La (dis)parità scolastica.
Contro
la legge di parità di berlinguer per difendere meglio il no al finanziamento
pubblico alla scuola privata. REDS. Novembre
1999.
Siamo
entrati nella fase due dell'attacco alla scuola pubblica. La prima fase ha visto
DS e Confindustria d'accordo nel portare avanti la riforma della scuola pubblica
in senso aziendalista. Non è stato un golpe: già da anni covava
questa nuova idea di scuola che poi si è concretizzata nell'autonomia,
nella dirigenza ai presidi, nei tagli, nel contratto. Le nostre classi dominanti,
però, ovviamente non si accontentano. Dopo aver incassato le conquiste
che i dipartimenti formazione della Confindustria già chiedevano da tempo,
ora osano di più. Chiamano la Chiesa in aiuto per allargare lo spazio del
privato e portano un affondo anche sui contenuti della didattica (vedi l'altro
nostro articolo).
Di fronte alla legge Berlinguer sulla parità scolastica il rischio di scegliere
il "meno peggio" è sempre presente, soprattutto dopo la mobilitazione
generale delle forze cattoliche e di parte del mondo laico, che vedono l'opportunità
di ottenere ancora di più di quanto la legge non conceda. Il testo approvato
dal Senato il 21 luglio scorso, coi voti del centrosinistra e l'opposizione di
Lega, Polo e PRC, e che dovrà ora passare alla Camera, viene rimesso ora
in discussione dai cattolici della maggioranza, dopo la Conferenza episcopale
sulla scuola e la kermesse in San Pietro di sabato 31 ottobre. È il testo
stesso della legge Berlinguer che lascia aperto il varco per nuove modifiche,
sostengono i popolari per bocca del loro responsabile scuola, Giovanni Manzini.
Intervenendo giovedì 4 novembre ai microfoni di Radio Popolare, Manzini
sostiene: "Il testo Berlinguer ci soddisfa nei principi, nelle regole, nei
contributi alle materne e alle elementari, non ci soddisfa sul piano della secondaria"
e quindi bisogna migliorarlo. La proposta concreta è quella che lo Stato
si faccia carico non degli stipendi degli insegnanti, come si è letto in
un primo tempo sulla stampa, ma dei contributi previdenziali "che gravano
sulle istituzioni scolastiche private per il 52% contro il 18% degli statali".
Ma facciamo un passo indietro: cosa dice la legge Berlinguer per lasciare aperto
il varco a questa nuova offensiva ? Che "entrano a far parte del sistema
pubblico dell'istruzione e della formazione e si definiscono scuole pubbliche
paritarie [...] le istituzioni scolastiche e formative non statali, comprese quelle
degli enti locali, che ne facciano richiesta e la cui offerta formativa è
caratterizzata dai livelli di qualità". Questi livelli di qualità
sono tra gli altri: spazi, sedi, strutture e attrezzature adeguati; fini e ordinamenti
didattici conformi a quelli pubblici; nessuna discriminazione rispetto alle iscrizioni,
idonea qualificazione professionale dei dirigenti, dei docenti e dei formatori,
nel rispetto della identità culturale dell'istituzione. Inoltre si dice
che "gli oneri connessi con l'attuazione della complessiva offerta formativa
sono sostenuti dalle istituzioni scolastiche e formative con risorse proprie,
con le risorse iscritte nel bilancio dello Stato e con risorse comunitarie".
Infine "lo Stato predispone e attua, tenendo conto degli stanziamenti previsti
negli attuali capitoli di bilancio per la scuola non statale, interventi in favore
dei genitori dei bambini e dei giovani in età scolare, a partire dal terzo
anno di età, ivi compresi i genitori degli alunni che abbiano completato
la scuola dell'obbligo e intendano proseguire negli studi o nella formazione negli
istituti statali o paritari". In breve sostegno alle famiglie meno abbienti
attraverso borse di studio e detrazioni fiscali.
In base al "rispetto della identità culturale dell'istituzione"
si devono consentire scuole di tendenza che possono liberamente scegliere e discriminare
il personale (secondo convinzioni religiose ed etico-civili) e poiché si
riconosce la loro funzione pubblica debbono avere un sostegno finanziario adeguato
dallo stato: questo il ragionamento avanzato. Questi anche i motivi per cui non
solo tali posizioni estreme (e questo è pacifico), ma la stessa legge Berlinguer,
inadeguata a prevenirle, debbono essere rifiutate.
Gli attacchi alla legge Berlinguer, che non difendiamo affatto, vengono da più
parti. Dei Popolari si è già detto. Essi si riallacciano alle posizioni
del presidente della CEI, cardinal Ruini, secondo cui è indispensabile
che "il rinnovamento della scuola italiana sia affidato al passaggio da una
scuola sostanzialmente dello Stato ad una scuola della società civile,
certo con un perdurante ed irrinunciabile ruolo dello Stato, ma nella linea della
sussidiarietà".
A questa posizione, tradizionalmente appannaggio dei cattolici aldilà degli
schieramenti politici (CL ad esempio), a cui si sono da tempo allineate le destre
del nostro paese, aderisce ora anche parte del mondo laico. Gli editoriali di
Panebianco e Romano sul Corriere della Sera del 30 ottobre e del 1 novembre
ne sono una conferma. Panebianco sostiene ad esempio che "appellarsi al principio
di sussidiarietà, e valorizzare la concorrenza fra scuole statali e scuole
non statali, possa servire, al tempo stesso, la causa della libertà e quella
dell'efficienza". Salendo sul carro dei cattolici plaude al fatto che la
tradizionale richiesta di aiuti economici essi la avanzino con una "proposta
di profilo alto, appellandosi con orgoglio alla propria tradizione", quella
espressa da Ruini, appunto.
In altre parole i finanziamenti statali alla scuola privata si continuano a pretendere,
ma ora in nome di alti principi. È il solito ritornello trito e ritrito
della borghesia italiana "liberista e antistatalista", che mentre esalta
i vantaggi del mercato e della libera concorrenza pretende allo stesso tempo l'ombrello
della copertura statale. Niente di nuovo sotto il sole: il capitalismo italiano
sa vivere solo all'ombra dello stato, e anche questa vicenda lo dimostra.
Laici neoliberisti e cattolici muovono compatti, pur con sfumature diverse, nella
stessa direzione: lo smantellamento dello stato sociale, che il centrosinistra
ha ormai rinunciato a difendere, e nel caso particolare di uno dei suoi pilastri
fondamentali quello della Pubblica Istruzione, in nome della liberalizzazione,
del mercato, dell'alto senso di responsabilità pubblica della società
civile, che non ha bisogno di tutele e direttive dal centro (le bastano quelle
del Papa!).
Di fronte a questa situazione la maggioranza vacilla. Il Polo lusinga i Popolari
dicendosi pronto a sostenerne le richieste e rilancia il vecchio caro tema del
buono-scuola. Repubblicani e socialisti, più coerenti sui principi, si
appellano al dettato costituzionale del "senza oneri per lo Stato".
Il "Forum per la scuola della Repubblica", al quale aderisce Alternativa
Sindacale, anziché rigettare decisamente ogni ipotesi ricerca "una
regolamentazione della parità rispettosa del dettato costituzionale",
senza riuscire a trovare coesione al suo interno. I diessini fanno la figura peggiore,
con Berlinguer che richiede l'imprimatur papale (ovviamente negato) alla sua legge,
e Graziella Pagano, responsabile scuola della Quercia, che replica ai Popolari
non sui principi ma affermando che lo Stato non ha i soldi per soddisfare le loro
richieste. Tanto che deve intervenire D'Alema, ormai dedito unicamente agli equilibrismi
tattici per mantenersi in sella, a dare un colpo al cerchio e uno alla botte per
tenere uniti i pezzi della sua maggioranza e magari sollecitare sulla specifica
questione qualche sostegno esterno (leggi PRC): la proposta del Ppi il governo
"la esaminerà con molta attenzione", ma ha "innanzitutto
il dovere di investire sulla scuola pubblica" che è frequentata dal
95% degli studenti.
Affermazioni lusinghiere, dietro le quali si cela però ancora una volta
il rischio del ricatto del "meno peggio". Per questo noi sosteniamo
che gli assalti alla scuola pubblica si respingono a partire dal No alla legge
Berlinguer. Perché se il 95% degli studenti frequenta la scuola statale,
vuol dire che le sorti della scuola privata non riguardano la stragrande maggioranza,
o la quasi totalità, della popolazione italiana. Non vediamo quindi nulla
di democratico in operazioni politiche (legge sulla parità appunto) che
intendono alleggerire le responsabilità dello Stato, soccorrere le difficoltà
di sopravvivenza (anche di questo si tratta) e favorire lo sviluppo di istituzioni
per pochi privilegiati facendone una questione nazionale. Perché il diritto
allo studio lo si sostiene non con gli aiuti alle famiglie, ma colpendo gli interessi
monopolistici del mercato editoriale, con l'abbattimento del prezzo dei libri
di testo (e non solo di testo), dei materiali e degli strumenti didattici innovativi
(cd, video, ecc.). Perché la qualità della scuola si persegue anzitutto
dotandola di strutture adeguate e non riducendo organici e risorse.
Le armi per ribaltare questa situazione paradossale stanno in quel movimento di
massa, di studenti, lavoratori e pensionati colpiti dalle politiche governative,
che D'Alema stesso teme, come si può leggere nelle righe del suo intervento.
Egli infatti - bontà sua - si preoccupa del "senso di frustrazione"
di quei "milioni e milioni di ragazzi [...].tenuti in disparte, visto che
tutto il dibattito si concentra sul diritto di pochi di andare a una scuola privata"
(Repubblica, 3 novembre). La sinistra alternativa ha il dovere storico
di dare corpo non solo all'identità di classe ma alla difesa degli interessi
popolari, che in questa fase significano difesa e rilancio dello stato sociale.
Le parole di D'Alema: "bisogna investire nella scuola pubblica", non
possono che essere quindi condivise. Ma non sono affatto credibili. Lo potranno
diventare solo in presenza di un deciso cambiamento di rotta a tutti i livelli
della politica scolastica. La scuola statale è obiettivamente in difficoltà,
allo sfacelo secondo i suoi più ostinati detrattori. È bene però
sempre ricordare che il Ministero della Pubblica Istruzione è stato per
cinquant'anni ininterrottamente nelle mani dei democristiani, di coloro cioè
che oggi sono tra i primi a voler demolire la scuola statale, facendone ricadere
le colpe sulla sinistra statalista. Gli argomenti sono i soliti, da tempo: centralismo
burocratico, insegnanti impreparati, mancanza di qualità complessiva del
sistema. Gran parte di ciò è anche vero, come è vero che
i responsabili sono quegli stessi accusatori che ora agitano le nuove ricette.
Ripetiamo: per volontà democristiana, e quindi della Chiesa e della borghesia
che ora unite presentano il conto, non c'è mai stata in Italia una politica
culturale e scolastica degna di questo nome, a partire dal livello universitario.
A tutt'oggi mancano adeguati corsi universitari e tirocini sulle strategie e le
tecniche comunicative e didattiche, sui meccanismi dell'apprendimento, elementi
indispensabili per la formazione degli insegnanti. Non è che il governo
non ci stia pensando, ad esempio con il ripensamento sui saperi, ma i provvedimenti
sono tardivi e contraddittori, poiché rientrano comunque in quel quadro
inaccettabile di conservazione dell'esistente di cui si è detto sopra,
e prestano inevitabilmente il fianco alle critiche da destra.
L'intero corpo del personale scolastico statale, a partire dagli insegnanti che
per decenni non sono stati volutamente preparati, che spesso per anni hanno lavorato
nella precarietà del posto e dello stipendio, che si sono basati nel loro
lavoro essenzialmente su aleatori modelli preesistenti (gli insegnanti che essi
stessi hanno avuto quando erano studenti), sull'iniziativa personale e/o collegiale,
hanno dovuto infine operare, sempre per precisa scelta politica, nelle peggiori
condizioni possibili: alto numero di studenti, strutture inesistenti o fatiscenti,
contenuti e programmi arcaici e nozionistici, orari "di fabbrica". Oggi
è per molti (troppi) versi ancora così. Il contenimento della spesa,
che continua a operare (riduzione del 3% degli organici con l'ultima finanziaria),
benché il governo affermi il contrario, fa sì che le classi più
che centri di sapere e di cultura siano luoghi di detenzione che concentrano di
frequente in pochi metri quadrati 30 o 32 ragazzi in fase di sviluppo fisico,
con tutte le difficoltà che questo comporta. Certo che in queste condizioni
la scuola non è di qualità! Basterebbe fare il confronto con una
"bella scuola privata", dalle ampie dotazioni, tanto ampie al punto
che non si capisce perché lo Stato dovrebbe venirle in aiuto, direttamente
o indirettamente che sia!
Sulla Repubblica del 3 novembre è apparsa la prima puntata di un'interessantissima
inchiesta sulle "scuola del Papa", che ha per oggetto l'istituto "San
Carlo" di Milano, fucina della futura classe dirigente, 1200 alunni dalle
materne al liceo, 140 dipendenti, dotata di laboratori, sale computer rinnovati
ogni anno, piscina, palestra, campi da gioco, biblioteca, bar. È diretta
con spirito manageriale da don Aldo Geranzani. Quelli che seguono sono stralci
delle sue parole:
"Abbiamo un target medio-alto, e un progetto di formazione della classe dirigente.
Un progetto di rigore didattico e di cordialità educativa [...] Vogliamo
che di qui escano persone serie in grado di pensare, di assumersi la responsabilità
dei propri atti. Classe dirigente in quel senso lì: che ovunque lavorino,
in alto o in basso, siano punti di riferimento [...] Le rette sono alte? Mah,
non pagano nemmeno tutti i servizi. E poi, se un ragazzo merita, io trovo ogni
anno borse di studio per trecento milioni [...] La strategia aziendale è:
promozione dell'eccellenza e recupero alla sufficienza. Se in una classe da venti
ho gente brava, a volte stacco quelli meno bravi [...] Ci possiamo permettere
un'attenzione personalizzata: con 45 iscritti a una quarta ginnasio, io faccio
tre sezioni [...] I docenti li prendo che abbiano esperienza, o un dottorato di
ricerca. Poi chiedo fedeltà all'azienda, al progetto educativo. Ferma restando
la competenza: meglio uno competente e meno in linea, che il contrario".
Perché lo Stato dovrebbe dare soldi a realtà come queste? Perché
si preoccupa anche solo di regolarizzare una struttura per pochi e non si concentra
realmente sulle sue di scuole? Quando mai una scuola statale ha visto classi di
20 o addirittura 15 studenti ai primi anni delle superiori?
Non è questa la qualità che vogliamo, fatta di selezione e inquadramento
in una realtà sociale stratificata, ma è questa la dotazione di
strutture che ogni scuola dovrebbe avere. Abbiamo anche noi una proposta per la
scuola di "alto profilo": vogliamo una scuola statale (cioè di
tutti e per tutti con pari opportunità) di qualità, non selettiva,
in cui lavori personale qualificato messo nelle migliori condizioni, che consenta
l'armonico sviluppo di tutti nella direzione dell'appianamento delle differenze
culturali e sociali. Né l'idea di scuola promossa dal centrosinistra, né
tantomeno quella della destra e dei cattolici rispondono a questi requisiti.