Le "riforme" scolastiche di Berlinguer.
Con schede su autonomia scolastica, riforma dei cicli e Patto per il Lavoro. Di Danilo Molinari e Michele Corsi. Marzo 1997.


La riforma della scuola alla quale sta lavorando il governo si basa su tre documenti: la proposta di "Riordino dei cicli scolastici" del gennaio 1997 del Ministero della Pubblica Istruzione ("riforma Berlinguer"), il DDL Bassanini nella parte che riguarda la scuola ("autonomia scolastica", ecc.), approvato dal Parlamento l'11/3/97, e la parte che riguarda la formazione dell'"Accordo sul lavoro" del 24 settembre 1996 tra Governo, Confindustria e CGIL, CISL e UIL. Questi tre documenti sono strettamente legati tra loro e si richiamano vicendevolmente. È chiaro che ci si ritrova di fronte ad una strategia in sé assolutamente coerente e che il governo va implementando, non con una "legge quadro", ma con pezzi di riforma destinati a comporre un puzzle. Il compito che ci siamo qui proposti é quello di esplicitare la natura complessiva del disegno e di ricavarne delle indicazioni di azione dal punto di vista degli interessi dei lavoratori della scuola e degli utenti.

I PROBLEMI REALI DELLA SCUOLA E LA RIFORMA

Quando si parla di "riformare" qualche cosa, si intende di solito trovare una soluzione che risponda ad una certa problematica nei suoi aspetti salienti. Questa riforma non aggredisce i problemi principali che gli studenti ed i lavoratori della scuola sentono come più urgenti: i tagli dei finanziamenti (che si ripercuotono nella povertà delle strutture e delle dotazioni finanziarie, nei bassi salari della categoria e nei crescenti costi per l'utenza), l'affollamento nelle classi, la selezione per fasce sociali. Al contrario, per quanto riguarda l'aspetto finanziario si tratta di una riforma concomitante a tagli senza precedenti nell'istruzione: 4800 miliardi in tre anni, come previsto dalla finanziaria '96, e già operativi a partire dal prossimo anno scolastico. Il calo demografico poteva costituire una occasione per far sì che le risorse fossero finalmente commisurate all'utenza, dopo anni di emergenza: viene invece utilizzato come argomento per giustificare una secca diminuzione di quelle stesse risorse. Come é possibile valorizzare ad esempio il "ciclo dell'infanzia" rendendo obbligatorio l'ultimo anno della materna senza intaccare il rapporto bambini/insegnanti? Che attività educativa potrà mai essere impostata con 25 bambini urlanti e una sola maestra (con poche ore di copresenza?).

La selezione per fasce sociali

Alcune recenti ricerche hanno messo in rilievo il carattere classista della selezione. Il termine può sembrare ad alcuni "fuori moda" eppure dati di fonti attendibili parlano chiaro (Giancarlo Gasperoni, "Diplomati e istruiti", Il Mulino, 96 e rapporto ISTAT, "La selezione scolastica nelle scuole superiori", 96). Negli Istituti professionali viene bocciato il primo anno il 29% degli allievi (25% nei tecnici) contro il 12% dei licei. Il 7% di chi affronta il liceo abbandona gli studi dopo il primo anno, ma la percentuale sale al 21% nei Professionali (e al 15% nei Tecnici). Su cento iscritti ai Professionali ne sopravvivono in 55, mentre nei licei 83. La scelta di una scuola o di un'altra risponde in maniera diretta all'origine sociale della famiglia: nei licei classici il 37% degli allievi giunti al quinto anno é figlio di dirigenti, liberi professionisti o imprenditori, il 10% di operai, negli Iti il 37% é figlio di operai e il 9% di dirigenti, liberi professionisti o dirigenti. I vari tipi di scuola sono disposte in una scala cui corrispondono decrescenti fasce di reddito e posizione sociale: prima il liceo classico, poi quello scientifico, quindi gli ITC, poi gli ITI e infine i professionali. Si tenga inoltre conto che nelle fasce socialmente disagiate i ragazzi non arrivano nemmeno alla terza media (6 studenti su 100 vengono bocciati ogni anno nelle medie) e una parte di quelli che la supera non si iscrive alle superiori.

Le soluzioni alla selezione proposte dalla riforma

Nei testi che disegnano la riforma si fa esplicito riferimento all'alto tasso di "insuccessi" scolastici ed al basso numero di diplomati in Italia. Il rapporto tra coloro che conseguono un diploma di scuola superiore e la fascia di giovani di età corrispondente é del 59% in Italia, del 93% in Germania, del 78% in Francia, del 76% negli USA. Il fenomeno é considerato negativamente sotto il profilo economico: risultati non all'altezza degli "investimenti" e pericoli di diminuire le possibilità del "nostro Paese" di competere con le economie più sviluppate e che possiedono come risorsa manodopera più qualificata. La soluzione trovata é sostanzialmente una: "offrire" all'enorme platea di coloro che sono rifiutati da questa scuola o che non ne sono "attratti" infinite possibilità "professionalizzanti". Il settore sociale al quale si rivolge parte della proposta é proprio quello delle fasce a più basso reddito i cui figli vengono bocciati o non vanno a scuola. In pratica si tratta di integrare alla scuola entità di formazione private (CFP e altro) o pubbliche e direttamente le aziende. Possiamo immaginare situazioni in cui uno studente che abbia optato per un indirizzo professionale venga "invitato", a maggior ragione se va male a scuola, a legarsi con un contratto di apprendistato ad una ditta, e a trascorrere un certo numero di ore settimanali o mensili a scuola o nella "agenzia di formazione" (potrebbe essere qualsiasi entità di formazione, nei documenti non é specificato). È ovvio che lo "studente" avrà tutto l'interesse a subire passivamente lo sfruttamento nella ditta o semplicemente la mancanza di formazione, dato che solo la buona opinione della ditta potrà consentirgli di ricevere il diploma. In questo modo la scuola non sarebbe luogo dove riflettere criticamente sull'attività lavorativa, ma un di più, vissuto probabilmente in maniera oppressiva dal ragazzo (che oltre a lavorare dovrà studiare). Per i figli dei quartieri popolari insomma non si prospetta una scuola diversa che li aiuti a superare il gap sociale e culturale (con interventi di sostegno didattico, borse di studio, con l'impostazione di una scuola che aiuti a crescere e che non bocci), ma strutture che propongono loro l'unica cosa che le fasce sociali alte immaginano possano fare quelli delle fasce più basse: manualità, "moduli improntati al saper fare", "percorsi fortemente professionalizzanti", ecc. Si vuole evitare l'abbandono della scuola per la fabbrica, semplicemente facendo entrare la fabbrica nella scuola.

L'anticipazione della scelta

Uno dei fattori che contribuisce a far sì che la scuola sia un luogo della riproduzione dell'ordine sociale esistente (come ai tempi di Don Milani, ma con gli stessi meccanismi spostati un po' più avanti nell'età: non si boccia più nelle elementari, poco nelle medie e si boccia implacabilmente nelle superori) é la suddivisione in indirizzi e la precoce scelta di uno di questi da parte dello studente: é ovvio che prima "deciderà" e più saranno determinanti, nella scelta, l'origine sociale, la pressione della famiglia, ecc.
La proposta di riforma peggiora la situazione attualmente esistente. Gli studenti oggi scelgono a 14 anni, dopo la terza media, mentre le medie mantengono una impostazione fortissimamente omogenea. Con la riforma dovranno invece scegliere a 12. Fin dal primo anno del ciclo secondario infatti lo studente si troverà davanti tutto "dalle lettere al giardinaggio" e sarà spinto con "un ruolo attivo dei genitori" a scegliere tra "grandi opzioni e corrispondenti percorsi". Nel secondo anno (13 anni, attuale terza media) l'orientamento sarebbe ancora più "mirato" e lo studente "invitato" a scegliere tra cinque indirizzi (classico, scientifico, professionale...): riusciamo a immaginare quelli che "vanno male a scuola" cosa saranno "invitati" a frequentare?

Gli indirizzi

Una scuola che "pareggi" rispetto alle condizioni sociali di origine (cosa che sarebbe prevista anche dalla Costituzione) dovrebbe tendere a dare una formazione il più possibile omogenea per più tempo possibile. Apparentemente la riforma viene incontro a questa esigenza: le decine di indirizzi attuali delle scuole superiori vengono ridotti nel primo triennio a 5 e nel secondo a 11. Ma c'é il trucco. L'autonomia didattica delle scuole farà sì che ognuna di esse possa "inventarsi" materie, percorsi didattici, corsi anche in cogestione o dandoli "in appalto" a centri esterni. Questa dinamica sarà approfondita nel triennio successivo addirittura con l'integrazione del lavoro fuori dalla scuola (stages, alternanza, contratti di apprendistato, ecc.).
Tutto ciò a seconda delle esigenze del "territorio", eufemismo per indicare le caratteristiche del tessuto aziendale ed economico di una determinata zona. Ci ritroveremo in realtà non con 11 indirizzi, ma con una frammentazione estrema e senza precedenti di indirizzi di studio: al limite uno per ogni Istituto (o anche di più, visto che ogni Istituto sarà libero di dar vita a vari "percorsi").
La "personalizzazione dei curricula" poi é un ulteriore elemento di differenziazione: ogni studente potrà scegliersi un proprio "personale" percorso formativo.

La certificazione

I vari testi insistono sul fatto che "naturalmente il diploma finale di una scuola siffatta dovrà indicare le conoscenze e le abilità raggiunte". Naturalmente. Dato che caratteristica e "novità" dell'ultimo triennio del ciclo secondario é "l'avvicinamento progressivo al mondo del lavoro", cioé alle aziende, queste per poter essere in grado di scegliere tra la vasta offerta di forza lavoro non hanno certo bisogno di diplomi generici ("solo" undici indirizzi), ma di un foglio che certifichi con esattezza cosa il giovane sa o non sa fare. È in questo tipo di diploma che si scopre il bluff della "riduzione degli indirizzi" a 11: se così non fosse che bisogno ci sarebbe di diplomi "personalizzati"?

L'obbligo

La riforma innalza l'obbligo a 15 anni. In un gran parlare di Europa, l'obbligo é portato semplicemente al livello più basso nella media UE (eguagliato solo da altri tre Paesi). Nella maggior parte dei Paesi l'obbligo é a 16 e in alcuni a 18. I 15 anni sono anche al di sotto dell'età che tutti i "riformatori" che in questi anni si sono esercitati sulla problematica in Italia si ripromettevano di arrivare: 16 anni. In realtà ciò che si dovrebbe chiedere é l'obbligo sino ai 18 anni.
Ma una riforma a costo zero, anzi sottozero, come questa ovviamente non poteva farlo. Con l'obbligo esteso sino ai 18 anni come si possono accorpare scuole, tagliare le classi ed eliminare personale? Creare il costume sociale che i giovani fino a 18 anni devono andare a scuola (quindi non a lavorare): questo sì creerebbe un grande cambiamento negli usi e nella vita di grandi masse. Nessuno potrà più sentirsi dire ad esempio: cosa sei venuto a fare? Non é mica la scuola dell'obbligo! Spingerebbe la scuola a dotarsi di strumentazione di sostegno ed ascolto e non di pura eliminazione dei "pesi morti".

Nidi e materne

Dato il carattere della riforma a costo sottozero, nulla si dice nei documenti suddetti sulla scuola prima dei sei anni. Qualsiasi cosa infatti si dicesse su questo argomento sarebbe evidente la necessità di investimenti finanziari. Per esempio non é affatto chiaro come verrà finanziato l'ultimo anno della materna, reso obbligatorio: é abbastanza evidente che il Ministro immagina di farvi fronte con la grande "offerta" delle materne private. Eppure dato che si parla di "riordino dei cicli" e di visione "generale" ed "integrata" della formazione e della scuola, perché non si affronta il periodo pre-5 anni? Possiamo anche evitare di parlare di obbligatorietà, ma per lo meno di possibilità di frequentare nidi e materne.
L'offerta pubblica di posti nelle materne é insufficiente in tante zone d'Italia e i nidi (dove esistono) hanno un costo proibitivo. Eppure in Parlamento giacciono diverse proposte di legge (di cui una di iniziativa popolare che ha raccolto 150.000 firme) che trasformi il nido da servizio a domanda individuale a servizio garantito.
L'autonomia scolastica

Su questo punto si é centrata assai poco l'attenzione dei lavoratori. Quando ci si sofferma la prima spontanea reazione dell'insegnante di fronte a tante "libertà" (di varare nuove materie, cambiare programmi, scomporre le classi, promuovere corsi, stravolgere gli orari) é di piacevole sorpresa. Ma cerchiamo di andare più in profondità. La rigidità dell'attuale sistema scolastico non si confà alle esigenze delle aziende. L'autonomia (soprattutto nel "Patto per il lavoro") ha il dichiarato scopo di adeguarsi rapidamente alle esigenze formative del tessuto economico del territorio dove si trova la scuola. Solo con una struttura didattica estremamente flessibile questo é possibile. La libertà degli insegnanti dunque é del tutto apparente: é la libertà di capire (o adeguarsi) a delle esigenze che sono totalmente esterne al mondo della scuola ed agli studenti. È bene comprendere la logica: la flessibilità didattica é al servizio delle imprese (chiamato anche "mondo del lavoro") e non di "sperimentazioni" culturali che partono dai bisogni degli studenti o che seguano i moti più profondi della società.

Il privato

Dai documenti si deduce (anche se non é detto apertamento) che viene riservato un grosso ruolo ai privati. Innanzitutto riguardo alla materna: rendendone obbligatorio l'ultimo anno e non prevedendo investimenti, si può immaginare una situazione di legittimazione ed ampliamento (che già esiste da parte di molti Comuni) del finanziamento pubblico. Poi c'é tutta l'ambiguità sui "Centri di formazione", "Agenzie formative", ed altre varie dizioni presenti nei documenti: anche qui si deduce che non solo le entità già esistenti verranno integrate nel sistema (nel senso che saranno poste in concorrenza con le entità pubbliche), ma che il campo sarà libero per utili "investimenti" da parte dei privati e delle stesse aziende. E anche le scuole private riceverebbero una fortissima legittimazione sociale (presupposto del finanziamento pubblico, ora molto impopolare): dato che farebbero parte di un "sistema integrato", sarebbe logico che al pari degli altri soggetti del sistema godessero di almeno parte delle stesse risorse.

IL CUORE DELLA RIFORMA

La chiave per comprendere pienamente il carattere della riforma (basata sino ad oggi come si é detto su tre documenti) non sta nel riordino dei cicli dunque, che tanto interesse ha suscitato, ma su due piani, assai poco esplorati dai media e dai lavoratori: l'autonomia scolastica e i tagli. È questo demoniaco binomio che dà il tono complessivo della riforma. Ed é assai ingenuo chi si rallegra del fatto che dal DDL Bassanini é stata stralciata la parte sull'autonomia finanziaria (il contributo da parte delle famiglie, rimasto invece nel "Patto sul lavoro"), i conti si fa presto a farli: tagliando i fondi alle scuole e facendole navigare per conto proprio, saranno loro stesse, con le casse vuote, a chiedere ad alta voce piena autonomia finanziaria. Il che vorrà dire una cosa molto semplice: si creeranno due tipi di scuole. Quelle ricche: saranno quelle sulle quali punteranno le classi benestanti, le cui famiglie investiranno pagando alte tasse e tenendo con queste alla larga i figli di famiglie meno abbienti, oppure le scuole che risponderanno con grande solerzia alla necessità del "territorio" di avere un certo tipo di manodopera. Quelle con l'acqua alla gola (quasi certamente la maggioranza): saranno le scuole con una utenza centrata sui quartieri popolari oppure quelle che mal si adatteranno ai dettami delle aziende.

La concorrenza tra scuole

Le scuole diverrebbero così delle aziende che dovrebbero collocare sul mercato la propria merce: giovani pronti per il "mondo del lavoro". Come tutte le aziende, le scuole sarebbero in concorrenza tra loro, concorrenza vista molto positivamente nel documento del Ministro ("la formazione di tradizioni proprie delle singole istituzioni incoraggerebbe tra loro una concorrenza non basata solo su dati quantitativi"). Questa concorrenza provocherà danni oggi difficilmente immaginabili. Danni innanzitutto per l'utenza. Le scuole saranno portate a curare l'immagine (magari destinando figure appositamente preposte allo scopo) a scapito del contenuto; data la fame di lavoro e le comprensibili preoccupazioni dei genitori, il maggiore legame con il "mondo del lavoro" costituirà materia di vanto, si tenderà a gonfiare, falsare e inventare pur di attrarre utenza, e questo con la complicità di tutte le componenti, che troveranno vantaggioso per tutti che la scuola abbia più iscritti. Gli studenti, trovandosi di fronte ad innumerevoli opzioni, poiché come abbiamo detto, non ci saranno cento indirizzi come oggi, e nemmeno 11, ma un numero illimitato, saranno completamente disorientati, con una certa tendenza a lasciarsi abbagliare, se ne avranno la possibilità, dalla scuola che saprà "vendersi" meglio.

La democrazia interna

In una situazione di questo genere la riforma degli organismi collegiali (previsto dal DDL Bassanini) potrebbe anche portare ad un maggior peso di studenti e genitori: qual é il problema? La cosa non si tradurrebbe certo in una maggiore democrazia: dato che le scuole sarebbero in concorrenza e la loro sopravvivenza e stato di salute dipenderà dal numero degli iscritti e dal favore delle aziende, tra le varie componenti scolastiche ci sarà fortissima la tendenza a considerarsi tutti nella stessa barca. Anche i genitori faranno di tutto per difendere la "propria" scuola dalle altre, e molti di loro si offriranno anche per pulire, imbiancare, ecc. (sembra grottesco, ma accade già in molti nidi, sotto la minaccia che altrimenti maggiori spese comporteranno più salate rette). Le contestazioni studentesche saranno viste come il fumo negli occhi: che immagine potranno mai dare della scuola? Per non parlare delle occupazioni! Se si diffonde la voce che in quella scuola si sciopera sempre, chi si iscriverà più? Gli organi collegiali, in regime di autonomia, perderanno gran parte del proprio significato: sanciranno solo la sacra unione di tutte le componenti scolastiche di una scuola che sarà sola, in concorrenza con tutte le altre.

L'organizzazione interna

Le componenti interne, nella lotta perché la "propria" scuola sopravviva e si affermi, tenderanno a favorire un'organizzazione interna nel funzionamento quotidiano "ferma" ed "efficiente". In questa logica va l'attribuzione della qualifica dirigenziale ai Capi d'istituto. Saranno una specie di manager che potranno contare sulla collaborazione di una serie di figure che già in questi anni si sono cominciate a staccare dalla massa dei lavoratori. Formalmente insegnanti, già oggi alcuni di essi hanno distacchi di ore per svolgere mansioni di coordinamento, tutoraggio, programmazione, progettazione ("figure di sistema" previste dalla riforma).
Altro strumento che già ora si utilizza é quello dell'incentivazione, che oltre ad essere un potente strumento di divisione degli interessi dei lavoratori (spinti a entrare in conflitto tra loro per l'attribuzione di questi "premi di produzione") sono serviti a creare in molte scuole piccoli gruppi di lavoratori "privilegiati" (anche se per adesso si tratta quasi sempre di briciole) rispetto agli altri. La direzione dunque sarà quella di avere un'organizzazione interna gerarchica con un capo, un gruppo di intermedi (dotati di più soldi, potere e utilizzazione del tempo in compiti di direzione) e una massa di lavoratori.
Questa struttura gerarchica risponderà ad una sorta di Consiglio di Amministrazione: tale in questa logica diverrà il Consiglio d'Istituto in qualunque maniera esso venga riformato. Si aggiunga a questo quadretto che molti insegnanti saranno sempre più arruolati al di fuori dei concorsi a cattedre ("da superare" secondo il Ministro), quindi assunti direttamente dalla scuola, anche con contratti a termine, e da questa licenziabili. I lavoratori della scuola dunque saranno divisi anche sul piano delle certezze lavorative e dalla maggiore o minore ricattabilità da parte del Capo d'Istituto (o del "Consiglio di Amministrazione").
Non si vuole criticare la ricerca di efficienza di una organizzazione o la sua integrazione con il territorio, ma che ciò debba avvenire senza garanzie di equità e tutela in un'ottica economicista che permei a di sé le istituzioni e influenzi direttamente strutture, organici scolastici, contenuti e obiettivi didattici.

Il "mondo del lavoro"

I tre documenti a base della riforma sono sufficientemente chiari: la filosofia di fondo é quella della subordinazione (che viene chiamata "integrazione") al cosiddetto "mondo del lavoro", cioé le aziende. Nessun dubbio, nessun accenno critico a questo "mondo" (che fino a prova contraria non é precisamente Disneyland), ma soprattutto nessun accenno alla separatezza di obiettivi che dovrebbe (sottolineiamo dovrebbe) animare la scuola rispetto alle aziende. Il fatto stesso che fin dalla scuola uno studente venga inserito in un'azienda, viene visto di per sé positivamente. E perché? È un mondo che per valori e necessità blocca la crescita intellettuale, affettiva, coscienziale di qualsiasi giovane, con tendenze al peggioramento, visto la situazione di crescente erosione dei diritti in ambito lavorativo. Per questo é tra l'altro importante fare in modo che fino a 18 anni non vi si entri.
Il lavoro é per sua natura in questa società iper specializzato. Se un lavoratore non ha acquisito fuori, e questo fuori potrebbe essere la scuola, coscienza della logica complessiva che governa il lavoro, o anche il suo lavoro specifico, sarà un automa.
Questa é una riforma che ha al suo centro l'azienda, dobbiamo batterci perché abbia al suo centro la persona.

I giovani

Questa riforma non risponde alle domande che vengono dai giovani. Gli studenti, soggetto centrale dgael sistema scolastico, non sono stati realmentes interpellati e nel documento ministeriale non vengono neppure nominati. Ignora totalmente la disperazione sociale che si allarga tra strati crescenti di gioventù e che l'ondata liberista sarà destinata ad aumentare. Dobbiamo puntare ad una scuola che aiuti l'individuo a ragionare, a vedere criticamente il mondo che lo circonda, a crescere come cittadino consapevole portatore di diritti. Che c'entra l'azienda in tutto questo?
La riforma é tutta immersa nella preoccupazione di dotare l'"Italia" di un sistema integrato scuola/azienda che permetta di sopravvivere nell'epoca della competizione globale. La maggior parte dei lavoratori della scuola però (a parte i pochi fortunati, con contratto a tempo indeterminato e che lavoreranno nelle scuole ricche) si troverà a gestire la disperazione e la disgregazione sociale che entrerà a forza nelle aule. Non c'é insegnante che non se ne sia accorto: non sta forse aumentando di anno in anno la sofferenza psicologica degli studenti, che si esprime in forme sempre più difficilmente affrontabili senza misure repressive? Ma forse l'azienda ci salverà!

CHE FARE?

Questa riforma non é da dividere a pezzettini. Se la si prende a piccole dosi: i singoli bocconi si possono anche ingoiare. Che male c'é ad esempio a sopprimere le medie e sistemare il tutto il due cicli? È un delitto "dare la libertà" ai docenti di inventarsi nuovi percorsi formativi? Ecc. ecc. Il problema é che é l'intero pasto a risultare completamente indigesto. Non va emendato, va respinto nella sua logica profonda. Non é vero che é pasticciato o improvvisato: é in sé implacabilmente coerente. Si devono attaccare i criteri ispiratori della riforma nella prospettiva di ribaltarne la logica. Ciò non sarà possibile senza alimentare una significativa presa di coscienza generale e soprattutto dei lavoratori della scuola, degli studenti e dei genitori che eguagli per forza, coesione e chiarezza di obiettivi quello che a più riprese ha scosso ad esempio la Francia. Anche in Italia c'é questa possibilità se ci si sveglia dal torpore e dal dispiacere di vedere forze che fino a ieri pensavamo a difesa di una concezione democratica della scuola e che oggi vediamo fautrici, complici o rassegnati e rauchi critici di un disegno che gode del sostegno di forze non indifferenti: la Confindustria innanzitutto. Ricordiamo chi ha dato il via all'autonomia: il Ministro Giancarlo Lombardi, sotto il governo Dini, un ex quadro per la formazione della Confindustria. Dal basso dobbiamo dar vita ad un movimento che individui una serie di obiettivi che abbiano non caratteristiche "emendative" ma che siano capaci di per sé di creare contraddizioni insanabili nel disegno.
Proposta di obiettivi

La parola d'ordine centrale deve essere: più soldi alla scuola pubblica! Con adeguati finanziamenti le scuole sarebbero meno ricattabili dal "mondo del lavoro" e anche i processi legati all'autonomia rallentati o invertiti.
Inoltre si dovrebbe chiedere:
1) estensione dell'obbligo sino ai 18 anni
2) il primo triennio del ciclo secondario uguale per tutti
3) il secondo triennio deve essere vissuto a scuola, con la sola possibilità di brevi stage
4) nido e materna come servizio garantito e gratuito
5) difesa ed estensione del tempo pieno
6) secca diminuzione del numero di allievi per classe
7) eliminazione del Fondo d'Istituto e adeguamento salariale uguale per tutti
8) borse di studio per gli studenti delle famiglie con basso reddito

scheda 1
LA PROPOSTA DI RIFORMA DEI CICLI

La proposta é redatta con una inusuale (per le abitudini ministeriali) forma discorsiva che da un lato chiarisce sufficientemente la filosofia di fondo dell'impianto e dall'altro lascia molto sul vago una serie di questioni spinose. Quella che viene presentata come una "proposta" dovrà poi essere riscritta in forma di proposta di legge dopo "ampie consultazioni" con docenti, studenti, genitori.
Secondo questo progetto la scuola viene riorganizzata in due cicli, preceduti da un anno di materna reso obbligatorio. Il primo ciclo, chiamato primario, comprende sei anni e coinvolge i bambini dai 6 ai 12 anni, sommato all'ultimo anno della materna ("ciclo dell'infanzia") tale ciclo forma la "scuola di base". Il ciclo primario di 6 anni sostituisce gli attuali 5 anni delle elementari e i primi due delle attuali medie (sparirebbe dunque un anno). Il ciclo é diviso in tre bienni, dei quali i primi due sarebbero di "alfabetizzazione culturale" con lingua straniera e primi approcci alla tecnologia informatica e l'ultimo di "consolidamento" e "approfondimento dei saperi". Alla fine del ciclo gli allievi verrebbero sottoposti ad una verifica "con modalità diverse dal tradizionale esame".
Secondo il progetto il ciclo chiamato secondario sostituirà l'attuale terza media e i cinque anni delle superiori. Coinvolge i ragazzi dai 12 anni (l'età in cui, salvo inconvenienti, un ragazzo entra oggi in seconda media) ai 18 anni. È suddivisa in due trienni. Il primo chiamato "scuola dell'orientamento", dai 12 ai 15 anni, porterebbe alla conclusione la scuola dell'obbligo (che salirebbe dai 14 ai 15 anni). È costituito da un primo anno di materie fondamentali e da un gruppo di materie opzionali e "corrispondenti percorsi" ("corsi trimestrali", "esperienze con agenzie esterne", ecc.); e di un secondo e terzo anno durante i quali lo studente dovrebbe scegliere tra diversi indirizzi (ad esempio artistico, classico, scientifico, tecnico, professionale) "già nettamente caratterizzati". Al termine del terzo anno é previsto il primo esame di stato ("licenza della scuola dell'obbligo").
Il secondo triennio, "scuola superiore", ha un "carattere professionalizzante nel senso di offrire agli studenti indirizzi corrispondenti a grandi aggregazioni culturali-professionali" (da 7 a 11). "Centri di formazione" convenzionati possono offrire "moduli improntati al fare" e "percorsi integrativi per gli studenti che optassero "verso una scelta di maggiore professionalizzazione" "negli ultimi anni dell'obbligo". La natura di questi "Centri di formazione" non é ben specificata nel documento, probabilmente si intende l'insieme di quelle strutture, pubbliche e private, che offrono "corsi" al di fuori dell'organizzazione scolastica centrata sui due cicli. Le nuove norme previste nel "Patto sul lavoro" dovrebbero assicurare forme di integrazione tra scuola, formazione professionale e aziende.
Si sottolinea poi nella proposta l'insufficienza dell'attuale sistema di istruzione post diploma e la necessità di istituire corsi di istruzione e corsi di formazione tecnica superiore, anche se non sono chiariti i soggetti che dovrebbero farsi carico di questo allargamento dell'offerta

Scheda 2
L'AUTONOMIA SCOLASTICA

Gli articoli sull'autonomia scolastica, all'interno di un'ampia legge che tende a razionalizzare l'amministrazione pubblica, portano a termine un progetto già varato dal Ministro della Pubblica Istruzione Lombardi, ma che non era giunto in porto per traversie parlamentari. Gli articoli sull'autonomia non comprendono l'autonomia finanziaria degli Istituti. La parte della legge che si riferisce alla scuola comprende tre questioni. 1) la delega al Governo per emanare un decreto legislativo di riforma degli organi collegiali della Pubblica Istruzione (non si chiarisce concretamente in che senso) 2) il conferimento della qualifica dirigenziale ai Capi d'Istituto 3) gli articoli sull'autonomia scolastica.
Questi ultimi prevedono l'estensione ai circoli didattici, alle scuole medie, alle scuole e agli istituti di istruzione secondaria della personalità giuridica degli Istituti tecnici e professionali (a mano a mano che raggiungono determinati, ma non chiariti, requisiti dimensionali). Il che vuol dire che lo stato conferirà un fondo (la cui entità non é definita) ad ogni scuola la cui ripartizione sarà presumibilmente gestita dagli organi collegiali della scuola. Per la parte finanziaria vengono abrogate le disposizioni che prevedono autorizzazioni preventive per l'ccettazione di donazioni ed eredità.
Dal punto di vista didattico vengono superati i vincoli in materia di unità oraria della lezione e di unitarietà del gruppo classe e le modalità di organizzazione e impiego dei docenti. Restano fermi il numero di giorni di attività didattica annuale previsti a livello nazionale (e minimo di cinque giorni settimanali di attività didattica), ma gli obblighi annuali di servizio dei docenti possono essere assolti invece che in cinque giorni settimanali anche sulla base di una apposita programmazione plurisettimanale. Ogni scuola ha scelta libera e programmata di metodologie, strumenti, organizzazione e tempi di insegnamento, libertà di offerta di insegnamenti opzionali, facoltativi o aggiuntivi e di iniziative di utilizzazione delle strutture in orari extrascolastici.

scheda 3
IL PATTO PER IL LAVORO

La prima parte del documento (dedicato a scuola e formazione), redatto quattro mesi prima della proposta di Berlinguer, contiene già esplicitate le linee generali della riforma, con l'utilizzazione della stessa terminologia e addirittura di identitici periodi. Il "Patto" richiama la necessità di dotare le scuole di autonomia (all'epoca non era stata ancora approvata), anche finanziaria (perché possano "dialogare" meglio con le "esigenze del territorio") con contributo ai costi da parte dell'utenza. Si insiste sui Centri di formazione professionali (CFP, molti dei quali in mano ai privati), perché siano trasformati in non ben precisate "agenzie formative", sulla revisione di programmi e materie che valorizzino il "saper fare". Si afferma la necessità di sviluppare l'istruzione post secondaria, per conseguire "una dimensione di alta professionalità tecnica". Si dovrà inoltre "valorizzare il profilo formativo dell'apprendistato e dei contratti di formazione lavoro nonché prevederne un utilizzo più diffuso, modulato e flessibile". Il contratto di apprendistato é visto come frutto di un rapporto trilaterale (giovane, impresa, struttura formativa) sottolineando l'importanza della certificazione finale delle competenze acquisite da riportare sul "libretto di formazione". Ricordiamo che nel "Patto" il contratto di apprendistato, esteso a tutti i settori lavorativi, si rivolge ad una fascia di età tra i 16 e i 24 anni (26 a Sud) ed ha una durata compresa tra i 18 mesi e i 4 anni. Il forte legame che si vuol stabilire tra scuola e aziende deve dar vita a diverse strategie formative (formazione a tempo pieno, formazione a tempo parziale, alternanza di formazione e lavoro: queste formule non sono ulteriormente chiarite), alla generalizzazione di stage "a carattere fortemente orientativo e formativo", a "moduli aggiuntivi di formazione professionale nei piani di studio". Si insiste inoltre sulla "personalizzazione dei curricola" e su un sistema unificato di valutazione e certificazione.