La primavera degli insegnanti.
Bilancio del movimento degli insegnanti contro il concorsone. Di Danilo Molinari. Settembre 2000.


Come tutti sanno la scuola è cominciata con la novità dell'autonomia, che interessa e colpisce tutti i lavoratori della scuola. Benché non siano assolutamente trascurabili, anzi per certi versi sono più gravi, le difficoltà del personale ATA, in questo articolo ci occupiamo però solo della categoria docente, chiamata a una dura prova di resistenza e di prosecuzione delle battaglie, dopo l'esperienza della lotta al concorsone, di cui cerchiamo di stilare un bilancio critico e di individuare le prospettive future.
Fin dai primi giorni del nuovo anno scolastico i docenti si sono trovati di fronte le novità previste ma nonostante ciò dirompenti connesse con la piena attuazione dell'autonomia, che si vanno ad aggiungere ai diversi problemi pendenti: l'annosa questione salariale ancora irrisolta; l'individuazione di funzioni obiettivo, embrione della formazione di un ceto separato di insegnanti; organi collegiali sviliti nei fatti con l'avallo del consiglio di stato e dei sindacati confederali; la privatizzazione galoppante dell'educazione; l'erosione costante degli ambiti di democrazia nella scuola, che vengono relegati nel sistema delle relazioni sindacali ancora incompiuto nella definizione della rappresentanza; i dirigenti scolastici arroganti e aggressivi, intenzionati a condurre la scuola con sistemi decisamente autoritari. Tutti questi problemi sono resi ancor più drammatici dalla mancanza di indicazioni unitarie sia nell'interpretazione delle norme sia, soprattutto, nell'azione politica e sindacale. C'è una sorta di attendismo, di titubanza anche tra le diverse sigle che hanno partecipato alla mobilitazione della primavera 2000, aldilà dei proclami. Si è in fase di trattativa per gli aumenti salariali, ma intanto avanzano come un rullo compressore i nuovi assetti dell'intero sistema scolastico senza che vi sia la possibilità di produrre una difesa compatta, una mobilitazione coordinata su questioni fondamentali, sulle quali pesa però la mancanza di un grado apprezzabile di omogeneità di valutazioni e di convinzioni, poiché non c'è mai stato un reale coinvolgimento e un franco dibattito all'interno della categoria su di esse.
Eppure una prospettiva differente s'era potuta intravedere nel movimento degli insegnanti dei primi mesi del 2000, che oltre ad aver dato un segnale forte di compattezza della categoria su un aspetto rilevante della questione salariale, aveva cercato di avviare un dibattito critico sull'intera questione scuola in Italia, che vedesse come protagonisti chi in prima persona nella scuola opera e partecipa.
L'analisi delle vicende che hanno contraddistinto i 5 mesi di vita del movimento degli insegnanti può aiutare a comprendere le cause dell'impasse attuale, non dissimile da quella della tarda primavera scorsa.

Sino alla fine del 1999 si respirava nella scuola da almeno un decennio un clima di depressione, frustrazione, impotenza. Su questo si innestava, favorita una insistente campagna mediatica, l'introduzione di "riforme" passate sulle teste dei lavoratori della scuola senza che si producessero proteste significative: il riordino dei cicli, l'autonomia, i presidi manager, il finanziamento pubblico alle scuole private. Nel 1999 è stato siglato il peggior contratto per la categoria, che ne sanciva la frantumazione e avallava la gerarchizzazione nei rapporti di lavoro. L'anno precedente era stato caratterizzato dal blocco illegale dei pensionamenti. Le minoranze variamente collocate a livello sindacale e che si erano battute contro questa offensiva su più fronti, si erano trovate spesso di fronte una categoria scontenta ma sostanzialmente passiva. Ma in poco tempo le cose sarebbero cambiate e intorno al concorsone si sarebbe coagulata l'insoddisfazione e la rabbia degli insegnanti, repressa in tutti questi anni.

Ancora fino a gennaio del 2000, molti pensavano che la parte più indigesta del contratto, l'art.29, non sarebbe mai stata applicata. Il Ministero però, confidando nella passività della categoria veicolata dai confederali e dallo SNALS, ha emanato i regolamenti attuativi per procedere alla selezione che avrebbe comportato i famosi 6 milioni di aumento per il 20% in base al merito. Si è materializzato allora rapidamente il fantasma del concorsone, e gli insegnanti hanno cominciato a sollevarsi utilizzando tutti gli spazi che si offrivano loro. In diverse città d'Italia, sindacati extraconfederali, minoranze confederali, altri soggetti e gruppi spontanei di insegnanti hanno raccolto e organizzato il dissenso e promosso assemblee e iniziative varie. Migliaia di fax e di e-mail hanno inondato il ministero e i siti internet messi a disposizione da sindacati e organi di stampa. Nelle scuole si raccoglievano firme contro il concorsone, si indicevano assemblee che si concludevano con mozioni contrarie al concorsone. Risonanza alla protesta veniva poi data dagli organi di stampa: l'imprevisto subbuglio creato dagli insegnanti faceva notizia. Essi però ancora non si rendevano conto della propria forza e più che a bloccare il concorsone pensavano alla maniera più idonea per boicottarlo: disertare? presentarsi in massa? far iscrivere anche i non aventi diritto? ...
Il 2 marzo però Berlinguer dichiarava che il concorsone sarebbe "slittato". Il piccolo cedimento era dovuto alla forza della protesta e aveva l'effetto di rilanciarla: era la dimostrazione che si poteva anche vincere, e quindi la situazione si radicalizzava: ai primi di febbraio la parola d'ordine da tutti accettata è: affossare il concorsone! Allo stesso tempo si generalizza la convinzione che si può anche imporre l'abrogazione dell'art.29. Acquista peso la prospettiva della partecipazione allo sciopero del 17 indetto da Gilda, Cobas, Unicobas, Cub. Dopo il LA dato da queste organizzazioni con le loro iniziative, in questa fase sono gli insegnanti in prima persona ad organizzare la protesta in maniera unitaria e dal basso. In molte città si formano coordinamenti fra scuole lanciati da assemblee a cui partecipano migliaia di insegnanti. Queste iniziative destano preoccupazioni: i mass media non riportano più alcuna notizia e considerano risolta l'intera questione con l'annuncio dello slittamento. Il silenzio stampa ha l'effetto di spingere gli insegnanti a far sentire la propria voce con altri mezzi, a tenersi in costante comunicazione tra loro su tutto il territorio nazionale con aggiornamenti quotidiani e addirittura di ora in ora. Così, facendo ampio uso delle moderne tecnologie (e-mail, apertura di siti internet autogestiti, ecc.), sono gli stessi coordinamenti, oltre che i sindacati promotori, ad organizzare concretamente lo sciopero. L'ondata cresce al punto tale che i sindacati confederali, CGIL in testa, nel tentativo di arginarla e di controllare la propria base che anch'essa scalpita, promuovono una serie di attivi di delegati e iscritti. La partecipazione è grandissima e il dissenso dalla linea del sindacato talmente ampio da apparire quasi unanime. Anche chi condivide la filosofia di fondo delle riforme berlingueriane, chi si autodefinisce "di destra" non accetta la piega che hanno preso, e in tanti adeririranno allo sciopero proclamato dagli extraconfederali. I segnali arrivano anche a Berlinguer che il 12 febbraio decide un ulteriore passo: l'annullamento del concorsone. Il movimento incassa il passo indietro, ma non si fida. Una serie di dichiarazioni del Ministro svelano a tutti le sue reali intenzioni: far fallire lo sciopero del 17 per poi ripresentare con qualche ritocco l'art. 29. Tra l'altro dietro l'angolo ci sono le elezioni amministrative.
Lo sciopero a tal punto è assolutamente inevitabile e si dimostra un successo senza precedenti. Lo stesso ministero fornisce una cifra sicuramente al ribasso, ma comunque significativa: 40% di adesioni. Le manifestazioni sono altrettanto imponenti: decine di migliaia al corteo di Roma, oltre 5.000 a Milano e altrettanti a Torino, e poi ancora cortei e sit-in a Bologna, Venezia, Catania, ecc.

La compattezza della categoria, l'unità di intenti frutto di una mobilitazione in larga misura autonoma da ogni appartenenza in questa fase sono più forti della eterogeneità di posizioni presenti nel movimento e dei tentativi di egemonizzarlo messi in campo dalle diverse sigle sindacali. In una realtà come quella di Milano, ad esempio, dove la sola Gilda, tra le organizzazioni promotrici della protesta, poteva contare su una struttura di un certo peso e su un discreto consenso nella categoria, il Coordinamento regionale degli insegnanti è praticamente sinonimo di movimento. All'atto della sua costituzione, il 9 febbraio in un'assemblea autoconvocata in un istituto superiore di Milano, sono presenti oltre un centinaio di insegnanti in rappresentanza di una cinquantina di scuole, di tutte le sigle sindacali, Gilda e confederali compresi, nonché moltissimi insegnanti senza alcuna tessera. E' un movimento quindi fortemente eterogeneo, che trova la sua coesione nell'autorganizzazione e in pochi ma unanimi obiettivi di lotta, primo fra tutti l'opposizione al concorsone e l'abrogazione dell'art. 29 Nella giornata del 17 febbraio è la piazza a imporre ai dirigenti un corteo unitario, come chiesto dal Coordinamento, quando gli organizzatori non erano riusciti a trovare un accordo e di cortei ne erano previsti addirittura tre: uno della Gilda, uno della Cub e uno del Coordinamento milanese. Era già implicita in questo arroccamento di vertice l'impasse che poi avrebbe ostacolato lo sviluppo del movimento. Tutte le organizzazioni sindacali che hanno promosso le mobilitazioni contro il concorsone e l'art. 29, con modalità differenti, hanno cercato di impedirne ogni possibilità di crescita autonoma, o chiamandosi fuori (Gilda) o proclamando sé stesse come il movimento (Cobas). Tutte cercando di cogliere l'occasione per acquisire maggiori consensi e spazi di rappresentatività. Anche a Roma le due diverse iniziative organizzate da Cobas e Gilda si concludono confluendo in un'unica grande manifestazione.
Il 17 febbraio segna il trionfo della categoria e la sconfitta della linea del ministero e dei confederali.

Il successo è così indiscutibile che sia Berlinguer che i sindacati confederali sono obbligati ad ammetterlo, aprendo una fase di "ascolto" nella categoria, in realtà precipitando nella confusione e nell'incertezza. Tra gli insegnanti il clima di euforia fa sì che anche le assemblee successive allo sciopero siano partecipate e che le forme di autorganizzazione rimangano in piedi. A partire dall'opposizione all'art. 29, ma con la chiara volontà di andare oltre, in queste assemblee si comincia a mettere in discussione l'intero impianto delle "riforme" lanciate da Berlinguer. Si apre così una nuova fase ancora vitale ma densa di contraddizioni, che vede cementare i contatti tra le diverse articolazioni del movimento sul territorio nazionale nel tentativo di creare un coordinamento unico, mentre nel contempo si acuiscono i contrasti interni che in maniera graduale influiscono negativamente sulla partecipazione, e gli sconfitti ridotti al silenzio rialzano pian piano la testa, aggiustando, modificando, ma senza rimettere in discussione le scelte di fondo.

I coordinamenti sorti nelle diverse città di Italia avevano alcune caratteristiche comuni, ma anche profonde diversità. Ad esempio i due coordinamenti principali per numero di partecipanti e produzione di iniziative, quelli di Milano e di Torino, hanno allestito siti web che fungevano da raccordo e cassa di risonanza delle iniziative nelle varie realtà regionali e anche nazionali, e hanno avuto un peso determinante nel promuovere le grandi manifestazioni del 17 febbraio. Entrambi sono nati dalle scuole e non dalla decisione e dall'azione di un gruppo sindacale; non si proponevano di essere una nuova realtà sindacale, né una "avanguardia", ma il veicolo organizzatore della volontà proveniente dal basso; autonomi da qualsiasi sigla sindacale, ma contando al loro interno non iscritti e iscritti a tutte le sigle sindacali. Inoltre avevano comuni obiettivi di lotta, dal concorsone, all'art. 29, ai processi di riforma, e collaboravano tra loro con l'intenzione di dare vita a un coordinamento stabile nazionale. Anche altri coordinamenti erano simili a questi, ma più piccoli (Parma ad esempio), mentre in altre città, per via di una radicata presenza di organizzazioni sindacali (ad esempio i Cobas a Roma e Bologna) non sorsero movimenti spontanei fuori dalle sigle. Il tortuoso cammino del movimento nei mesi da marzo a giugno è perciò contraddistinto dai rapporti tutt'altro che facili intercorsi tra i vari coordinamenti, tra coordinamenti e sindacati, tra appartenenze differenti all'interno dei singoli coordinamenti. Rapporti talvolta aspri e intrecciati tra loro che a lungo andare anziché il decollo di un nuovo soggetto hanno determinato il declino del movimento, sancito dalla scarsa partecipazione allo sciopero del 30 maggio: a Milano sono scese in piazza tra le 400 e le 500 persone, confluite dal nord-Italia, contro le 6000 del 17 febbraio solo dalla provincia di Milano; non tutti i coordinamenti hanno aderito (Milano sì, Torino no), ad uno sciopero che appariva uno sciopero voluto e promosso dalle organizzazioni sindacali (Cobas, CUB, SdB-Sin Cobas, più alcune strutture provinciali della Gilda) e non dalle scuole.

Le analogie tra i coordinamenti hanno consentito di organizzare un'assemblea nazionale a Milano il 25 marzo, quale avvio di un'ampia discussione politica e culturale che avrebbe dovuto segnare un salto di qualità per il movimento in vista di una fase nuova, e non solo di rivendicazione sindacale. L'ambizioso progetto era quello di costituire gli "Stati generali della scuola", di costruire cioè a partire dal basso, dalle scuole, una piattaforma per il rilancio e la riqualificazione della scuola pubblica da contrapporre ai progetti ministeriali di riforma.
All'assemblea milanese parteciparono centinaia di insegnanti provenienti da varie realtà del centro-nord: Piemonte, Lombardia, Emilia, Marche, Toscana e alcuni dirigenti della sinistra sindacale sia confederale (Alternativa sindacale, Area programmatica) che extraconfederale (Cobas, Unicobas, Cub). Nonostante le divergenze i lavori si conclusero con un documento approvato a larghissima maggioranza, che rifletteva le posizioni del coordinamento torinese (il testo integrale lo si può reperire sul sito del Coordinamento delle Scuole in Lotta di Milano e Regione http://members.xoom.it/coord/statigenerali.html).
Meno di un mese dopo, il 15 aprile a Parma, si tenne un incontro preparatorio allargato ad esponenti delle altre realtà regionali in vista di quegli "Stati generali" che si sarebbero dovuti aprire a Parma il 13 maggio. L'assemblea di Parma vide anch'essa la partecipazione di un centinaio di insegnanti, in rappresentanza delle stesse realtà territoriali presenti a Milano. Ma qui le divergenze furono più accentuate e non si pervenne ad alcuna sintesi conclusiva. Il movimento aveva esaurito la sua spinta propulsiva senza riuscire a darsi una identità precisa e un programma ampiamente condiviso. Anche all'interno delle diverse realtà locali gli spazi per la discussione e l'elaborazione collettiva non erano stati sufficienti, e le logiche di appartenenza troppo spesso avevano prevalso sul dibattito, anche per via delle difficoltà non indifferenti di conciliare impegni di lavoro e momenti di incontro. A Parma queste difficoltà risultarono amplificate: vennero al pettine le divergenze sui contenuti, sulle modalità operative e organizzative, sui tempi, ecc.
Una fondamentale differenza organizzativa tra il coordinamento di Milano e quello di Torino era che mentre i milanesi per "coordinamento" intendevano l'assemblea delle scuole, per i secondi invece esso coincideva con le sei persone nominate dalla prima assemblea di 600 insegnanti in un liceo torinese. Il fatto che vi fosse un gruppo ristretto e fisso ha fatto sì che si raggiungesse una certa omogeneità programmatica che ai milanesi mancava. Ma tale compattezza altro non era che il frutto di una struttura organizzativa molto centralizzata e verticistica. La massa degli insegnanti non si riuniva, se non un paio di volte, e non concorreva in prima persona a elaborare documenti, analisi, riflessioni, proposte. A questo pensava il ristrettissimo gruppetto di insegnanti-intellettuali, con una precisa impostazione politica e culturale, sicuramente di alto profilo ma certamente discutibile, il cui pilastro era la libertà di insegnamento. Questo iato tra gruppetto dirigente e base si rivelava in tutta la sua evidenza nella composizione della delegazione e nella qualità del suo comportamento alle due assemblee di Milano e Parma: un gruppetto ristretto variabile tra cinque-sei persone, la stessa linea condivisa da ogni componente, la tendenza a occupare la presidenza e quindi a orientare i lavori e le espressioni dell'assemblea. Dunque lo stesso metodo utilizzato a Torino.
Questo atteggiamento, malvisto anche dai Cobas, era l'opposto di quello dei milanesi. Essi nelle diverse occasioni costituivano la presenza maggioritaria in platea, a Milano come a Parma, ma risultavano anche quelli privi di una posizione omogenea e unitaria. Il motivo era che la reale volontà di costruzione dal basso, che favorisse la partecipazione, il coinvolgimento e il protagonismo di tutti i lavoratori, inevitabilmente rendeva più lungo e faticoso il processo volto a conseguire man mano un grado sempre più alto di omogeneità e di elaborazione. Il percorso approvato nelle prime assemblee del Coordinamento milanese aveva quindi precise regole e intendimenti, che vennero rispettate anche se poi le dinamiche reali scatenatesi non consentirono di perseguire gli scopi prefissati. Il risultato fu la morte per esaurimento del coordinamento milanese: assemblee periodiche in posti sempre diversi e con presidenze diverse, interventi brevi che fossero la voce non degli oratori ma della base, creazione di coordinamenti nelle scuole e sul territorio, gruppi di studio su tematiche specifiche (come il seminario sull'autonomia scolastica del 15 aprile), filo diretto costante con le scuole e con i lavoratori (vedi http://members.xoom.it/coord/relazione25.html).
Questa impostazione mostra inevitabilmente la sua debolezza di fronte a una posizione strutturata, ma è l'unica praticabile perché non si produca quello iato tra leaders e base che è alla radice da un lato della burocratizzazione e dall'altro, a lungo (o a breve) andare, del disimpegno, della delega, della passività, della rassegnazione, della frustrazione, dell'insoddisfazione, del mugugno. Di quei mali cioè che, come abbiamo visto, attanagliavano la categoria fino allo scoppio della protesta contro il concorsone. Basta visitare i siti dei due coordinamenti e leggere i documenti programmatici per rendersi conto delle diversità descritte.

Oltre a queste altre diversità, di origine e natura sindacale, animavano la vita del movimento e dei coordinamenti. I movimenti sono per loro natura un luogo di unità dal basso, lo spazio in cui molte persone partecipano di differente provenienza, con idee diverse. Un movimento o è pluralista o non è. Proprio a causa del loro pluralismo i movimenti sono spesso monotematici. Quando riescono ad elaborare delle rivendicazioni sono molto più generiche di quelle delle organizzazioni, dato che queste sono al loro interno più omogenee. Le correnti o le organizzazioni sindacali hanno parole d'ordine più precise, sono più efficienti, producono analisi più articolate, ma appunto per questa loro definizione programmatica sono costituite da pochi militanti. I movimenti invece sono più vaghi, meno efficienti, ma proprio per questo raccolgono più gente. Queste caratteristiche fanno sì che organizzazioni e movimenti si collochino su piani differenti e possano costituire una ricchezza reciproca se si mantengono separati questi ambiti nel momento in cui si intessono delle relazioni.
Questi meccanismi hanno del resto funzionato in questo modo anche nel periodo del movimento contro il concorsone. I Coordinamenti, laddove sono sorti, hanno raccolto nei loro momenti migliori più gente dei militanti delle singole correnti o sigle sindacali che lo componevano. Nel movimento vi è un vantaggio aggiuntivo di non poco conto: essendo costituito da "diversi", c'è spazio per un confronto ampio, arricchente per tutti; anche le organizzazioni hanno modo di "tenere i piedi per terra", avendo a che fare con uno spaccato di categoria maggiore di quello da loro rappresentato. Del resto le organizzazioni sono ciò che rimane della militanza tra un movimento e l'altro. Garantiscono un minimo di continuità. In questo senso sono indispensabili. Ma abituandosi ad una sorta di esclusività della rappresentanza, quando riappaiono i movimenti fanno fatica ad adeguarsi alla realtà e invece di considerare i movimenti come occasione, hanno la tendenza a intenderli come una sigla in concorrenza con loro non percependo la differenza tra i due piani. E questo è ciò che puntualmente è accaduto, seppur con diverse modalità, anche nella circostanza che stiamo esaminando.
A Milano, ad esempio, il percorso che il coordinamento si era dato non ha potuto non tanto compiersi (che sarebbe stato velleitario pretendere una cosa del genere), ma neppure avviarsi con una certa decisione e ritmo perché le logiche sindacali hanno prevalso. Cioè le assemblee si sono sempre più caratterizzate come la palestra dell'esercizio retorico e del lancio di parole d'ordine d'avanguardia, col risultato di allontanare la gente dalla partecipazione. In questo esercizio si sono distinti soprattutto elementi che facevano riferimento ai Cobas unitamente ad alcuni militanti di Alternativa sindacale, che hanno poi abbandonato tale corrente per confluire coi primi. I Cobas a Milano non avevano alcuna presenza organizzata: il movimento è sembrata l'occasione buona per cercare di mettere in piedi una struttura. La manovra di per sé era del tutto legittima, ma le modalità di attuazione hanno di fatto comportato la paralisi dell'assemblea e il netto affievolirsi della partecipazione: alle centinaia di presenze delle prime riunioni si è giunti alla fine ad assemblee che iniziavano con una trentina di persone e si concludevano con una decina. La Cub dal canto suo si è sempre tenuta ai margini del movimento, senza partecipare alle assemblee del coordinamento, e addirittura organizzando un proprio corteo diverso e separato in occasione dello sciopero e della manifestazione del 17 febbraio. Gilda e Unicobas erano presenti con alcuni militanti, numerosi erano i senza tessera e diversi gli iscritti alla Cgil, sia della maggioranza che di Alternativa sindacale. Tra i partecipanti al coordinamento in maggioranza erano le donne, specchio evidente della composizione della categoria, e portatrici di un diverso metodo di conduzione del dibattito e di organizzazione del movimento. Eppure ancora una volta le logiche leaderistiche e maschiliste hanno prevalso con gli effetti che si sono illustrati.
Il rapporto più difficile tra coordinamento e sindacati è stato quindi quello con i Cobas. La loro storia e le caratteristiche della loro organizzazione fanno sì che i Cobas considerino se stessi come il movimento, come i legittimi portavoce di ogni istanza autonoma e autorganizzata. Nell'assemblea del 12 marzo a Roma, alla quale i coordinamenti inviarono loro rappresentanti, queste posizioni apparvero in tutta evidenza, così come il solito rituale di ogni organizzazione sindacale, con tanto di relazione introduttiva e conclusioni del segretario.
Che vengano dal movimento dell'88, come i Cobas e la Gilda, o da qualche altro movimento anche lontano nel tempo, la caratteristica comune delle organizzazioni sindacali è che sono animate dalle preoccupazioni tipiche dell'organizzazione: reclutare, crescere, apparire, ecc.; del resto se non si preoccupassero di questi aspetti sarebbero degli irresponsabili. Ma la identificazione tra un sindacato, quale che sia, e il movimento, cela un seppur inconscio intento "totalitario". Da parte di una organizzazione riconoscere l'autonomia del movimento, riconoscere cioè che è "altro da sé", è la prima dimostrazione di rispetto. E nel riconoscere l'autonomia e la diversa natura dei movimenti, è dovere delle organizzazioni stare dentro i movimenti. Perché poi i movimenti non si trasformino in una palestra di lotta tra organizzazioni (e, quasi sempre, tra i dirigenti delle organizzazioni) ci vorrebbe una cultura unificante che mettesse al centro di ogni preoccupazione la salvaguardia dell'unità dal basso dei lavoratori e solo secondariamente l'interesse della propria organizzazione. Questo punto di vista invece è assai poco popolare perché l'automatismo tipico di organizzazione porta a pensare che il proprio gruppo sia quello che ha ragione e dunque l'unità è vista come un ostacolo sulla via della "dimostrazione", agli occhi del pubblico, della giusta linea della propria organizzazione.

Quello dell'unità dal basso è un punto decisamente strategico e oggi più che mai attualissimo. Il successo della manifestazione del 17 febbraio a Milano lo si deve proprio a questa unità. Oggi invece purtroppo siamo di fronte a una nuova mobilitazione della categoria proclamata da tutti i sindacati ma segnata dalle diffidenze e dalle divisioni. Ed è proprio nei confronti di questa vicenda che l'esperienza del movimento degli insegnanti contro il concorsone può tornare utile. Tale esperienza, quale che sia stata la sua conclusione nella primavera scorsa, è stata comunque significativa per la rete di rapporti intessuti e la consapevolezza più diffusa e sedimentata nella categoria della propria forza, che può giocare un ruolo importante nelle prossime scadenze di ottobre nell'imporre la volontà unitaria assolutamente maggioritaria tra i lavoratori contro le logiche parziali e perdenti delle burocrazie sindacali, confederali in testa.