La primavera degli insegnanti.
Bilancio
del movimento degli insegnanti contro il concorsone. Di Danilo Molinari. Settembre
2000.
Come tutti sanno
la scuola è cominciata con la novità dell'autonomia, che interessa
e colpisce tutti i lavoratori della scuola. Benché non siano assolutamente
trascurabili, anzi per certi versi sono più gravi, le difficoltà
del personale ATA, in questo articolo ci occupiamo però solo della categoria
docente, chiamata a una dura prova di resistenza e di prosecuzione delle battaglie,
dopo l'esperienza della lotta al concorsone, di cui cerchiamo di stilare un
bilancio critico e di individuare le prospettive future.
Fin dai primi giorni del nuovo anno scolastico i docenti si sono trovati di
fronte le novità previste ma nonostante ciò dirompenti connesse
con la piena attuazione dell'autonomia, che si vanno ad aggiungere ai diversi
problemi pendenti: l'annosa questione salariale ancora irrisolta; l'individuazione
di funzioni obiettivo, embrione della formazione di un ceto separato di insegnanti;
organi collegiali sviliti nei fatti con l'avallo del consiglio di stato e dei
sindacati confederali; la privatizzazione galoppante dell'educazione; l'erosione
costante degli ambiti di democrazia nella scuola, che vengono relegati nel sistema
delle relazioni sindacali ancora incompiuto nella definizione della rappresentanza;
i dirigenti scolastici arroganti e aggressivi, intenzionati a condurre la scuola
con sistemi decisamente autoritari. Tutti questi problemi sono resi ancor più
drammatici dalla mancanza di indicazioni unitarie sia nell'interpretazione delle
norme sia, soprattutto, nell'azione politica e sindacale. C'è una sorta
di attendismo, di titubanza anche tra le diverse sigle che hanno partecipato
alla mobilitazione della primavera 2000, aldilà dei proclami. Si è
in fase di trattativa per gli aumenti salariali, ma intanto avanzano come un
rullo compressore i nuovi assetti dell'intero sistema scolastico senza che vi
sia la possibilità di produrre una difesa compatta, una mobilitazione
coordinata su questioni fondamentali, sulle quali pesa però la mancanza
di un grado apprezzabile di omogeneità di valutazioni e di convinzioni,
poiché non c'è mai stato un reale coinvolgimento e un franco dibattito
all'interno della categoria su di esse.
Eppure una prospettiva differente s'era potuta intravedere nel movimento degli
insegnanti dei primi mesi del 2000, che oltre ad aver dato un segnale forte
di compattezza della categoria su un aspetto rilevante della questione salariale,
aveva cercato di avviare un dibattito critico sull'intera questione scuola in
Italia, che vedesse come protagonisti chi in prima persona nella scuola opera
e partecipa.
L'analisi delle vicende che hanno contraddistinto i 5 mesi di vita del movimento
degli insegnanti può aiutare a comprendere le cause dell'impasse attuale,
non dissimile da quella della tarda primavera scorsa.
Sino alla fine del 1999 si respirava nella scuola da almeno un decennio un clima di depressione, frustrazione, impotenza. Su questo si innestava, favorita una insistente campagna mediatica, l'introduzione di "riforme" passate sulle teste dei lavoratori della scuola senza che si producessero proteste significative: il riordino dei cicli, l'autonomia, i presidi manager, il finanziamento pubblico alle scuole private. Nel 1999 è stato siglato il peggior contratto per la categoria, che ne sanciva la frantumazione e avallava la gerarchizzazione nei rapporti di lavoro. L'anno precedente era stato caratterizzato dal blocco illegale dei pensionamenti. Le minoranze variamente collocate a livello sindacale e che si erano battute contro questa offensiva su più fronti, si erano trovate spesso di fronte una categoria scontenta ma sostanzialmente passiva. Ma in poco tempo le cose sarebbero cambiate e intorno al concorsone si sarebbe coagulata l'insoddisfazione e la rabbia degli insegnanti, repressa in tutti questi anni.
Ancora fino a gennaio
del 2000, molti pensavano che la parte più indigesta del contratto, l'art.29,
non sarebbe mai stata applicata. Il Ministero però, confidando nella
passività della categoria veicolata dai confederali e dallo SNALS, ha
emanato i regolamenti attuativi per procedere alla selezione che avrebbe comportato
i famosi 6 milioni di aumento per il 20% in base al merito. Si è materializzato
allora rapidamente il fantasma del concorsone, e gli insegnanti hanno cominciato
a sollevarsi utilizzando tutti gli spazi che si offrivano loro. In diverse città
d'Italia, sindacati extraconfederali, minoranze confederali, altri soggetti
e gruppi spontanei di insegnanti hanno raccolto e organizzato il dissenso e
promosso assemblee e iniziative varie. Migliaia di fax e di e-mail hanno inondato
il ministero e i siti internet messi a disposizione da sindacati e organi di
stampa. Nelle scuole si raccoglievano firme contro il concorsone, si indicevano
assemblee che si concludevano con mozioni contrarie al concorsone. Risonanza
alla protesta veniva poi data dagli organi di stampa: l'imprevisto subbuglio
creato dagli insegnanti faceva notizia. Essi però ancora non si rendevano
conto della propria forza e più che a bloccare il concorsone pensavano
alla maniera più idonea per boicottarlo: disertare? presentarsi in massa?
far iscrivere anche i non aventi diritto? ...
Il 2 marzo però Berlinguer dichiarava che il concorsone sarebbe "slittato".
Il piccolo cedimento era dovuto alla forza della protesta e aveva l'effetto
di rilanciarla: era la dimostrazione che si poteva anche vincere, e quindi la
situazione si radicalizzava: ai primi di febbraio la parola d'ordine da tutti
accettata è: affossare il concorsone! Allo stesso tempo si generalizza
la convinzione che si può anche imporre l'abrogazione dell'art.29. Acquista
peso la prospettiva della partecipazione allo sciopero del 17 indetto da Gilda,
Cobas, Unicobas, Cub. Dopo il LA dato da queste organizzazioni con le loro iniziative,
in questa fase sono gli insegnanti in prima persona ad organizzare la protesta
in maniera unitaria e dal basso. In molte città si formano coordinamenti
fra scuole lanciati da assemblee a cui partecipano migliaia di insegnanti. Queste
iniziative destano preoccupazioni: i mass media non riportano più alcuna
notizia e considerano risolta l'intera questione con l'annuncio dello slittamento.
Il silenzio stampa ha l'effetto di spingere gli insegnanti a far sentire la
propria voce con altri mezzi, a tenersi in costante comunicazione tra loro su
tutto il territorio nazionale con aggiornamenti quotidiani e addirittura di
ora in ora. Così, facendo ampio uso delle moderne tecnologie (e-mail,
apertura di siti internet autogestiti, ecc.), sono gli stessi coordinamenti,
oltre che i sindacati promotori, ad organizzare concretamente lo sciopero. L'ondata
cresce al punto tale che i sindacati confederali, CGIL in testa, nel tentativo
di arginarla e di controllare la propria base che anch'essa scalpita, promuovono
una serie di attivi di delegati e iscritti. La partecipazione è grandissima
e il dissenso dalla linea del sindacato talmente ampio da apparire quasi unanime.
Anche chi condivide la filosofia di fondo delle riforme berlingueriane, chi
si autodefinisce "di destra" non accetta la piega che hanno preso,
e in tanti adeririranno allo sciopero proclamato dagli extraconfederali. I segnali
arrivano anche a Berlinguer che il 12 febbraio decide un ulteriore passo: l'annullamento
del concorsone. Il movimento incassa il passo indietro, ma non si fida. Una
serie di dichiarazioni del Ministro svelano a tutti le sue reali intenzioni:
far fallire lo sciopero del 17 per poi ripresentare con qualche ritocco l'art.
29. Tra l'altro dietro l'angolo ci sono le elezioni amministrative.
Lo sciopero a tal punto è assolutamente inevitabile e si dimostra un
successo senza precedenti. Lo stesso ministero fornisce una cifra sicuramente
al ribasso, ma comunque significativa: 40% di adesioni. Le manifestazioni sono
altrettanto imponenti: decine di migliaia al corteo di Roma, oltre 5.000 a Milano
e altrettanti a Torino, e poi ancora cortei e sit-in a Bologna, Venezia, Catania,
ecc.
La compattezza
della categoria, l'unità di intenti frutto di una mobilitazione in larga
misura autonoma da ogni appartenenza in questa fase sono più forti della
eterogeneità di posizioni presenti nel movimento e dei tentativi di egemonizzarlo
messi in campo dalle diverse sigle sindacali. In una realtà come quella
di Milano, ad esempio, dove la sola Gilda, tra le organizzazioni promotrici
della protesta, poteva contare su una struttura di un certo peso e su un discreto
consenso nella categoria, il Coordinamento regionale degli insegnanti è
praticamente sinonimo di movimento. All'atto della sua costituzione, il 9 febbraio
in un'assemblea autoconvocata in un istituto superiore di Milano, sono presenti
oltre un centinaio di insegnanti in rappresentanza di una cinquantina di scuole,
di tutte le sigle sindacali, Gilda e confederali compresi, nonché moltissimi
insegnanti senza alcuna tessera. E' un movimento quindi fortemente eterogeneo,
che trova la sua coesione nell'autorganizzazione e in pochi ma unanimi obiettivi
di lotta, primo fra tutti l'opposizione al concorsone e l'abrogazione dell'art.
29 Nella giornata del 17 febbraio è la piazza a imporre ai dirigenti
un corteo unitario, come chiesto dal Coordinamento, quando gli organizzatori
non erano riusciti a trovare un accordo e di cortei ne erano previsti addirittura
tre: uno della Gilda, uno della Cub e uno del Coordinamento milanese. Era già
implicita in questo arroccamento di vertice l'impasse che poi avrebbe ostacolato
lo sviluppo del movimento. Tutte le organizzazioni sindacali che hanno promosso
le mobilitazioni contro il concorsone e l'art. 29, con modalità differenti,
hanno cercato di impedirne ogni possibilità di crescita autonoma, o chiamandosi
fuori (Gilda) o proclamando sé stesse come il movimento (Cobas). Tutte
cercando di cogliere l'occasione per acquisire maggiori consensi e spazi di
rappresentatività. Anche a Roma le due diverse iniziative organizzate
da Cobas e Gilda si concludono confluendo in un'unica grande manifestazione.
Il 17 febbraio segna il trionfo della categoria e la sconfitta della linea del
ministero e dei confederali.
Il successo è così indiscutibile che sia Berlinguer che i sindacati confederali sono obbligati ad ammetterlo, aprendo una fase di "ascolto" nella categoria, in realtà precipitando nella confusione e nell'incertezza. Tra gli insegnanti il clima di euforia fa sì che anche le assemblee successive allo sciopero siano partecipate e che le forme di autorganizzazione rimangano in piedi. A partire dall'opposizione all'art. 29, ma con la chiara volontà di andare oltre, in queste assemblee si comincia a mettere in discussione l'intero impianto delle "riforme" lanciate da Berlinguer. Si apre così una nuova fase ancora vitale ma densa di contraddizioni, che vede cementare i contatti tra le diverse articolazioni del movimento sul territorio nazionale nel tentativo di creare un coordinamento unico, mentre nel contempo si acuiscono i contrasti interni che in maniera graduale influiscono negativamente sulla partecipazione, e gli sconfitti ridotti al silenzio rialzano pian piano la testa, aggiustando, modificando, ma senza rimettere in discussione le scelte di fondo.
I coordinamenti sorti nelle diverse città di Italia avevano alcune caratteristiche comuni, ma anche profonde diversità. Ad esempio i due coordinamenti principali per numero di partecipanti e produzione di iniziative, quelli di Milano e di Torino, hanno allestito siti web che fungevano da raccordo e cassa di risonanza delle iniziative nelle varie realtà regionali e anche nazionali, e hanno avuto un peso determinante nel promuovere le grandi manifestazioni del 17 febbraio. Entrambi sono nati dalle scuole e non dalla decisione e dall'azione di un gruppo sindacale; non si proponevano di essere una nuova realtà sindacale, né una "avanguardia", ma il veicolo organizzatore della volontà proveniente dal basso; autonomi da qualsiasi sigla sindacale, ma contando al loro interno non iscritti e iscritti a tutte le sigle sindacali. Inoltre avevano comuni obiettivi di lotta, dal concorsone, all'art. 29, ai processi di riforma, e collaboravano tra loro con l'intenzione di dare vita a un coordinamento stabile nazionale. Anche altri coordinamenti erano simili a questi, ma più piccoli (Parma ad esempio), mentre in altre città, per via di una radicata presenza di organizzazioni sindacali (ad esempio i Cobas a Roma e Bologna) non sorsero movimenti spontanei fuori dalle sigle. Il tortuoso cammino del movimento nei mesi da marzo a giugno è perciò contraddistinto dai rapporti tutt'altro che facili intercorsi tra i vari coordinamenti, tra coordinamenti e sindacati, tra appartenenze differenti all'interno dei singoli coordinamenti. Rapporti talvolta aspri e intrecciati tra loro che a lungo andare anziché il decollo di un nuovo soggetto hanno determinato il declino del movimento, sancito dalla scarsa partecipazione allo sciopero del 30 maggio: a Milano sono scese in piazza tra le 400 e le 500 persone, confluite dal nord-Italia, contro le 6000 del 17 febbraio solo dalla provincia di Milano; non tutti i coordinamenti hanno aderito (Milano sì, Torino no), ad uno sciopero che appariva uno sciopero voluto e promosso dalle organizzazioni sindacali (Cobas, CUB, SdB-Sin Cobas, più alcune strutture provinciali della Gilda) e non dalle scuole.
Le analogie tra
i coordinamenti hanno consentito di organizzare un'assemblea nazionale a Milano
il 25 marzo, quale avvio di un'ampia discussione politica e culturale che avrebbe
dovuto segnare un salto di qualità per il movimento in vista di una fase
nuova, e non solo di rivendicazione sindacale. L'ambizioso progetto era quello
di costituire gli "Stati generali della scuola", di costruire cioè
a partire dal basso, dalle scuole, una piattaforma per il rilancio e la riqualificazione
della scuola pubblica da contrapporre ai progetti ministeriali di riforma.
All'assemblea milanese parteciparono centinaia di insegnanti provenienti da
varie realtà del centro-nord: Piemonte, Lombardia, Emilia, Marche, Toscana
e alcuni dirigenti della sinistra sindacale sia confederale (Alternativa sindacale,
Area programmatica) che extraconfederale (Cobas, Unicobas, Cub). Nonostante
le divergenze i lavori si conclusero con un documento approvato a larghissima
maggioranza, che rifletteva le posizioni del coordinamento torinese (il testo
integrale lo si può reperire sul sito del Coordinamento delle Scuole
in Lotta di Milano e Regione http://members.xoom.it/coord/statigenerali.html).
Meno di un mese dopo, il 15 aprile a Parma, si tenne un incontro preparatorio
allargato ad esponenti delle altre realtà regionali in vista di quegli
"Stati generali" che si sarebbero dovuti aprire a Parma il 13 maggio.
L'assemblea di Parma vide anch'essa la partecipazione di un centinaio di insegnanti,
in rappresentanza delle stesse realtà territoriali presenti a Milano.
Ma qui le divergenze furono più accentuate e non si pervenne ad alcuna
sintesi conclusiva. Il movimento aveva esaurito la sua spinta propulsiva senza
riuscire a darsi una identità precisa e un programma ampiamente condiviso.
Anche all'interno delle diverse realtà locali gli spazi per la discussione
e l'elaborazione collettiva non erano stati sufficienti, e le logiche di appartenenza
troppo spesso avevano prevalso sul dibattito, anche per via delle difficoltà
non indifferenti di conciliare impegni di lavoro e momenti di incontro. A Parma
queste difficoltà risultarono amplificate: vennero al pettine le divergenze
sui contenuti, sulle modalità operative e organizzative, sui tempi, ecc.
Una fondamentale differenza organizzativa tra il coordinamento di Milano e quello
di Torino era che mentre i milanesi per "coordinamento" intendevano
l'assemblea delle scuole, per i secondi invece esso coincideva con le sei persone
nominate dalla prima assemblea di 600 insegnanti in un liceo torinese. Il fatto
che vi fosse un gruppo ristretto e fisso ha fatto sì che si raggiungesse
una certa omogeneità programmatica che ai milanesi mancava. Ma tale compattezza
altro non era che il frutto di una struttura organizzativa molto centralizzata
e verticistica. La massa degli insegnanti non si riuniva, se non un paio di
volte, e non concorreva in prima persona a elaborare documenti, analisi, riflessioni,
proposte. A questo pensava il ristrettissimo gruppetto di insegnanti-intellettuali,
con una precisa impostazione politica e culturale, sicuramente di alto profilo
ma certamente discutibile, il cui pilastro era la libertà di insegnamento.
Questo iato tra gruppetto dirigente e base si rivelava in tutta la sua evidenza
nella composizione della delegazione e nella qualità del suo comportamento
alle due assemblee di Milano e Parma: un gruppetto ristretto variabile tra cinque-sei
persone, la stessa linea condivisa da ogni componente, la tendenza a occupare
la presidenza e quindi a orientare i lavori e le espressioni dell'assemblea.
Dunque lo stesso metodo utilizzato a Torino.
Questo atteggiamento, malvisto anche dai Cobas, era l'opposto di quello dei
milanesi. Essi nelle diverse occasioni costituivano la presenza maggioritaria
in platea, a Milano come a Parma, ma risultavano anche quelli privi di una posizione
omogenea e unitaria. Il motivo era che la reale volontà di costruzione
dal basso, che favorisse la partecipazione, il coinvolgimento e il protagonismo
di tutti i lavoratori, inevitabilmente rendeva più lungo e faticoso il
processo volto a conseguire man mano un grado sempre più alto di omogeneità
e di elaborazione. Il percorso approvato nelle prime assemblee del Coordinamento
milanese aveva quindi precise regole e intendimenti, che vennero rispettate
anche se poi le dinamiche reali scatenatesi non consentirono di perseguire gli
scopi prefissati. Il risultato fu la morte per esaurimento del coordinamento
milanese: assemblee periodiche in posti sempre diversi e con presidenze diverse,
interventi brevi che fossero la voce non degli oratori ma della base, creazione
di coordinamenti nelle scuole e sul territorio, gruppi di studio su tematiche
specifiche (come il seminario sull'autonomia scolastica del 15 aprile), filo
diretto costante con le scuole e con i lavoratori (vedi http://members.xoom.it/coord/relazione25.html).
Questa impostazione mostra inevitabilmente la sua debolezza di fronte a una
posizione strutturata, ma è l'unica praticabile perché non si
produca quello iato tra leaders e base che è alla radice da un lato della
burocratizzazione e dall'altro, a lungo (o a breve) andare, del disimpegno,
della delega, della passività, della rassegnazione, della frustrazione,
dell'insoddisfazione, del mugugno. Di quei mali cioè che, come abbiamo
visto, attanagliavano la categoria fino allo scoppio della protesta contro il
concorsone. Basta visitare i siti dei due coordinamenti e leggere i documenti
programmatici per rendersi conto delle diversità descritte.
Oltre a queste
altre diversità, di origine e natura sindacale, animavano la vita del
movimento e dei coordinamenti. I movimenti sono per loro natura un luogo di
unità dal basso, lo spazio in cui molte persone partecipano di differente
provenienza, con idee diverse. Un movimento o è pluralista o non è.
Proprio a causa del loro pluralismo i movimenti sono spesso monotematici. Quando
riescono ad elaborare delle rivendicazioni sono molto più generiche di
quelle delle organizzazioni, dato che queste sono al loro interno più
omogenee. Le correnti o le organizzazioni sindacali hanno parole d'ordine più
precise, sono più efficienti, producono analisi più articolate,
ma appunto per questa loro definizione programmatica sono costituite da pochi
militanti. I movimenti invece sono più vaghi, meno efficienti, ma proprio
per questo raccolgono più gente. Queste caratteristiche fanno sì
che organizzazioni e movimenti si collochino su piani differenti e possano costituire
una ricchezza reciproca se si mantengono separati questi ambiti nel momento
in cui si intessono delle relazioni.
Questi meccanismi hanno del resto funzionato in questo modo anche nel periodo
del movimento contro il concorsone. I Coordinamenti, laddove sono sorti, hanno
raccolto nei loro momenti migliori più gente dei militanti delle singole
correnti o sigle sindacali che lo componevano. Nel movimento vi è un
vantaggio aggiuntivo di non poco conto: essendo costituito da "diversi",
c'è spazio per un confronto ampio, arricchente per tutti; anche le organizzazioni
hanno modo di "tenere i piedi per terra", avendo a che fare con uno
spaccato di categoria maggiore di quello da loro rappresentato. Del resto le
organizzazioni sono ciò che rimane della militanza tra un movimento e
l'altro. Garantiscono un minimo di continuità. In questo senso sono indispensabili.
Ma abituandosi ad una sorta di esclusività della rappresentanza, quando
riappaiono i movimenti fanno fatica ad adeguarsi alla realtà e invece
di considerare i movimenti come occasione, hanno la tendenza a intenderli come
una sigla in concorrenza con loro non percependo la differenza tra i due piani.
E questo è ciò che puntualmente è accaduto, seppur con
diverse modalità, anche nella circostanza che stiamo esaminando.
A Milano, ad esempio, il percorso che il coordinamento si era dato non ha potuto
non tanto compiersi (che sarebbe stato velleitario pretendere una cosa del genere),
ma neppure avviarsi con una certa decisione e ritmo perché le logiche
sindacali hanno prevalso. Cioè le assemblee si sono sempre più
caratterizzate come la palestra dell'esercizio retorico e del lancio di parole
d'ordine d'avanguardia, col risultato di allontanare la gente dalla partecipazione.
In questo esercizio si sono distinti soprattutto elementi che facevano riferimento
ai Cobas unitamente ad alcuni militanti di Alternativa sindacale, che hanno
poi abbandonato tale corrente per confluire coi primi. I Cobas a Milano non
avevano alcuna presenza organizzata: il movimento è sembrata l'occasione
buona per cercare di mettere in piedi una struttura. La manovra di per sé
era del tutto legittima, ma le modalità di attuazione hanno di fatto
comportato la paralisi dell'assemblea e il netto affievolirsi della partecipazione:
alle centinaia di presenze delle prime riunioni si è giunti alla fine
ad assemblee che iniziavano con una trentina di persone e si concludevano con
una decina. La Cub dal canto suo si è sempre tenuta ai margini del movimento,
senza partecipare alle assemblee del coordinamento, e addirittura organizzando
un proprio corteo diverso e separato in occasione dello sciopero e della manifestazione
del 17 febbraio. Gilda e Unicobas erano presenti con alcuni militanti, numerosi
erano i senza tessera e diversi gli iscritti alla Cgil, sia della maggioranza
che di Alternativa sindacale. Tra i partecipanti al coordinamento in maggioranza
erano le donne, specchio evidente della composizione della categoria, e portatrici
di un diverso metodo di conduzione del dibattito e di organizzazione del movimento.
Eppure ancora una volta le logiche leaderistiche e maschiliste hanno prevalso
con gli effetti che si sono illustrati.
Il rapporto più difficile tra coordinamento e sindacati è stato
quindi quello con i Cobas. La loro storia e le caratteristiche della loro organizzazione
fanno sì che i Cobas considerino se stessi come il movimento, come i
legittimi portavoce di ogni istanza autonoma e autorganizzata. Nell'assemblea
del 12 marzo a Roma, alla quale i coordinamenti inviarono loro rappresentanti,
queste posizioni apparvero in tutta evidenza, così come il solito rituale
di ogni organizzazione sindacale, con tanto di relazione introduttiva e conclusioni
del segretario.
Che vengano dal movimento dell'88, come i Cobas e la Gilda, o da qualche altro
movimento anche lontano nel tempo, la caratteristica comune delle organizzazioni
sindacali è che sono animate dalle preoccupazioni tipiche dell'organizzazione:
reclutare, crescere, apparire, ecc.; del resto se non si preoccupassero di questi
aspetti sarebbero degli irresponsabili. Ma la identificazione tra un sindacato,
quale che sia, e il movimento, cela un seppur inconscio intento "totalitario".
Da parte di una organizzazione riconoscere l'autonomia del movimento, riconoscere
cioè che è "altro da sé", è la prima dimostrazione
di rispetto. E nel riconoscere l'autonomia e la diversa natura dei movimenti,
è dovere delle organizzazioni stare dentro i movimenti. Perché
poi i movimenti non si trasformino in una palestra di lotta tra organizzazioni
(e, quasi sempre, tra i dirigenti delle organizzazioni) ci vorrebbe una cultura
unificante che mettesse al centro di ogni preoccupazione la salvaguardia dell'unità
dal basso dei lavoratori e solo secondariamente l'interesse della propria organizzazione.
Questo punto di vista invece è assai poco popolare perché l'automatismo
tipico di organizzazione porta a pensare che il proprio gruppo sia quello che
ha ragione e dunque l'unità è vista come un ostacolo sulla via
della "dimostrazione", agli occhi del pubblico, della giusta linea
della propria organizzazione.
Quello dell'unità
dal basso è un punto decisamente strategico e oggi più che mai
attualissimo. Il successo della manifestazione del 17 febbraio a Milano lo si
deve proprio a questa unità. Oggi invece purtroppo siamo di fronte a
una nuova mobilitazione della categoria proclamata da tutti i sindacati ma segnata
dalle diffidenze e dalle divisioni. Ed è proprio nei confronti di questa
vicenda che l'esperienza del movimento degli insegnanti contro il concorsone
può tornare utile. Tale esperienza, quale che sia stata la sua conclusione
nella primavera scorsa, è stata comunque significativa per la rete di
rapporti intessuti e la consapevolezza più diffusa e sedimentata nella
categoria della propria forza, che può giocare un ruolo importante nelle
prossime scadenze di ottobre nell'imporre la volontà unitaria assolutamente
maggioritaria tra i lavoratori contro le logiche parziali e perdenti delle burocrazie
sindacali, confederali in testa.