La primavera degli insegnanti. 
  
  Bilancio 
  del movimento degli insegnanti contro il concorsone. Di Danilo Molinari. Settembre 
  2000. 
Come tutti sanno 
  la scuola è cominciata con la novità dell'autonomia, che interessa 
  e colpisce tutti i lavoratori della scuola. Benché non siano assolutamente 
  trascurabili, anzi per certi versi sono più gravi, le difficoltà 
  del personale ATA, in questo articolo ci occupiamo però solo della categoria 
  docente, chiamata a una dura prova di resistenza e di prosecuzione delle battaglie, 
  dopo l'esperienza della lotta al concorsone, di cui cerchiamo di stilare un 
  bilancio critico e di individuare le prospettive future. 
  Fin dai primi giorni del nuovo anno scolastico i docenti si sono trovati di 
  fronte le novità previste ma nonostante ciò dirompenti connesse 
  con la piena attuazione dell'autonomia, che si vanno ad aggiungere ai diversi 
  problemi pendenti: l'annosa questione salariale ancora irrisolta; l'individuazione 
  di funzioni obiettivo, embrione della formazione di un ceto separato di insegnanti; 
  organi collegiali sviliti nei fatti con l'avallo del consiglio di stato e dei 
  sindacati confederali; la privatizzazione galoppante dell'educazione; l'erosione 
  costante degli ambiti di democrazia nella scuola, che vengono relegati nel sistema 
  delle relazioni sindacali ancora incompiuto nella definizione della rappresentanza; 
  i dirigenti scolastici arroganti e aggressivi, intenzionati a condurre la scuola 
  con sistemi decisamente autoritari. Tutti questi problemi sono resi ancor più 
  drammatici dalla mancanza di indicazioni unitarie sia nell'interpretazione delle 
  norme sia, soprattutto, nell'azione politica e sindacale. C'è una sorta 
  di attendismo, di titubanza anche tra le diverse sigle che hanno partecipato 
  alla mobilitazione della primavera 2000, aldilà dei proclami. Si è 
  in fase di trattativa per gli aumenti salariali, ma intanto avanzano come un 
  rullo compressore i nuovi assetti dell'intero sistema scolastico senza che vi 
  sia la possibilità di produrre una difesa compatta, una mobilitazione 
  coordinata su questioni fondamentali, sulle quali pesa però la mancanza 
  di un grado apprezzabile di omogeneità di valutazioni e di convinzioni, 
  poiché non c'è mai stato un reale coinvolgimento e un franco dibattito 
  all'interno della categoria su di esse. 
  Eppure una prospettiva differente s'era potuta intravedere nel movimento degli 
  insegnanti dei primi mesi del 2000, che oltre ad aver dato un segnale forte 
  di compattezza della categoria su un aspetto rilevante della questione salariale, 
  aveva cercato di avviare un dibattito critico sull'intera questione scuola in 
  Italia, che vedesse come protagonisti chi in prima persona nella scuola opera 
  e partecipa.
  L'analisi delle vicende che hanno contraddistinto i 5 mesi di vita del movimento 
  degli insegnanti può aiutare a comprendere le cause dell'impasse attuale, 
  non dissimile da quella della tarda primavera scorsa.
Sino alla fine del 1999 si respirava nella scuola da almeno un decennio un clima di depressione, frustrazione, impotenza. Su questo si innestava, favorita una insistente campagna mediatica, l'introduzione di "riforme" passate sulle teste dei lavoratori della scuola senza che si producessero proteste significative: il riordino dei cicli, l'autonomia, i presidi manager, il finanziamento pubblico alle scuole private. Nel 1999 è stato siglato il peggior contratto per la categoria, che ne sanciva la frantumazione e avallava la gerarchizzazione nei rapporti di lavoro. L'anno precedente era stato caratterizzato dal blocco illegale dei pensionamenti. Le minoranze variamente collocate a livello sindacale e che si erano battute contro questa offensiva su più fronti, si erano trovate spesso di fronte una categoria scontenta ma sostanzialmente passiva. Ma in poco tempo le cose sarebbero cambiate e intorno al concorsone si sarebbe coagulata l'insoddisfazione e la rabbia degli insegnanti, repressa in tutti questi anni.
Ancora fino a gennaio 
  del 2000, molti pensavano che la parte più indigesta del contratto, l'art.29, 
  non sarebbe mai stata applicata. Il Ministero però, confidando nella 
  passività della categoria veicolata dai confederali e dallo SNALS, ha 
  emanato i regolamenti attuativi per procedere alla selezione che avrebbe comportato 
  i famosi 6 milioni di aumento per il 20% in base al merito. Si è materializzato 
  allora rapidamente il fantasma del concorsone, e gli insegnanti hanno cominciato 
  a sollevarsi utilizzando tutti gli spazi che si offrivano loro. In diverse città 
  d'Italia, sindacati extraconfederali, minoranze confederali, altri soggetti 
  e gruppi spontanei di insegnanti hanno raccolto e organizzato il dissenso e 
  promosso assemblee e iniziative varie. Migliaia di fax e di e-mail hanno inondato 
  il ministero e i siti internet messi a disposizione da sindacati e organi di 
  stampa. Nelle scuole si raccoglievano firme contro il concorsone, si indicevano 
  assemblee che si concludevano con mozioni contrarie al concorsone. Risonanza 
  alla protesta veniva poi data dagli organi di stampa: l'imprevisto subbuglio 
  creato dagli insegnanti faceva notizia. Essi però ancora non si rendevano 
  conto della propria forza e più che a bloccare il concorsone pensavano 
  alla maniera più idonea per boicottarlo: disertare? presentarsi in massa? 
  far iscrivere anche i non aventi diritto? ...
  Il 2 marzo però Berlinguer dichiarava che il concorsone sarebbe "slittato". 
  Il piccolo cedimento era dovuto alla forza della protesta e aveva l'effetto 
  di rilanciarla: era la dimostrazione che si poteva anche vincere, e quindi la 
  situazione si radicalizzava: ai primi di febbraio la parola d'ordine da tutti 
  accettata è: affossare il concorsone! Allo stesso tempo si generalizza 
  la convinzione che si può anche imporre l'abrogazione dell'art.29. Acquista 
  peso la prospettiva della partecipazione allo sciopero del 17 indetto da Gilda, 
  Cobas, Unicobas, Cub. Dopo il LA dato da queste organizzazioni con le loro iniziative, 
  in questa fase sono gli insegnanti in prima persona ad organizzare la protesta 
  in maniera unitaria e dal basso. In molte città si formano coordinamenti 
  fra scuole lanciati da assemblee a cui partecipano migliaia di insegnanti. Queste 
  iniziative destano preoccupazioni: i mass media non riportano più alcuna 
  notizia e considerano risolta l'intera questione con l'annuncio dello slittamento. 
  Il silenzio stampa ha l'effetto di spingere gli insegnanti a far sentire la 
  propria voce con altri mezzi, a tenersi in costante comunicazione tra loro su 
  tutto il territorio nazionale con aggiornamenti quotidiani e addirittura di 
  ora in ora. Così, facendo ampio uso delle moderne tecnologie (e-mail, 
  apertura di siti internet autogestiti, ecc.), sono gli stessi coordinamenti, 
  oltre che i sindacati promotori, ad organizzare concretamente lo sciopero. L'ondata 
  cresce al punto tale che i sindacati confederali, CGIL in testa, nel tentativo 
  di arginarla e di controllare la propria base che anch'essa scalpita, promuovono 
  una serie di attivi di delegati e iscritti. La partecipazione è grandissima 
  e il dissenso dalla linea del sindacato talmente ampio da apparire quasi unanime. 
  Anche chi condivide la filosofia di fondo delle riforme berlingueriane, chi 
  si autodefinisce "di destra" non accetta la piega che hanno preso, 
  e in tanti adeririranno allo sciopero proclamato dagli extraconfederali. I segnali 
  arrivano anche a Berlinguer che il 12 febbraio decide un ulteriore passo: l'annullamento 
  del concorsone. Il movimento incassa il passo indietro, ma non si fida. Una 
  serie di dichiarazioni del Ministro svelano a tutti le sue reali intenzioni: 
  far fallire lo sciopero del 17 per poi ripresentare con qualche ritocco l'art. 
  29. Tra l'altro dietro l'angolo ci sono le elezioni amministrative.
  Lo sciopero a tal punto è assolutamente inevitabile e si dimostra un 
  successo senza precedenti. Lo stesso ministero fornisce una cifra sicuramente 
  al ribasso, ma comunque significativa: 40% di adesioni. Le manifestazioni sono 
  altrettanto imponenti: decine di migliaia al corteo di Roma, oltre 5.000 a Milano 
  e altrettanti a Torino, e poi ancora cortei e sit-in a Bologna, Venezia, Catania, 
  ecc.
La compattezza 
  della categoria, l'unità di intenti frutto di una mobilitazione in larga 
  misura autonoma da ogni appartenenza in questa fase sono più forti della 
  eterogeneità di posizioni presenti nel movimento e dei tentativi di egemonizzarlo 
  messi in campo dalle diverse sigle sindacali. In una realtà come quella 
  di Milano, ad esempio, dove la sola Gilda, tra le organizzazioni promotrici 
  della protesta, poteva contare su una struttura di un certo peso e su un discreto 
  consenso nella categoria, il Coordinamento regionale degli insegnanti è 
  praticamente sinonimo di movimento. All'atto della sua costituzione, il 9 febbraio 
  in un'assemblea autoconvocata in un istituto superiore di Milano, sono presenti 
  oltre un centinaio di insegnanti in rappresentanza di una cinquantina di scuole, 
  di tutte le sigle sindacali, Gilda e confederali compresi, nonché moltissimi 
  insegnanti senza alcuna tessera. E' un movimento quindi fortemente eterogeneo, 
  che trova la sua coesione nell'autorganizzazione e in pochi ma unanimi obiettivi 
  di lotta, primo fra tutti l'opposizione al concorsone e l'abrogazione dell'art. 
  29 Nella giornata del 17 febbraio è la piazza a imporre ai dirigenti 
  un corteo unitario, come chiesto dal Coordinamento, quando gli organizzatori 
  non erano riusciti a trovare un accordo e di cortei ne erano previsti addirittura 
  tre: uno della Gilda, uno della Cub e uno del Coordinamento milanese. Era già 
  implicita in questo arroccamento di vertice l'impasse che poi avrebbe ostacolato 
  lo sviluppo del movimento. Tutte le organizzazioni sindacali che hanno promosso 
  le mobilitazioni contro il concorsone e l'art. 29, con modalità differenti, 
  hanno cercato di impedirne ogni possibilità di crescita autonoma, o chiamandosi 
  fuori (Gilda) o proclamando sé stesse come il movimento (Cobas). Tutte 
  cercando di cogliere l'occasione per acquisire maggiori consensi e spazi di 
  rappresentatività. Anche a Roma le due diverse iniziative organizzate 
  da Cobas e Gilda si concludono confluendo in un'unica grande manifestazione.
  Il 17 febbraio segna il trionfo della categoria e la sconfitta della linea del 
  ministero e dei confederali.
Il successo è così indiscutibile che sia Berlinguer che i sindacati confederali sono obbligati ad ammetterlo, aprendo una fase di "ascolto" nella categoria, in realtà precipitando nella confusione e nell'incertezza. Tra gli insegnanti il clima di euforia fa sì che anche le assemblee successive allo sciopero siano partecipate e che le forme di autorganizzazione rimangano in piedi. A partire dall'opposizione all'art. 29, ma con la chiara volontà di andare oltre, in queste assemblee si comincia a mettere in discussione l'intero impianto delle "riforme" lanciate da Berlinguer. Si apre così una nuova fase ancora vitale ma densa di contraddizioni, che vede cementare i contatti tra le diverse articolazioni del movimento sul territorio nazionale nel tentativo di creare un coordinamento unico, mentre nel contempo si acuiscono i contrasti interni che in maniera graduale influiscono negativamente sulla partecipazione, e gli sconfitti ridotti al silenzio rialzano pian piano la testa, aggiustando, modificando, ma senza rimettere in discussione le scelte di fondo.
I coordinamenti sorti nelle diverse città di Italia avevano alcune caratteristiche comuni, ma anche profonde diversità. Ad esempio i due coordinamenti principali per numero di partecipanti e produzione di iniziative, quelli di Milano e di Torino, hanno allestito siti web che fungevano da raccordo e cassa di risonanza delle iniziative nelle varie realtà regionali e anche nazionali, e hanno avuto un peso determinante nel promuovere le grandi manifestazioni del 17 febbraio. Entrambi sono nati dalle scuole e non dalla decisione e dall'azione di un gruppo sindacale; non si proponevano di essere una nuova realtà sindacale, né una "avanguardia", ma il veicolo organizzatore della volontà proveniente dal basso; autonomi da qualsiasi sigla sindacale, ma contando al loro interno non iscritti e iscritti a tutte le sigle sindacali. Inoltre avevano comuni obiettivi di lotta, dal concorsone, all'art. 29, ai processi di riforma, e collaboravano tra loro con l'intenzione di dare vita a un coordinamento stabile nazionale. Anche altri coordinamenti erano simili a questi, ma più piccoli (Parma ad esempio), mentre in altre città, per via di una radicata presenza di organizzazioni sindacali (ad esempio i Cobas a Roma e Bologna) non sorsero movimenti spontanei fuori dalle sigle. Il tortuoso cammino del movimento nei mesi da marzo a giugno è perciò contraddistinto dai rapporti tutt'altro che facili intercorsi tra i vari coordinamenti, tra coordinamenti e sindacati, tra appartenenze differenti all'interno dei singoli coordinamenti. Rapporti talvolta aspri e intrecciati tra loro che a lungo andare anziché il decollo di un nuovo soggetto hanno determinato il declino del movimento, sancito dalla scarsa partecipazione allo sciopero del 30 maggio: a Milano sono scese in piazza tra le 400 e le 500 persone, confluite dal nord-Italia, contro le 6000 del 17 febbraio solo dalla provincia di Milano; non tutti i coordinamenti hanno aderito (Milano sì, Torino no), ad uno sciopero che appariva uno sciopero voluto e promosso dalle organizzazioni sindacali (Cobas, CUB, SdB-Sin Cobas, più alcune strutture provinciali della Gilda) e non dalle scuole.
Le analogie tra 
  i coordinamenti hanno consentito di organizzare un'assemblea nazionale a Milano 
  il 25 marzo, quale avvio di un'ampia discussione politica e culturale che avrebbe 
  dovuto segnare un salto di qualità per il movimento in vista di una fase 
  nuova, e non solo di rivendicazione sindacale. L'ambizioso progetto era quello 
  di costituire gli "Stati generali della scuola", di costruire cioè 
  a partire dal basso, dalle scuole, una piattaforma per il rilancio e la riqualificazione 
  della scuola pubblica da contrapporre ai progetti ministeriali di riforma.
  All'assemblea milanese parteciparono centinaia di insegnanti provenienti da 
  varie realtà del centro-nord: Piemonte, Lombardia, Emilia, Marche, Toscana 
  e alcuni dirigenti della sinistra sindacale sia confederale (Alternativa sindacale, 
  Area programmatica) che extraconfederale (Cobas, Unicobas, Cub). Nonostante 
  le divergenze i lavori si conclusero con un documento approvato a larghissima 
  maggioranza, che rifletteva le posizioni del coordinamento torinese (il testo 
  integrale lo si può reperire sul sito del Coordinamento delle Scuole 
  in Lotta di Milano e Regione http://members.xoom.it/coord/statigenerali.html).
  Meno di un mese dopo, il 15 aprile a Parma, si tenne un incontro preparatorio 
  allargato ad esponenti delle altre realtà regionali in vista di quegli 
  "Stati generali" che si sarebbero dovuti aprire a Parma il 13 maggio. 
  L'assemblea di Parma vide anch'essa la partecipazione di un centinaio di insegnanti, 
  in rappresentanza delle stesse realtà territoriali presenti a Milano. 
  Ma qui le divergenze furono più accentuate e non si pervenne ad alcuna 
  sintesi conclusiva. Il movimento aveva esaurito la sua spinta propulsiva senza 
  riuscire a darsi una identità precisa e un programma ampiamente condiviso. 
  Anche all'interno delle diverse realtà locali gli spazi per la discussione 
  e l'elaborazione collettiva non erano stati sufficienti, e le logiche di appartenenza 
  troppo spesso avevano prevalso sul dibattito, anche per via delle difficoltà 
  non indifferenti di conciliare impegni di lavoro e momenti di incontro. A Parma 
  queste difficoltà risultarono amplificate: vennero al pettine le divergenze 
  sui contenuti, sulle modalità operative e organizzative, sui tempi, ecc.
  Una fondamentale differenza organizzativa tra il coordinamento di Milano e quello 
  di Torino era che mentre i milanesi per "coordinamento" intendevano 
  l'assemblea delle scuole, per i secondi invece esso coincideva con le sei persone 
  nominate dalla prima assemblea di 600 insegnanti in un liceo torinese. Il fatto 
  che vi fosse un gruppo ristretto e fisso ha fatto sì che si raggiungesse 
  una certa omogeneità programmatica che ai milanesi mancava. Ma tale compattezza 
  altro non era che il frutto di una struttura organizzativa molto centralizzata 
  e verticistica. La massa degli insegnanti non si riuniva, se non un paio di 
  volte, e non concorreva in prima persona a elaborare documenti, analisi, riflessioni, 
  proposte. A questo pensava il ristrettissimo gruppetto di insegnanti-intellettuali, 
  con una precisa impostazione politica e culturale, sicuramente di alto profilo 
  ma certamente discutibile, il cui pilastro era la libertà di insegnamento. 
  Questo iato tra gruppetto dirigente e base si rivelava in tutta la sua evidenza 
  nella composizione della delegazione e nella qualità del suo comportamento 
  alle due assemblee di Milano e Parma: un gruppetto ristretto variabile tra cinque-sei 
  persone, la stessa linea condivisa da ogni componente, la tendenza a occupare 
  la presidenza e quindi a orientare i lavori e le espressioni dell'assemblea. 
  Dunque lo stesso metodo utilizzato a Torino.
  Questo atteggiamento, malvisto anche dai Cobas, era l'opposto di quello dei 
  milanesi. Essi nelle diverse occasioni costituivano la presenza maggioritaria 
  in platea, a Milano come a Parma, ma risultavano anche quelli privi di una posizione 
  omogenea e unitaria. Il motivo era che la reale volontà di costruzione 
  dal basso, che favorisse la partecipazione, il coinvolgimento e il protagonismo 
  di tutti i lavoratori, inevitabilmente rendeva più lungo e faticoso il 
  processo volto a conseguire man mano un grado sempre più alto di omogeneità 
  e di elaborazione. Il percorso approvato nelle prime assemblee del Coordinamento 
  milanese aveva quindi precise regole e intendimenti, che vennero rispettate 
  anche se poi le dinamiche reali scatenatesi non consentirono di perseguire gli 
  scopi prefissati. Il risultato fu la morte per esaurimento del coordinamento 
  milanese: assemblee periodiche in posti sempre diversi e con presidenze diverse, 
  interventi brevi che fossero la voce non degli oratori ma della base, creazione 
  di coordinamenti nelle scuole e sul territorio, gruppi di studio su tematiche 
  specifiche (come il seminario sull'autonomia scolastica del 15 aprile), filo 
  diretto costante con le scuole e con i lavoratori (vedi http://members.xoom.it/coord/relazione25.html).
  Questa impostazione mostra inevitabilmente la sua debolezza di fronte a una 
  posizione strutturata, ma è l'unica praticabile perché non si 
  produca quello iato tra leaders e base che è alla radice da un lato della 
  burocratizzazione e dall'altro, a lungo (o a breve) andare, del disimpegno, 
  della delega, della passività, della rassegnazione, della frustrazione, 
  dell'insoddisfazione, del mugugno. Di quei mali cioè che, come abbiamo 
  visto, attanagliavano la categoria fino allo scoppio della protesta contro il 
  concorsone. Basta visitare i siti dei due coordinamenti e leggere i documenti 
  programmatici per rendersi conto delle diversità descritte.
Oltre a queste 
  altre diversità, di origine e natura sindacale, animavano la vita del 
  movimento e dei coordinamenti. I movimenti sono per loro natura un luogo di 
  unità dal basso, lo spazio in cui molte persone partecipano di differente 
  provenienza, con idee diverse. Un movimento o è pluralista o non è. 
  Proprio a causa del loro pluralismo i movimenti sono spesso monotematici. Quando 
  riescono ad elaborare delle rivendicazioni sono molto più generiche di 
  quelle delle organizzazioni, dato che queste sono al loro interno più 
  omogenee. Le correnti o le organizzazioni sindacali hanno parole d'ordine più 
  precise, sono più efficienti, producono analisi più articolate, 
  ma appunto per questa loro definizione programmatica sono costituite da pochi 
  militanti. I movimenti invece sono più vaghi, meno efficienti, ma proprio 
  per questo raccolgono più gente. Queste caratteristiche fanno sì 
  che organizzazioni e movimenti si collochino su piani differenti e possano costituire 
  una ricchezza reciproca se si mantengono separati questi ambiti nel momento 
  in cui si intessono delle relazioni.
  Questi meccanismi hanno del resto funzionato in questo modo anche nel periodo 
  del movimento contro il concorsone. I Coordinamenti, laddove sono sorti, hanno 
  raccolto nei loro momenti migliori più gente dei militanti delle singole 
  correnti o sigle sindacali che lo componevano. Nel movimento vi è un 
  vantaggio aggiuntivo di non poco conto: essendo costituito da "diversi", 
  c'è spazio per un confronto ampio, arricchente per tutti; anche le organizzazioni 
  hanno modo di "tenere i piedi per terra", avendo a che fare con uno 
  spaccato di categoria maggiore di quello da loro rappresentato. Del resto le 
  organizzazioni sono ciò che rimane della militanza tra un movimento e 
  l'altro. Garantiscono un minimo di continuità. In questo senso sono indispensabili. 
  Ma abituandosi ad una sorta di esclusività della rappresentanza, quando 
  riappaiono i movimenti fanno fatica ad adeguarsi alla realtà e invece 
  di considerare i movimenti come occasione, hanno la tendenza a intenderli come 
  una sigla in concorrenza con loro non percependo la differenza tra i due piani. 
  E questo è ciò che puntualmente è accaduto, seppur con 
  diverse modalità, anche nella circostanza che stiamo esaminando.
  A Milano, ad esempio, il percorso che il coordinamento si era dato non ha potuto 
  non tanto compiersi (che sarebbe stato velleitario pretendere una cosa del genere), 
  ma neppure avviarsi con una certa decisione e ritmo perché le logiche 
  sindacali hanno prevalso. Cioè le assemblee si sono sempre più 
  caratterizzate come la palestra dell'esercizio retorico e del lancio di parole 
  d'ordine d'avanguardia, col risultato di allontanare la gente dalla partecipazione. 
  In questo esercizio si sono distinti soprattutto elementi che facevano riferimento 
  ai Cobas unitamente ad alcuni militanti di Alternativa sindacale, che hanno 
  poi abbandonato tale corrente per confluire coi primi. I Cobas a Milano non 
  avevano alcuna presenza organizzata: il movimento è sembrata l'occasione 
  buona per cercare di mettere in piedi una struttura. La manovra di per sé 
  era del tutto legittima, ma le modalità di attuazione hanno di fatto 
  comportato la paralisi dell'assemblea e il netto affievolirsi della partecipazione: 
  alle centinaia di presenze delle prime riunioni si è giunti alla fine 
  ad assemblee che iniziavano con una trentina di persone e si concludevano con 
  una decina. La Cub dal canto suo si è sempre tenuta ai margini del movimento, 
  senza partecipare alle assemblee del coordinamento, e addirittura organizzando 
  un proprio corteo diverso e separato in occasione dello sciopero e della manifestazione 
  del 17 febbraio. Gilda e Unicobas erano presenti con alcuni militanti, numerosi 
  erano i senza tessera e diversi gli iscritti alla Cgil, sia della maggioranza 
  che di Alternativa sindacale. Tra i partecipanti al coordinamento in maggioranza 
  erano le donne, specchio evidente della composizione della categoria, e portatrici 
  di un diverso metodo di conduzione del dibattito e di organizzazione del movimento. 
  Eppure ancora una volta le logiche leaderistiche e maschiliste hanno prevalso 
  con gli effetti che si sono illustrati.
  Il rapporto più difficile tra coordinamento e sindacati è stato 
  quindi quello con i Cobas. La loro storia e le caratteristiche della loro organizzazione 
  fanno sì che i Cobas considerino se stessi come il movimento, come i 
  legittimi portavoce di ogni istanza autonoma e autorganizzata. Nell'assemblea 
  del 12 marzo a Roma, alla quale i coordinamenti inviarono loro rappresentanti, 
  queste posizioni apparvero in tutta evidenza, così come il solito rituale 
  di ogni organizzazione sindacale, con tanto di relazione introduttiva e conclusioni 
  del segretario. 
  Che vengano dal movimento dell'88, come i Cobas e la Gilda, o da qualche altro 
  movimento anche lontano nel tempo, la caratteristica comune delle organizzazioni 
  sindacali è che sono animate dalle preoccupazioni tipiche dell'organizzazione: 
  reclutare, crescere, apparire, ecc.; del resto se non si preoccupassero di questi 
  aspetti sarebbero degli irresponsabili. Ma la identificazione tra un sindacato, 
  quale che sia, e il movimento, cela un seppur inconscio intento "totalitario". 
  Da parte di una organizzazione riconoscere l'autonomia del movimento, riconoscere 
  cioè che è "altro da sé", è la prima dimostrazione 
  di rispetto. E nel riconoscere l'autonomia e la diversa natura dei movimenti, 
  è dovere delle organizzazioni stare dentro i movimenti. Perché 
  poi i movimenti non si trasformino in una palestra di lotta tra organizzazioni 
  (e, quasi sempre, tra i dirigenti delle organizzazioni) ci vorrebbe una cultura 
  unificante che mettesse al centro di ogni preoccupazione la salvaguardia dell'unità 
  dal basso dei lavoratori e solo secondariamente l'interesse della propria organizzazione. 
  Questo punto di vista invece è assai poco popolare perché l'automatismo 
  tipico di organizzazione porta a pensare che il proprio gruppo sia quello che 
  ha ragione e dunque l'unità è vista come un ostacolo sulla via 
  della "dimostrazione", agli occhi del pubblico, della giusta linea 
  della propria organizzazione.
Quello dell'unità 
  dal basso è un punto decisamente strategico e oggi più che mai 
  attualissimo. Il successo della manifestazione del 17 febbraio a Milano lo si 
  deve proprio a questa unità. Oggi invece purtroppo siamo di fronte a 
  una nuova mobilitazione della categoria proclamata da tutti i sindacati ma segnata 
  dalle diffidenze e dalle divisioni. Ed è proprio nei confronti di questa 
  vicenda che l'esperienza del movimento degli insegnanti contro il concorsone 
  può tornare utile. Tale esperienza, quale che sia stata la sua conclusione 
  nella primavera scorsa, è stata comunque significativa per la rete di 
  rapporti intessuti e la consapevolezza più diffusa e sedimentata nella 
  categoria della propria forza, che può giocare un ruolo importante nelle 
  prossime scadenze di ottobre nell'imporre la volontà unitaria assolutamente 
  maggioritaria tra i lavoratori contro le logiche parziali e perdenti delle burocrazie 
  sindacali, confederali in testa.