L'"autonomia" dell'università.
La filosofia dell'autonomia applicata all'univerisità. REDS. Novembre 1999.


L'ennesimo tassello è stato posto al puzzle che, su ispirazione della Confindustria ed esecuzione della sinistra di governo, ridisegna in termini decisamente classisti l'intero sistema educativo italiano. Restano ormai soltanto da definire i dettagli della riforma degli Organi Collegiali e da approvare la legge sulla parità e il riordino dei cicli (che analizzeremo nel prossimo numero).
Il 3 novembre 1999, infatti, Ortensio Zecchino, ministro dell'Università e della ricerca scientifica e tecnologica, ha emanato il decreto-quadro che regolamenta l'autonomia didattica degli atenei. Il testo integrale del decreto, compostro di 13 articoli, è consultabile all'indirizzo web http://www.murst.it/regolame/1999/adqart3.htm
In questo testo normativo trovano applicazione i principi elaborati dal Gruppo di Lavoro ministeriale già ai tempi del governo Prodi. Essi sono: contrattualità, diversificazione competitiva tra gli atenei, pluralità delle offerte, flessibilità curricolare, mobilità delle risorse umane, valore formale del titolo di studio, sistema di crediti, liberalizzazione dell'offerta formativa, valutazione, rafforzamento della funzione di governo. Le logiche che li ispirano sono le stesse che presiedono l'intero progetto di ristrutturazione del sistema educativo nazionale.
Un'attenta analisi critica del documento del Gruppo di Lavoro ministeriale è stata prodotta dal Collettivo di Lettere di Pisa, e pubblicata sulla rivista siciliana "Città d'Utopia", n. 25, aprile 1998, di cui consigliamo la lettura integrale. In questa sede riportiamo solo le principali conclusioni a cui sono pervenuti gli studenti pisani, che sono le stesse a cui siamo giunti con le nostre analisi sugli altri interventi politici e amministrativi del governo sul mondo della scuola (autonomia, dirigenza, dimensionamento, ecc.):
· L'Università viene posta in una condizione di subalternità rispetto al mercato, terreno di azione di interessi estranei all'educazione.
· L'università si configura come un ente erogatore di servizi e prestazioni non un luogo di cooperazione. Gli studenti, estranei alla struttura universitaria, stipulano con essa contratti differenziati a seconda del rapporto pecuniario che ognuno di essi converrà con l'istituzione: tot tasse, tot servizi.
· I principi della differenziazione competitiva e della pluralità delle offerte aggravano gli squilibri già esistenti nel sistema universitario accentuando le disuguaglianze territoriali, economiche e sociali.
· La volontà di accentuare le differenze sociali è ancor più palese se si collega la riforma universitaria al riordino dei cicli: già a dodici anni lo studente (o meglio la sua famiglia), costretto dalle condizioni economiche, deve nei fatti scegliere se proseguire gli studi fino alla laurea o intraprendere un percorso professionale che gli consenta di inserirsi nel mercato del lavoro nel più breve tempo possibile.
· L'università corona la formazione classista delle giovani generazioni, mediante i criteri di accesso ai corsi determinati dalle affinità con gli studi superiori.
· Delegificazione e autonomia determinano un progressivo accentramento di poteri nelle mani di alcune figure istituzionali in nome della rapidità di intervento e dell'efficienza
· Le riforme si attuano in assenza di dibattito congiunto tra i soggetti attivi nelle università (docenti, studenti, personale amministrativo e ausiliario).
· La componente studentesca è sempre più marginalizzata sul piano della partecipazione agli ambiti decisionali.

Ad uso e consumo soprattutto degli studenti delle superiori diamo ora un'esposizione sintetica delle novità più rilevanti della riforma universitaria.

La gerarchia della formazione
I corsi di studio universitari e i relativi diplomi vengono strutturati su quattro livelli generali, più due intermedi, demandati ai singoli atenei (la tabella a fine paragrafo illustra l'organizzazione). In altre parole si istituiscono diplomi universitari di serie A, B, C, ecc., secondo i criteri della flessibilità dei curricoli e delle professionalità, funzionali alle esigenze del mercato, e contestualmente università e atenei di serie A e B, in virtù della clausola secondo cui i livelli superiori (III e IV) possono essere istituiti "esclusivamente in applicazione di specifiche norme di legge o di direttive dell'Unione Europea". I requisiti di ingresso descritti più avanti fanno sì che i diversi livelli di istruzione universitaria si conformino (o conformino) ai livelli e alle differenze sociali e culturali, cristallizzandole.
Il modello formativo che si disegna è profondamente autoritario e rigidamente scandito nelle tappe necessarie al conseguimento dei diplomi, non più differibili nel tempo e legate al sistema dei crediti: tre anni per la laurea professionalizzante (180 crediti), 5 anni per quella specialistica (300 crediti), 5 o 6 anni per la specializzazione (300-360 crediti). I master richiedono 1 anno (60 crediti).


 Corso di I LIVELLO  LAUREA  180 crediti
 Master di I livello corsi di perfezionamento scientifico e di alta formazione permanente e ricorrente  + 60 crediti
 Corso di II LIVELLO  LAUREA SPECIALISTICA  300 crediti
 Master di II livello corsi di perfezionamento scientifico e di alta formazione permanente e ricorrente  + 60 crediti
 Corso di III LIVELLO  SPECIALIZZAZIONE  300-360 crediti
 Corso di IV LIVELLO  DOTTORATO DI RICERCA  300-360 crediti

I crediti
Una delle maggiori novità introdotte dal decreto è quella dei crediti formativi universitari (art. 5).
I crediti misurano il carico di lavoro di ogni studente, fissato in 60 crediti annui. In base al fatto che 1 credito equivale a 25 ore la "quantità media di lavoro di apprendimento" (lezioni, seminari, laboratori, esercitazioni, studio individuale) di uno studente è di 1500 ore annue, di cui la metà, salvo particolari eccezioni, riservata allo studio personale. Ciò vuol dire che lo studente sarà necessariamente impegnato nella frequenza per non meno di 20 ore a settimana. Benché si preveda che i singoli atenei possano diversificare i crediti (carichi di lavoro, conoscenze e professionalità acquisite e certificate) degli studenti a tempo pieno rispetto a quelli degli studenti-lavoratori è chiaro che gli spazi per lo studente-lavoratore (anche lavoratore occasionale, come spesso sono gli studenti), già da tempo ridotti al lumicino, vengono in questo modo definitivamente relegati a un livello inferiore. I livelli superiori della formazione universitaria sono definitivamente preclusi ai proletari e alle classi sociali più deboli; l'alternativa è l'aumento dei sacrifici per le famiglie con studenti a carico. Quello che finora era nei fatti, con questo decreto, entra nel diritto.
Ogni "attività formativa" (corso monografico, seminario, esercitazione, ecc.) ha la sua dotazione di crediti, il cui ammontare è definito dagli specifici regolamenti delle singole università (artt.11 e 12). Per superare l'anno lo studente deve quindi prestare attività pari a 60 crediti, che deve poi conseguire sottoponendosi ad esami. Le modalità di valutazione del profitto sono demandate alle singole università. Il conseguimento del credito, che può non valere per il passaggio da una facoltà a un'altra o da un corso di studi all'altro, può anche non essere definitivo all'interno dello stesso corso, perché "i regolamenti didattici di ateneo possono prevedere forme di verifica periodica dei crediti acquisiti, al fine di valutarne la non obsolescenza dei contenuti conoscitivi". Lo studente non può più essere certo di avere una preparazione adeguata, né programmarsi con sicurezza un percorso formativo sempre più demandato a un giudizio superiore, tuttavia l'accumulo dei crediti è indispensabile per ottenere i diplomi ai vari livelli.

I requisiti di ammissione
Lo studente che si vuole iscrivere all'università, oltre al consueto diploma di secondaria superiore o affine titolo estero, deve possedere o acquisire "un'adeguata preparazione iniziale". Questo requisito è dato o dalla affinità tra studi superiori e università (ad es. liceo classico - facoltà umanistica) o dalla frequenza di corsi propedeutici con verifica finale (qualcosa di molto simile ai test di ingresso). Il mancato superamento della prova (o delle prove?) non preclude l'iscrizione, così come non la preclude una votazione finale all'esame di stato inferiore al punteggio minimo necessario per iscriversi ai corsi universitari "ad accesso programmato" (leggi: numero chiuso): fanno troppo gola le tasse universitarie! Lo studente però in tal caso si carica di "specifici obblighi formativi aggiuntivi da soddisfare nel primo anno di corso": ciò che nella scuola secondaria si chiama debito formativo, solo che qui si contrae non alla fine dell'anno ma subito all'inizio. Non c'è che dire: un bel modo per iniziare la carriera universitaria! Sicuramente avrà un effetto psicologico incoraggiante.
L'accesso ai livelli universitari superiori è ovviamente subordinato al possesso del diploma universitario di grado inferiore o del titolo di studio equipollente conseguito all'estero. Poiché il diploma si consegue accumulando crediti va da sé che perde di specifico valore: non è più l'attestazione universalmente valida di una preparazione culturale superiore, ma la certificazione del possesso di una serie di saperi, competenze, abilità individualizzate e transitorie. Si realizzano così, anche a livello superiore, le direttive del "Patto del lavoro" del '96, pietra angolare di tutta la ristrutturazione scolastica. Gli obiettivi formativi dell'università sono volti più all'acquisizione di competenze articolate e complesse indispensabili alla gestione delle attività superiori anziché di sapere critico indispensabili per la progettualità e l'intervento consapevole sulla realtà.

IL PATTO SUL LAVORO (24 settembre 1996)

Il "Patto" richiama la necessità di dotare le scuole di autonomia (all'epoca non era stata ancora approvata), anche finanziaria (perché possano "dialogare" meglio con le"esigenze del territorio") con contributo ai costi da parte dell'utenza. Si insiste sui Centri di formazione professionali (CFP, molti dei quali in mano ai privati), perché siano trasformati in non ben precisate "agenzie formative", sulla revisione di programmi e materie che valorizzino il "saper fare". Si afferma la necessità di sviluppare l'istruzione post secondaria, per conseguire "una dimensione di alta professionalità tecnica" e di "valorizzare il profilo formativo dell'apprendistato e dei contratti di formazione lavoro nonché prevederne un utilizzo più diffuso, modulato e flessibile". Il contratto di apprendistato è visto come frutto di un rapporto trilaterale (giovane, impresa, struttura formativa) sottolineando l'importanza della certificazione finale delle competenze acquisite da riportare sul "libretto di formazione". Ricordiamo che nel "Patto" il contratto di apprendistato, esteso a tutti i settori lavorativi, si rivolge ad una fascia di età tra i 16 e i 24 anni (26 a Sud) ed ha una durata compresa tra i 18 mesi e i 4 anni. Il forte legame che si vuol stabilire tra scuola e aziende deve dar vita a diverse strategie formative (formazione a tempo pieno, formazione a tempo parziale, alternanza di formazione e lavoro), alla generalizzazione di stage "a carattere fortemente orientativo e formativo", a "moduli aggiuntivi di formazione professionale nei piani di studio". Si insiste inoltre sulla "personalizzazione dei curricola" e su un sistema unificato di valutazione e certificazione.