nella sua attività proprio su questo terreno, senza mai fermarsi e dotarsi di una strutturazione chiara e di un programma chiaro, non può che comportare a lungo andare alcuni limiti come un approccio sloganistico o una eccessiva attenzione al gesto visibile e eclatante.
I limiti di cui parliamo sono venuti fuori a nostro parere su una questione cruciale come l'unità studenti-lavoratori. Per quanto è andata avanti la privatizzazione della scuola pubblica, l'unica via per cambiare i rapporti di forza è proprio quella di promuovere un'unità tra studenti, docenti e personale non docente, con la parola d'ordine dello "sciopero generale di tutta la scuola pubblica". Ovviamente la parola d'ordine dello sciopero generale non è una parola d'ordine per tutte le stagioni. Bisogna verificare che ne esistano le condizioni e lavorare affinché queste condizioni maturino. Il movimento dei docenti e del personale non docente è stata una novità estremamente significativa nell'ultimo anno. Una delle categorie più impantanate nella concertazione si è improvvisamente mossa. Non ci si può aspettare che siano le burocrazie sindacali a convocare uno sciopero generale di tutte le componenti della scuola. Una delle caratteristiche delle burocrazie sindacali è temere l'unificazione di differenti lotte, per paura di perderne il controllo. Cgil, infatti, non ha fatto nulla per coinvolgere gli studenti. Ha usato i pregiudizi corporativi di settori dei docenti per tenere separate le due lotte. Visto che non egemonizziamo la Cgil, ma egemonizziamo diverse strutture studentesche, è evidente che avremmo dovuto convocare le scadenze di lotta degli studenti in coincidenza con i docenti, in modo da rompere i pregiudizi corporativi tra i docenti e metterli in contraddizione con la burocrazia sindacale. Tutto questo avrebbe necessitato di un lavoro prima per rompere i pregiudizi corporativi tra gli studenti! Un lavoro che non lascia spazio per la logica del minimo comune denominatore, ma che necessita di discussioni di approfondimento e di convinzione degli studenti. Tale azione avrebbe chiaramente selezionato gli studenti che aderiscono alle strutture di movimento, privilegiando la qualità alla quantità.
Il fatto che unire studenti e docenti fosse possibile e necessario non è stato dimostrato in astratto, ma nella pratica. Al Parini, ad esempio, definito dal Corriere base cittadina del Coordinamento dei Collettivi, è stato volantinato dal collettivo un volantino titolato "unità studenti-docenti" prodotto dal Csp. Si è organizzata una riunione a scuola con la presenza di docenti e studenti, per discutere della questione. Risultato: gli studenti del Parini erano presenti, insieme ad altre 3 scuole dove si era fatto lo stesso lavoro, ai 2 cortei dei docenti del 9 e del 16 ottobre, gridando slogan in solidarietà alle rivendicazioni degli insegnanti. Tutto questo ha avuto poco spazio su giornali, comunicati stampa e altro. Poco ci importa. Peggio che abbia avuto poco spazio nel Ccs. E non perché questa azione sia stata tenuta segreta, ma perché è stata rifiutata dal Ccs stesso.
Nel documento presentato dal Coordinatore si dice che "Sarebbe auspicabile che la Commissione portasse al centro del nostro dibattito l'ipotesi di una sintesi possibile del lavoro che i compagni svolgono in strutture differenti, quali il Coordinamento dei Collettivi e i Comitati in difesa della Scuola Pubblica". Tra tutte le cose da discutere, ci sembra decisamente la meno prioritaria. Soprattutto perché una sintesi del lavoro dei compagni avviene in gran parte nella realtà quotidiana. I compagni del Ccs e del Csp lavorano in alcuni casi negli stessi collettivi nelle scuole, il 20 novembre del 1999 il Csp e il Ccs hanno promosso in maniera unitaria un corteo. Addirittura nel 1997, come Csp eravamo contrari allo scioglimento del Coordinamento nella Rasc! I fatti ci hanno dato ragione, ci pare. In tutti i cortei del Ccs, il Csp in base alle proprie forze e possibilità ha sempre promosso la presenza studentesca con un proprio spezzone. Questo non vuol dire che non siano mancate e non mancheranno differenze di vedute. Ci sembra normale. Ma mai tali divergenze hanno comportato divisioni dello stesso movimento studentesco. Ma questa sensibilità per l'unità del movimento, non ci impedisce e non ci impedirà mai di dire francamente tutti i limiti che vediamo nel Coordinamento dei Collettivi.
I Giovani Comunisti
dovrebbero lottare perché nella dialettica democratica del Ccs prevalga
il proprio programma. Ed è su questo che devono misurare la propria egemonia
su questa struttura.
Oggi manchiamo, però - dettaglio non da poco - di un nostro programma
organico sulla scuola. A larghe linee crediamo che dovrebbe essere il seguente:
- gratuità dello studio (dall'iscrizione a scuola, fino ai libri di testo
e ai mezzi di trasporto) e potenziamento della scuola pubblica (costruzione
di nuove strutture, ristrutturazione di quelle vecchie)
- assunzione di tutti i docenti precari, nomina delle cattedre sin da settembre
- per una scuola democratica: abolizione della figura del preside-manager, sostituendolo
con un coordinatore amministrativo eletto tra il corpo docente, da un'elezione
democratica di studenti e
lavoratori della scuola
- ritiro di tutte le misure legislative sulla scuola approvate dal '95 in poi
- per una scuola laica; abolizione dell'ora di religione.
In conclusione crediamo che i Giovani Comunisti dovrebbero dedicarsi alla costruzione di una Struttura nel movimento studentesco che cresca e trovi adesioni su basi programmatiche. Tale logica deve essere riproposta anche a livello nazionale, dove è ora di finirla di convocare "forum delle strutture di movimento", destinati a trovare accordi su pochi punti qualificanti e a naufragare non appena si scende nel concreto della lotta, con tutti i problemi complessi che essa pone. Il Comitato in difesa della Scuola Pubblica si è posto appunto tale compito: sviluppare realtà nelle scuole e a livello nazionale che difendano programmi e metodi omogenei di lotta. Solo una struttura nazionale di questo tipo potrà svolgere un ruolo di direzione politica del movimento studentesco a livello nazionale, permettendo al movimento stesso di vincere colpendo nel punto decisivo al momento decisivo su un programma comune.
Università: il motivo degli arretramenti
Dal movimento della Pantera dell'inizio anni '90, non si sono più registrate mobilitazioni di massa all'università. Le cause del riflusso vanno proprio ricercate nella sconfitta della Pantera. A differenza del movimento dei medi del'93, il movimento degli universitari è terminato con una chiara sconfitta in campo aperto. Da allora non soltanto il processo di privatizzazione dell'università è proseguito rapidamente, ma non si è più venuta a creare tra gli studenti una massa critica in grado di opporgli resistenza.
Il documento del Coordinatore descrive la situazione universitaria a Milano come una situazione di arretramento: "abbandono dell'iniziativa politica in alcune facoltà dove il numero dei componenti del collettivo è ormai troppo esiguo". Riguardo ai collettivi si dice poi: "Molti di questi stentano a riconoscersi in un carattere identitario forte e scontano la mancanza di memoria politica". La domanda a riguardo è: cosa abbiamo fatto noi perché i collettivi sviluppassero un carattere identitario ed una memoria politica, visto che in diversi collettivi eravamo proprio noi la componente egemonica? A nostro parere è stato fatto poco o nulla.
I collettivi universitari sono stati costruiti con la stessa logica malsana del minimo comune denominatore. Tale logica ha trovato un'espressione addirittura ufficiale nell'ultimo seminario tenuto dal Coordinamento dei collettivi universitari dove si è ufficializzata la logica del "caso per caso". In breve il Coordinamento dei collettivi universitari si è imposto di non darsi nessun programma fisso, nato dalla sintesi della discussione democratica, ma di decidere caso per caso. Il risultato di questa logica è evidente: alcuni collettivi possono trovarsi d'accordo con l'obbligo di frequenza o con forme di numero chiuso e altri invece possono fare iniziative contro tali misure. Il tutto senza mai minare l'unità del coordinamento, che quindi finisce per esistere sulla carta ma nella realtà si rivela un'accozzaglia di attivisti che marciano in direzione diversa.
Tale metodo di costruzione è stato applicato anche ai singoli collettivi, che sono cresciuti come gruppi di attivisti indefiniti, uniti spesso dall'avversione verso l'Udu. Questo tipo di collettivi si è rivelato utile ad azioni eclatanti, di mera visibilità, ma difficilmente sono potuti resistere alla logica degli avvenimenti.
Il caso delle elezioni del Cnsu ci sembra esemplare. Il coordinamento universitario aveva deciso di non presentarsi alle elezioni del Cnsu per esiguità di forze. La decisione, giusta o sbagliata che fosse, -fu presa in una riunione abbastanza ampia. Ma chi non era d'accordo con la decisione finale convocò una riunione per la mattina seguente, senza avere il tempo di avvertire tutti i militanti. Alla riunione si presentarono 5 compagni e con una votazione finita 3 a 2 venne rivista la decisione presa. Queste sono le delizie democratiche dei "coordinamenti ampi e indefiniti".
Dopo essersi diviso sulla questione Cnsu, il collettivo antifascista della Statale si è sfasciato subito dopo la guerra in Kossovo, cioè subito dopo un periodo di rivitalizzazione dell'università.
Non ci sembra adeguato, quindi, cercare di trovare giustificazioni alle nostre difficoltà sulla base di spiegazioni oggettive del tipo: "il soggetto universitario è disgregato" oppure "è in crisi la forma collettivo" ecc. Sicuramente dopo 10 anni di Autonomia Universitaria, è cambiato il livello e la composizione sociale della frequenza all'università. Ma esagerare tale dato sarebbe univoco. Innanzitutto i figli dei lavoratori in università continuano ad esserci seppur in percentuale inferiore. In secondo luogo, le possibilità di creazione di un movimento degli universitari, oggi come in passato, non dipendono da questioni sociologiche come la composizione sociale degli iscritti all'università. Le lotte universitarie tra il '67 e il '69 non sono scoppiate perché gli atenei erano pieni di figli dei lavoratori. Prendendo esempi internazionali più recenti: la rivoluzione in Albania del '97 è iniziata con gli universitari, così come quella del '98 in Indonesia e quella del '99 in Iran. Senza poi dimenticare l'esperienza di lotta dell'Unam in Messico. Qualcuno dovrebbe sinceramente dirci se crede che in Messico, Indonesia, Iran, Albania ci siano più figli dei lavoratori iscritti all'università che in Italia. E' evidente che questa non può essere la nostra chiave di lettura.
Il problema non è oggettivo: ancora una volta è soggettivo. Anche qua non ci avvaliamo solo di dimostrazioni teoriche, ma di dimostrazioni pratiche sul campo. Nel vuoto della Statale di via Festa del Perdono, considerata facoltà morta agli occhi di diversi attivisti di sinistra, in tre mesi si è sviluppato il Collettivo Pantera, aggregando immediatamente una ventina di studenti. Il Collettivo Pantera ha chiarito subito le proprie finalità politiche, dandosi un programma ed uno statuto. Il programma del Pantera è un programma con rivendicazioni precise che parte dal rifiuto della controriforma universitaria, proponendo agli studenti degli obiettivi transitori su cui lottare. E' un programma che parte dalle contraddizioni che lo studente vive tutti i giorni, per collegarle al processo più ampio di smantellamento dell'università pubblica. Il collettivo ha norme altrettanto elementari: delle discriminanti d'adesione, si basa sull'autofinanziamento e sull'elezione dei responsabili al suo interno.
La situazione all'università comunque non è morta quanto sembri: piccoli segnali di risveglio covano sotto la superficie. Oltre alla nascita del Collettivo Pantera, citiamo la mobilitazione a Scienze Politiche e il clima di scontento che si respira a medicina. A livello nazionale poi ci sono stati casi di lotte per il diritto alla casa a Parma e a Cosenza, senza contare iniziative varie svolte in piazze più "tradizionali" come Firenze e Roma. Tutto questo potrà essere raccolto, se i Giovani Comunisti sapranno abbandonare logiche spotaneiste di costruzione dei collettivi. Persino l'Udu, con una linea moderata e concertativa, è riuscita in questi anni a recuperare terreno in facoltà dove noi l'abbiamo perso. Nel Congresso dell'Udu del '99, l'Udu dichiarava di vedere Milano come una piazza impenetrabile. Oggi può vantare un certo gruppo di attivisti alla Statale stessa.
Bilancio e compiti del Coordinamento prov. dei Giovani Comunisti
Il coordinamento provinciale dei Giovani Comunisti non ha alle proprie spalle un'attività esaltante. Dal '95 ad oggi le riunioni, gli attivi e le commissioni sono state numerose. L'attività risultante è stata però molto inferiore alla quantità di riunioni fatte.
Non solo il coordinamento provinciale dei Giovani Comunisti non è riuscito ad avanzare, ma al contrario i passi indietro hanno di lunga sorpassato i passi avanti. I progetti di giornalino, archivio e formazione politica non sono gli unici rimasti incompiuti. All'università, come si è già detto, il passo indietro è stato più vistoso. Ma anche nel caso dei medi, il rapporto tra Coordinamento provinciale dei Gc e Coordinamento dei collettivi non è mai stato tanto problematico. Il caso del mercatino del libro usato ceduto questo settembre al Coordinamento dei collettivi è significativo. Il settore lavoro e territorio sono inattivi da diverso tempo.
Sicuramente in quasi 4 anni non sono mancate le eccezioni positive. Crediamo però ci sia poco da discutere sulla negatività della linea di tendenza generale.
Ma la cosa peggiore è che spesso il coordinamento provinciale dei Giovani Comunisti non è stato riconosciuto nemmeno dagli stessi Giovani Comunisti. Crediamo, infatti, che siano più d'uno i circoli dove i giovani abbiano portato avanti attività e iniziative, senza considerare produttiva la collaborazione del Coordinamento Provinciale stesso. Fra tutti gli insuccessi, questo è sicuramente il peggiore. Il motivo di questi arretramenti è squisitamente politico. Gli errori fatti a nostro parere li abbiamo già espressi nei paragrafi precedenti. Tuttavia, qualcosa si può dire anche sul funzionamento organizzativo del coordinamento.
Il Coordinamento provinciale dei Giovani Comunisti era stato eletto nel '97 per diventare un organismo composto da 40 compagni. A dire il vero questo traguardo non è mai stato raggiunto. Nemmeno pochi giorni dopo la fine della Conferenza il coordinamento ha mai visto tale partecipazione. Il turn over, gli abbandoni politici e la scissione hanno fatto la loro parte. Ma la realtà è che tale progetto era improbabile sin dall'inizio.
Il fatto di avere 40 compagni nel coordinamento nasceva dall'esigenza di includere praticamente un giovane compagno per circolo all'interno del coordinamento stesso. Tale esigenza derivava dal tentativo di legare in tutto e per tutto il coordinamento dei Giovani Comunisti ai circoli. Curiosamente il risultato ottenuto è stato opposto. Privilegiando infatti la quantità alla qualità, il coordinamento è stato incapace di attivare i circoli sulla questione giovanile. Invece i circoli attivi sulla questione giovanile hanno spesso fatto volentieri a meno della collaborazione di un organismo come il "coordinamento dei 40".
Alla luce dell'esperienza riproporre la stessa ricetta sarebbe miope. E' necessario che i Giovani Comunisti di Milano si dotino di un coordinamento snello, di massimo 20 compagni, basato sulle capacità politiche e non sulla rappresentanza di circolo. Non abbiamo bisogno di un Cpf dei piccoli, ma di un organismo che con la propria elaborazione politica dia indicazioni migliori ai circoli permettendo loro di attivarsi effettivamente sulla questione giovanile. Un coordinamento di 15-20 compagni non nasce, quindi, dall'esigenza di precludere la partecipazione dei compagni. Un organismo snello che sviluppi meglio la propria discussione, infatti, permetterebbe anche di convocare attivi più preparati e in generale di migliorare la qualità dell'attività di tutti i giovani comunisti.
Giovani Comunisti: rivoluzionari del futuro
"Qualsiasi partito rivoluzionario trova anzitutto un appoggio nella giovane generazione della classe in ascesa. La senilità politica si esprime nella perdita della capacità di trascinare la gioventù. I partiti borghesi eliminati dalla scena sono costretti ad abbandonare i giovani alla rivoluzione o al fascismo. Il bolscevismo nell'illegalità fu sempre il partito dei giovani operai. I menscevichi si appoggiavano sugli strati superiori e più rispettabili della classe operaia non senza trarne motivo di fierezza per guardare dall'alto in basso i bolscevichi. Gli eventi mostrarono spietatamente il loro errore; al momento decisivo i giovani trascinarono gli uomini maturi e persino i vecchi". Lev Trotsky, La Rivoluzione Tradita.
A 94 anni dalla rivoluzione d'ottobre e a 153 anni dal Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, il comunismo è più attuale che mai. Non soltanto si moltiplicano le contraddizioni del capitalismo, ma le condizioni oggettive per la creazione di una società socialista basata sulla pianificazione sono molto più mature di quanto lo fossero nella Russia del '17. I due becchini del capitalismo indicati da Marx "il proletariato e la sovrapproduzione" sono entrambi all'apice del proprio sviluppo storico. Ogni progresso tecnologico introdotto dal capitalismo stesso non fa che aumentare le forze produttive. Ogni aumento delle forze produttive non fa che cozzare ancora di più con i limiti imposti dalla proprietà privata alle stesse forze produttive.
I propagandisti borghesi hanno dedicato molto tempo ultimamente a spiegare le qualità rivoluzionarie di internet sull'economia capitalista. Sono arrivati a sostenere addirittura l'assurdità che internet possa eliminare la ciclicità del capitalismo e le crisi di sovrapproduzione. Al contrario: internet permette sicuramente alle aziende di aumentare la produttività, ma ogni aumento di produttività si riflette in un aumento della disoccupazione. Ogni aumento della disoccupazione peggiora il fenomeno della sovrapproduzione. Non solo internet non risolve nessun problema del capitalismo, ma addirittura ha preparato una base ancora più solida per il socialismo. Permettendo una rapida circolazione delle informazioni, permette anche una pianificazione economica più adeguata.
In passato i riformisti si sono potuti servire delle riforme concesse dal capitalismo per sviare il movimento operaio da fini rivoluzionari. Oggi la situazione è differente: l'assenza di margini economici per le politiche riformiste porta gli stessi partiti riformisti a fare una politica di controriforme. La conseguenza è il continuo logoramento dell'egemonia dei partiti riformisti sul movimento operaio. Ed è questo elemento che deve farci guardare con fiducia al futuro.
Detto questo, è sempre stato chiaro come il capitalismo non cadrà da solo. Il socialismo è inevitabile in quanto tappa storica, ma è inevitabile solo nella misura in cui esista un partito comunista in grado di dirigere alla vittoria una rivoluzione. Questo è il compito storico che abbiamo di fronte. Ma per tale compito storico è necessario formare un'organizzazione giovanile di attivisti marxisti politicamente preparati. E questo non potrà essere ottenuto se non recuperando sistematicamente l'enorme patrimonio storico del marxismo. Eppure nulla di tutto questo è fatto. Scriviamo dopo 10 anni dalla fondazione del nostro partito, non dopo 10 mesi.
L'interpretazione dell'Urss e 150 anni di movimento operaio sono spesso liquidati con la teoria dei "diversi marxismi". Il ritorno a Marx è un ritorno a parole, ma soprattutto un ritorno che sembra più preoccupato di cancellare Lenin che di tornare effettivamente a Marx. Stalin è criticato con imbarazzo (e come potrebbe essere altrimenti!), ma poco è fatto per dare una visione scientifica della degenerazione dell'Urss. Il primo numero di Antagonismi, inserto teorico di Liberazione, è una testimonianza di quello che diciamo.
Così la spiegazione di Marx e della nostra storia, viene spesso lasciata a professoroni universitari, sedicenti marxisti, che propinano ai giovani una pappetta cattedratica di comunismo.
Non consideriamo il socialismo un compito da rinviare ad un futuro remoto. Oggi il nostro numero esiguo e le nostre difficoltà possono farlo sembrare tale. Ma l'epoca del riformismo è storicamente sorpassata. L'epoca dello stalinismo anche. Ci sono tutte le condizioni per un recupero delle genuine tradizioni marxiste e delle genuine tradizioni dell'ottobre. La necessità di abbattere questo sistema sembra oggi una consapevolezza di pochi. Ma il capitalismo stesso e i tradimenti dei riformisti costituiscono una scuola di vita per tutti i giovani e per tutti i lavoratori. La consapevolezza della necessità di abbattere il capitalismo tornerà ad essere una consapevolezza di massa. Non soltanto dobbiamo lavorare perché questo avvenga il prima possibile, ma dobbiamo lavorare per farci trovare pronti per un momento del genere. Le condizioni per questo esistono: si tratta di costruire la nostra organizzazione giovanile come un'organizzazione di giovani rivoluzionari, evitando di imbrigliare i giovani in logiche istituzionaliste ed aiutandoli superare un naturale infantilismo di sinistra. A chi ci dice che questa strada è troppo lunga, non possiamo che rispondere che è l'unica. E se poi è davvero così lunga, conviene iniziare a percorrerla subito, senza cercare inesistenti scorciatoie o senza rimandare ulteriormente il nostro cammino.