La scuola in cui ci si ammala.
Critica al sistema scolastico italiano sotto forma di tesina di maturità. Anno scolastico 1999-2000. Di Lorenzo Picinali, V E liceo scientifico V. Veneto di Milano.


"Quando mai a scuola si impara qualcosa perché se ne ha davvero bisogno o perché si è mossi da una vera curiosità? Ci fu detto quali erano le regole della sintassi, la tassonomia delle piante e i quadri di Raffaello. Ma lo capimmo, lo imparammo davvero in quel momento, in quel trimestre, per superare l'interrogazione? [...]
Non c'è cultura senza piacere mentale, non c'è studio senza passione. Altrimenti, a scuola ci si ammala".
Alfonso Berardinelli

[...]

PROGRAMMA

Fisica: il condensatore

Matematica: il teorema di Rolle

Italiano: Leopardi, L'Infinito

Arte: Angeles Santos, surrealismo spagnolo

Storia e Filosofia: Croce, lo storicismo e i rapporti con la dittatura fascista

Latino: Giovenale, le satire (in particolare la satira n°14)

Inglese: Robert Louis Stevenson "L'elogio dell'ozio".

[...]

"C'era una volta una scuola in cui ci si ammalava.
Li dentro i ragazzi passavano le ore più noiose della loro vita seduti ad ascoltare una persona che cercava di insegnare qualcosa di utile, ma in realtà faceva disimparare al povero ragazzo tutto ciò che di più bello c'era nella vita: il gioco, la libertà e la felicità..."

Ho avuto il privilegio e la fortuna di poter concentrare tutta la mia vita di giovane sulla scuola, ma ho scelto di non farlo, e vorrei spiegarne il perché.
Non ho nulla di personale contro i professori, ma sono contro l'istituzione scolastica nel modo in cui è concepita ora; non si "guarisce" la scuola con inutili e blande riforme come quelle varate negli ultimi anni: quello che non funziona è qualcos'altro!
La "storia" che voglio raccontare in queste pagine non ha molto di diverso da questa, se non il tempo:
"C'è una scuola in cui ci si ammala...



1. (FISICA)

Vorrei raccontare un episodio che mi è accaduto qualche mese fa:
mi trovavo a casa di un amico coetaneo che come hobby ripara radio e televisioni, qualche volta mi capita di passare da lui per provare a seguirlo in una delle sue riparazioni, e lo stavo osservando mentre saldava uno strano componente su di un circuito; spinto dalla curiosità gli chiesi di che componente si trattasse, e lui mi rispose: "E' un semplice condensatore di tensione".
A quel punto "sfoderai" mentalmente tutte le mie conoscenze fisiche su quello strumento:

Due lastre metalliche aventi cariche opposte e poste l'una di fronte all'altra ad una distanza piccola rispetto alle loro dimensioni, costituiscono un condensatore.

Tra le due piastre, che vengono dette armature, si forma un campo elettrico, le cui linee di forza sono parallele e vanno dall'armatura carica positivamente a quella carica negativamente; l'intensità del campo elettrico prodotto da un condensatore è uguale alla somma dei campi elettrici generati dalle due armature. Possiamo osservare che i campi elettrici prodotti dalle singole piastre all'esterno si sottraggono mentre all'interno si sommano.
Tenendo conto che il campo elettrico di ciascuna armatura è costante ed è espresso dalla relazione:

E=o/2eo

dove: o=omega=densità superficiale di carica della lastra;

eo=epsilon 0=costante dielettrica nel vuoto;

concludiamo che il campo elettrico di un condensatore all'esterno è nullo, mentre nello spazio compreso tra le due armature è costante e uguale al doppio del campo prodotto da una piastra, perciò:

E=o/eo

Ogni condensatore ha una sua capacità, che è definita dal rapporto:

C=Q/V2-V1

dove V1 e V2 sono rispettivamente i potenziali dell'armatura negativa e di quella positiva, e Q è la carica di ciascuna armatura; poiché i potenziali V dipendono direttamente dalla carica Q, si può notare che la capacità non dipende dalla carica sulle armature, ma dalla geometria del condensatore stesso e dal dielettrico interposto tra le armature.

Tutto ciò che potevo dire sul condensatore era questo, ed effettivamente mi sentivo molto fiero di me per tutto quello che ricordavo. Ma, a pensarci bene, non sapevo assolutamente dire a che cosa servisse un condensatore in un circuito; così, con un po' di vergogna, chiesi al mio amico (che aveva fatto solamente la terza media) una breve spiegazione, e lui mi rispose:

Il condensatore di tensione è uno strumento che serve a mantenere un segnale stabile, cioè a "pulire" l'alimentazione, assorbendo gli eccessi e compensando i difetti; oppure può anche essere utilizzato per dare una grande quantità di energia in poco tempo: messo in serie con una resistenza, accumula tensione tanto quanto la sua capacità gli permette, dopodiché la scarica tutta in un tempo brevissimo (un esempio potrebbe essere il flash di una macchina fotografica).

Beh, il mio amico non sapeva tutto quello che sapevo io sul condensatore, anzi, probabilmente non aveva neanche la benché minima idea su come funzionasse, eppure sapeva come usarlo, sapeva dove inserirlo in un circuito e cosa avrebbe provocato: sapeva che cos'era realmente un condensatore.
Una volta tornato a casa, cercai sul libro di fisica e trovai, insieme ad un sacco di altre formule, qualche riga sulla sua utilizzazione concreta:

"...vengono usati per ridurre le fluttuazioni della tensione degli alimentatori, per generare o rivelare onde elettromagnetiche a radiofrequenza e quindi anche nella radio e nella televisione.
I condensatori, inoltre, trovano impiego come dispositivi per studiare il moto delle cariche nel campo elettrico generato fra le armature; la deviazione del puntino luminoso sullo schermo di un oscillografo è dovuta all'azione del campo elettrico di un condensatore su un fascio di elettroni che lo attraversano".

In dieci pagine che in cui si spiegava il funzionamento di questo strumento, vi erano solamente una decina di righe che toccavano l'aspetto pratico della spiegazione; allora a che pro imparare a memoria formule su formule se poi non si conosce l'aspetto più semplice e immediato di quello che si è studiato: la praticità?
Il programma della V liceo scientifico è incentrato sull'elettromagnetismo, ma quando uno studente esce dal liceo, non sa nemmeno dove mettere le mani in un circuito d'appartamento o in un qualsiasi circuito di televisione o di radio. In molti si giustificano dicendo che il liceo scientifico non è un istituto tecnico, ma a che cosa serve tutto ciò che si impara in teoria se poi non si ha la benché minima idea di cosa questo significhi in pratica?
Io trovo che se tutte le ore di fisica fatte in cinque anni (pensate che sono più di trecento!) fossero svolte tenendo conto dell'aspetto pratico della materia, non dico che dal liceo uscirebbero dei tecnici, ma almeno delle persone ingegnose e pronte a risolvere ogni piccolo problema quotidiano relativo agli argomenti studiati, e questo è molto di più che persone che ricordano a malapena qualche regola e qualche formula.
Mi rendo conto che sto implicitamente estremizzando la mia posizione in questi discorsi; faccio ammenda e preciso: perchè non dev'essere possibile accompagnare costantemente alle nozioni teoriche delle nozioni "operative" e delle "pratiche" che, oltre a dare un senso concreto a ciò che si studia, rendano lo stesso studio più attraente e vivo? Oppure: non è possibile procedere induttivamente dall'esperienza alle formule, alle definizioni?
In alcuni casi, è vero, ciò non è possibile; ma sono certo più numerosi quelli in cui si può essere più "induttivi", più "naturali", meno "artificiali".


2. MATEMATICA

"Qualche tempo fa mi capitò di incontrare a Copenhagen una ragazza quattordicenne che aveva passato tre anni a Summerhill dove aveva imparato a parlare l'inglese alla perfezione. 'Immagino che in Inglese sarai la prima della classe', le dissi.
Mi rispose con una smorfia afflitta: 'No, sono l'ultima della classe perché non so la grammatica'. Credo che questo sia il migliore esempio di quel che gli adulti pensano debba essere l'educazione."
(Alexander S. Neill)

Quando un ragazzo esce da un qualsiasi tipo di scuola, è un dato di fatto che abbia affrontato un discreto numero di materie e che possa esibire una certa conoscenza in ognuna di queste. Ma avete mai provato a chiedere ad uno di questi di parlarvi di Pascoli, o di Verga, o di Newton o del teorema di Cauchy? La risposta che otterreste è, nella migliore delle ipotesi, una sfilza di nozioni ordinate in un discorso dal quale non potrete tirar fuori nulla di più che da un manuale di storia, di filosofia, di italiano, di fisica... Nozioni, nozioni, nozioni e ancora nozioni!
Eppure tutti sanno che c'è una bella differenza tra il memorizzare una materia e il conoscerla; c'è una persona che considero brillante in matematica, ad esempio, e che più volte mi è stata d'aiuto, ma non è mai stata valorizzata adeguatamente a scuola.
Il punto è che l'imparare un qualcosa non comporta sempre il capirlo, anzi... ed è proprio qui che entra in gioco la bravura dell'insegnante: uno studente può aver dei bei voti in filosofia eppure non capirci niente, così come può parlare benissimo in inglese ed avere insufficiente. A che cosa serve saper parlare di Kant quando non si ha la benchè minima idea di cosa in realtà significhi quello che si sta dicendo, e a che cosa serve a chi sa parlare l'inglese di imparare qualche stupida regola che sa applicare ma non citare?
Non è detto che chi esce dal liceo con un buon voto di maturità possa essere competente nelle materie studiate, e per competente intendo il conoscere una disciplina tanto da poterne discutere e da poterla utilizzare nella vita di tutti i giorni; non di rado sono le persone che hanno studiato di meno ma pensato di più che riescono a rendere utile il tempo passato sui libri e ad utilizzare in modo appropriato le conoscenze acquisite.
La scuola valorizza una parte dell'apprendimento che, benchè risulti utile, non è assolutamente la più importante.
Vorrei provare a farvi un esempio; enuncerò e dimostrerò un qualsiasi teorema matematico così come mi viene insegnato a scuola:

Teorema di Rolle
Se una funzione è continua in un intervallo chiuso e limitato [a,b], è derivabile in ]a,b[ e assume valori uguali agli estremi:

f(a)=f(b)

esiste almeno un punto xo interno all'intervallo in cui la sua derivata si annulla:

f'(xo)=0

Dimostrazione
Essendo la funzione continua nell'intervallo chiuso e limitato [a,b], per il teorema di Weierstrass ammette, nell'intervallo, dei punti di massimo e minimo locali. Prendiamo in considerazione due eventualità:

1 Se il minimo m e il massimo M vengono assunti in due soli punti che coincidono con gli estremi, essendo per ipotesi f(a)=f(b), ne segue che m=M; se il minimo coincide con il massimo, detto c il loro valore, ne risulta che:

c<=f(x)<=c

e cioè:

f(x)=c

Allora la funzione risulta una costante, quindi la sua derivata è sempre nulla.

2 Se il minimo o il massimo o entrambi vengono assunti in punti interni all'intervallo, si prenda per esempio xo tale che f(xo)=M. Poichè xo è un punto di massimo interno ad [a,b] e la funzione è derivabile in tutti i punti di ]a,b[, e quindi anche in xo, per il teorema secondo il quale nei punti di massimo o minimo locali di una funzione derivabile interni al dominio la derivata vale 0, si avrà:

f'(xo)=0

Definizioni e dimostrazioni di teoremi come questa vengono perlopiù imparate a memoria, e questo risulterebbe assolutamente inutile se lo scopo dell'insegnamento della matematica fosse compiere una vera analisi del teorema, capirlo e provare ad elaborare una propria dimostrazione. Io ho fatto un tentativo di rielaborare sia la definizione che la dimostrazione, ho provato ad analizzarle e a riscriverle in termini comprensibili anche per chi non conosce la matematica; questo è quello che ne è venuto fuori:

In parole povere il teorema dice che, presi due punti a e b posti alla stessa altezza, quindi con le stesse coordinate y, e disegnata una qualsiasi curva che parta da a e arrivi a b, questa abbia almeno in un punto la tangente orizzontale, quindi parallela all'asse delle x.

Ammesso per ipotesi che la curva non possieda angoli, è ovvio stabilire che il punto, o meglio, i punti in cui la tangente alla curva è orizzontale siano quelli nei quali la curva da crescente (in "salita") diventa decrescente (in "discesa"), e viceversa. Ma dato che in matematica la parola "ovvio" è poco usata, cerchiamo di dimostrare anche quest'ultima parte: suddividendo in piccolissime parti la curva, scopriamo che in realtà questa è formata da una moltitudine di brevissimi segmenti che formano tra di loro un angolo molto vicino ai 180°. Notiamo che nei punti in cui la curva passa dall'essere crescente all'essere decrescente, e viceversa, i segmenti si "raddrizzano" sempre di più fino a diventare orizzontali, per poi "ricurvarsi" e tornare a scendere o a salire; sapendo che la tangente di una retta è la retta stessa, ne deduciamo che in questi punti la tangente è orizzontale.
Ora distinguiamo i due casi:
1 Se a e b sono uniti da una retta, qualsiasi punto preso su di questa avrebbe tangente orizzontale, essendo per ipotesi questa retta orizzontale ("la tangente di una retta è la retta stessa").
2 Se invece tra a e b passa una curva qualsiasi, dovranno per forza esserci uno o più punti interni all'intervallo nei quali la curva da crescente diventa decrescente o viceversa, poiché altrimenti non potrebbe assolutamente ritornare all'altezza di partenza.

Sicuramente qualsiasi professore di matematica inorridirebbe nel sentire una dimostrazione del genere, piena di termini impropri e di imprecisioni, ma al contrario molti studenti, magari non particolarmente portati per la matematica, afferrerebbero il vero significato del teorema e riuscirebbero a capirlo meglio: potrà sembrare strano, ma ho fatto leggere la "mia dimostrazione" a qualche coetaneo, che mi ha confessato di non aver mai capito il teorema ma di averlo semplicemente imparato a memoria, dimostrazione compresa.
Trovo sia fondamentale che gli argomenti trattati vengano capiti, e per permettere ciò è necessario che i metodi di insegnamento siano più comprensibili da parte di tutte le tipologie di alunno: non è assolutamente detto che un allievo con una mente poco matematica che frequenta il liceo scientifico, debba poi studiare matematica e fisica per tutta la vita, mentre è sicuro che chi è portato per le materie scientifiche, le imparerà, qualsiasi sia il modo in cui gli vengono insegnate, e in ogni caso chi capisce ricorda a lungo, mentre chi impara a memoria spesso dimentica in fretta.


3. ITALIANO-STORIA DELL'ARTE

"...se per qualche motivo un insegnante non può tenere la sua lezione nel giorno stabilito, agli allievi generalmente la cosa dispiace molto. [...]
Pochi anni fa, all'Assemblea Generale, qualcuno propose di punire un colpevole con la sospensione delle lezioni per una settimana. Gli altri allievi protestarono ritenendo la punizione eccessiva."
(Alexander S.Neill)

Appena il bidello entra in classe, già si vede qualche occhio che si illumina; l'insegnante prende il foglio e inizia a leggere: "Domani entrerete un'ora dopo, la professoressa di matematica è assente".
A questo punto, la felicità è così grande che invade tutta la classe: c'è un momento di caos, tutti si alzano in piedi, stringono le mani ai compagni di banco, si abbracciano...Dopo qualche minuto torna la calma, ma negli occhi di ogni studente si può intravedere la mattinata del giorno dopo, con un'ora in meno di matematica e un'ora in più di sonno.
In questo modo ho messo due immagini a confronto: degli studenti rattristati per un'ora di insegnamento persa e degli studenti gioiosi per lo stesso e identico motivo; come si può spiegare tutto ciò?
Ci ho pensato a lungo, e questo è quello che ne è venuto fuori: lo studente di oggi non è più spinto da un interesse per le lezioni, da un interesse nell'imparare cose nuove, dalla voglia di conoscere. Purtroppo, il costringere uno studente ad imparare qualcosa è assolutamente controproducente, nel senso che oramai si è perso ogni interesse vivo per la cultura: uno studente che al liceo passa notti insonni a studiare Hegel, raramente lo fa perchè effettivamente Hegel e la filosofia gli piacciono; lo fa tuttalpiù per prendere un buon voto nell'interrogazione e, dopo questa, gli interessa poco che le conoscenze assimilate rimangano nella sua testa.
Oramai la scuola è diventata un obbligo faticoso al quale si deve in ogni caso adempiere, quindi anche le materie studiate, a furia di essere imposte, diventano noiose.
Molte volte mi capita di pensare al tempo in cui Platone insegnava nell'Accademia, agli studenti che facevano a gara per poter ricevere il suo insegnamento, che affrontavano lunghi viaggi pur di sentir parlare il filosofo: e lui che cosa insegnava? Insegnava tutto ciò che un uomo poteva sapere a quel tempo.
Deve far riflettere il fatto che adesso tutto lo scibile umano (ed è molto di più di quello che si poteva sapere 2300 anni fa) è racchiuso in milioni di libri, che a scuola ne viene insegnata una parte, ma che gli studenti fanno a gara per fuggire dalla scuola, piuttosto che per entrarci.
Il fatto è che si è perso tutto il piacere che c'è nell'imparare, quindi non si studia più per una soddisfazione personale, ma per un bel voto, e purtroppo di questo ci s'accorge troppo tardi. Conosco più di una persona che è uscita dal liceo con voti alti e ora fa l'università, ma che soltanto dopo qualche anno si è accorta di non conoscere adeguatamente la storia, e solo adesso si è messa a studiare un manuale con vero interesse: pensate a quanto tempo ha buttato via studiando per un voto!
Un'amica mi spedì, il mese scorso, una cartolina da Madrid. Rappresentava un quadro intitolato "Un Mundo" (Angeles Santos), e sul retro, di sua mano, l'amica aveva riportato per intero e con precisione l'"Infinito" di Leopardi.
[...]

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi al di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.

G. Leopardi


A scuola avevo imparato una serie di "nozioni" su questa poesia:

È stata scritta da Giacomo Leopardi, nato nel 1798 a Recanati; la sua infanzia, dominata dal padre, intellettuale reazionario, e dalla madre energica e bigotta, si conclude con sette anni di studio "matto e disperatissimo", dai quali esce fisicamente rovinato, ma eccezionalmente colto. In questa età compone testi letterari che imitano i modelli classicistici dominanti (tragedie, liriche, epigrammi) e opere erudite. Nel 1817, dopo aver conosciuto Pietro Giordano, classicista che gli offrirà sempre stima e conforto, inizia la stesura dello Zibaldone, un diario in cui annota fino al 1831 osservazioni su temi personali, filosofici e letterari. Nel 1819, dopo il manifestarsi dei sintomi di una grave malattia agli occhi, tenta di nascosto la fuga da Recanati, ma viene scoperto e la sua prigionia a casa riprende; è anche l'anno che segna la svolta ideologica dalla fede ad una visione materialistica della realtà, da una letteratura stilisticamente elaborata e moralmente nobile alla concezione di una poesia-filosofia. Negli anni successivi compone le canzoni filosofiche e gli idilli (tra cui L'infinito). È questa la fase del cosiddetto "pessimismo storico", secondo cui gli uomini dell'antichità erano felici in quanto ingannati dalle illusioni offerte dalla Natura, mentre i moderni sono infelici perchè la ragione ha loro svelato la verità di un'esistenza dominata dalla precarietà e dal dolore.
Primo tra gli idilli, L'infinito ha uno spicco eccezionale nella poesia leopardiana; in esso Leopardi comincia a dar forma alla sua concezione di una liricità incentrata sulla ricerca di un linguaggio tendente al "vago" e all'"indefinito" e sull'esplorazione della soggettività (poeta che parla in prima persona, memorie personali, ambientazione in luoghi familiari).
Il breve componimento si può così scomporre:

vv.1-3 indicazione, ma senza limiti descrittivi, di uno spazio concreto (l'area ristretta delimitata dalla siepe) e di uno specifico personale (la consuetudine del salire sul colle e lo stato d'animo che vi si accompagna);
vv.4-8 processo di astrazione, visione mentale dello spazio. Il passaggio dal primo momento a questo successivo è accentuato dall'avversativa con cui si apre il periodo (v.4 Ma) e dai due gerundi ("sedendo e mirando") che indicano non un'azione definita ma una durata;
vv.8-13 un evento minimo (v.9 "odo stormir") segna il trapasso dall'immaginazione spaziale a quella temporale. Si instaura la contrapposizione tra spazio concreto e tempo presente (voce del vento "tra queste piante" e suono della stagione "presente e viva") / spazio e tempo immaginati nel pensiero (silenzio dello spazio e delle "morte stagioni");
vv.13-15 il pensiero smarrisce; lo smarrimento genera piacere.

È possibile inserire Leopardi nella tendenza generale della cultura ottocentesca a rappresentare la lingua spaziale, e cioè il concetto di spazio che consente poi di situare esperienze e oggetti; descrive quindi quella che considera la base del testo, il modello spaziale su cui esso è costruito (opposizione tra uno spazio interno e uno spazio esterno separati da una differenza di cui la siepe è il segno visibile). Si possono individuare le tensioni e le contraddizioni che generano movimenti contrapposti nelle due parti in cui il testo si può dividere: nella prima è l'esterno che penetra nell'interno grazie all'operazione della coscienza che lo assorbe e lo domina, nella seconda è il mondo interno che si disperde e si dissolve nell'esterno (Lotman).

Avrei imparato in seguito che il quadro è stato dipinto da Angeles Santos, nato nel 1912 e non ancora morto; che è un esponente del surrealismo spagnolo; che questo movimento, rifacendosi alla tradizione romantico-simbolista, vuole abolire ogni frontiera, arricchendo il "conscio" con l'"inconscio". Avrei imparato che la particolarità del dipinto sta nella centralità del mondo, che si trova tra la luce del sole e il buio della notte, che è abitato da angeli buoni che si elevano verso il cielo, e angeli cattivi che accendono delle fiaccole dal sole.
Ma a scuola non avevo mai capito quanto fosse bella questa poesia, quanto Leopardi fosse riuscito a trasmettere un sentimento così profondo e complesso in solo 15 versi, quanto fossero forti le parole usate e quanta tristezza si poteva intravedere tra queste. Non avevo mai apprezzato la sua musicalità, soprattutto se letta guardando il "dipinto" di Santos; non avevo mai provato il piacere di perdermi tra le righe e tra i colori, provando ad interpretare con i miei sentimenti ciò che entrambi gli artisti volevano comunicare.
Avevo scoperto quanto in realtà amavo la poesia e la pittura, e non me lo sarei mai immaginato!
Scopersi solo dopo quanto pittura e poesia, unite alla musica (non ho mai capito perchè questa non si studia a scuola), si completassero a vicenda formando un tutt'uno fantastico e inscindibile.
So che, come un professore di ed. fisica non può insegnare l'agilità, così un professore di letteratura o di arte non può insegnare il gusto o l'espressione, ma mentre l'insegnante di ginnastica propone degli esercizi per poter raggiungere lo scopo prefissato, l'insegnante di italiano non fa altro che interpretare, a modo suo o secondo i canoni di importanti studiosi, le poesie che si trova davanti; non mi è mai capitato, in cinque anni di liceo, di sentirmi chiedere: "Allora, dimmi cosa ne pensi di questa poesia, dimmi che sentimenti ti trasmette, dimmi che interpretazione ti piacerebbe dare a questo passo...".
A scuola non si può insegnare a diventare artisti o poeti, ma si può indicare la giusta strada per apprezzare la poesia e l'arte: un ragazzo che esce dal liceo, se ha studiato, è in grado di fare un commento e una parafrasi quasi perfetti di una qualsiasi tra le poesie affrontate durante l'anno, ma sono pochi i ragazzi che riescono ad apprezzare davvero la poesia, e se ne sono in grado non è assolutamente detto che l'abbiano imparato a scuola.
Trovo che questo sia uno dei tanti esempi di come la scuola renda noioso ciò che in realtà è bellissimo e piacevole, impoverendo lo studente di un aspetto unico e importantissimo: il sentimento.

 

4. (STORIA-FILOSOFIA)

Mi ha sempre affascinato lo studio della storia e della filosofia, dal quale ritenevo di poter trarre un insegnamento utile per la mia vita; i programmi scolastici hanno però deluso in gran parte le mie attese. In filosofia si studiano talmente tanti filosofi che non resta il tempo per "impossessarsi" del loro pensiero e si finisce per impararli a memoria: quale studente ha mai provato a giudicare con mente propria le lezioni di vita di Socrate o di Platone? Mi rendo conto che alla nostra età è ancora troppo presto per "filosofare", ma quando mai impareremo a farlo se non ci proviamo? E lo stesso vale per la storia: quante cose utili si possono imparare da un avvenimento di storia contemporanea! Purtroppo invece lo studio della storia e della filosofia si riduce spesso ad un semplice apprendimento senza riflessioni, e quindi senza insegnamenti. D'altra parte l'organizzazione dei programmi di storia e di storia della filosofia risulta completamente "sfasata" dal punto di vista cronologico, e questo rende oltremodo problematico il dialogo tra le due discipline.
So che è difficile, da un momento all'altro, passare dal semplice studio alla riflessione, ma per iniziare trovo sarebbe utile elaborare in classe dei brevi percorsi nei quali sottolineare il pensiero di un filosofo in relazione agli avvenimenti storici del periodo storico in cui è vissuto. Così ho provato a riflettere sullo storicismo di un importante filosofo contemporaneo, Benedetto Croce, in relazione a ciò che accadde in Italia durante la sua vita:

LO STORICISMO DI BENEDETTO CROCE IN RELAZIONE ALL'AVVENTO DEL FASCISMO

Seguendo l'evoluzione dello storicismo crociano, possiamo fissare il primo momento significativo nello scritto pubblicato nel 1893, La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte. Qui Croce crea la distinzione tra scienza che "cerca sempre il generale" e storia che "narra i fatti", riducendo così la storiografia a quella specie particolare di arte che è la "rappresentazione del realmente accaduto", e interpretandola come agire umano: "La storia la facciamo noi stessi, tenendo conto, certo, delle condizioni obiettive nelle quali ci troviamo, ma coi nostri ideali, coi nostri sforzi, con le nostre sofferenze, senza che ci sia consentito di scaricare questo fardello sulle spalle di Dio e dell'Idea"
Nel 1906 esce uno scritto nel quale il filosofo sembra "ritrattare" la propria concezione di storia (Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel): difatti, tra il 1895 e il 1906, Croce legge e si confronta con Marx (critica al materialismo storico, considerato come un "buon paio di occhiali" che consentono di scrutare meglio nelle vicende storiche ma non rappresentano affatto una valida filosofia della storia) e con Hegel (critica alla dialettica degli opposti).
Lo storicismo crociano si trasforma così da storia dell'uomo in storia dello spirito. In quanto tale, la storia viene ad avere come soggetto lo spirito e come mezzo l'uomo; quest'ultimo è spinto ad agire per la sua utilità e, facendo ciò, permette allo spirito di realizzarsi. È perciò una storia razionale e progressiva, che supera in un certo senso la teoria hegeliana di storia fatta dagli stati, proponendo una storia dello spirito, che utilizza come mezzo l'uomo.
All'interno di questo storicismo assoluto, è importante chiarire la concezione che Croce ha della libertà: questa non è più la possibilità di scelta che ogni uomo ha per se stesso, ma perde il suo individualismo e diventa la vita dello spirito.
A questo punto, è necessario fermarsi nell'analisi dell'evoluzione dello storicismo crociano per ricostruire ciò che successe in Italia dal primo dopoguerra in poi.

Nascita e sviluppo del fascismo in Italia

L'Italia, nell'immediato dopoguerra, si presenta da un lato come un paese decisamente rinnovato nella struttura sociale ed economica, dall'altro come uno Stato in preda ad una gravissima crisi sociale e politica di cui la classe dirigente liberale non pare accorgersi.
Difatti, la guerra ha determinato importanti sconvolgimenti sociali, e gli equilibri su cui si fondano Stato e società diventano molto presto precari:

Lo Stato liberale non è in grado di capire le richieste qualitativamente nuove che sorgono dal movimento operaio e dal mondo contadino.

La classe politica ha perso quei margini di consenso che le avevano permesso la prosecuzione delle politiche interne ed estere.

La vecchia classe politica, nella sua incapacità di agire, fa sorgere tra la popolazione atteggiamenti di radicale polemica nei confronti delle istituzioni.

Le difficoltà economiche dovute alla riconversione postbellica non sono state arginate con i mezzi giusti, e l'Italia si trova in una situazione nettamente sfavorevole nei confronti delle altre potenze vincitrici.

In questo modo la società civile, e in primo luogo il movimento operaio e contadino, non trovando risposta politica alle proprie richieste, non può che esprimersi nei movimenti ostili allo stato liberale: il Partito Socialista e, dal 1919, il Partito Popolare. Questa situazione si concretizza nelle elezioni del 1919, con il cosiddetto biennio rosso, seguito direttamente dai governi Giolitti (1920-1921), Bonomi (1921-1922) e Facta (1922): questi ultimi due risultano però assolutamente inadeguati alla situazione economica, politica e sociale in cui l'Italia si trova.
Nello stesso periodo, di fronte alla dilagante fobia del pericolo rosso, Benito Mussolini, ex socialista espulso dal partito, fonda il Movimento dei fasci di combattimento (marzo 1919); già nelle elezioni del 1921, i fascisti di Mussolini possono contare in parlamento ben 35 seggi. Da questo momento gli avvenimenti precipitano con il manifestarsi di episodi di violenza squadrista sempre più frequenti e con la Marcia su Roma nell'ottobre del 1922: così Vittorio Emanuele III, timoroso di mettere a repentaglio la monarchia con un eventuale scontro con il fascismo, incarica Benito Mussolini di formare un nuovo governo (30 ottobre 1922).
Il governo presieduto da Mussolini sembra essere il solo capace di ristabilire la pace sociale, e anche i politici più esperti sottovalutano il pericolo fascista; nella prima fase, detta fase legalitaria (1922-1924), Mussolini adotta una linea relativamente "morbida", cercando così di ottenere appoggi politici e rispettabilità per il suo governo. Tra le iniziative più rilevanti:

Riorganizza la struttura prefettizia, permettendo agli squadristi di far fronte ai tumulti operai.

Organizza il Gran Consiglio del Fascismo e la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.

Fonde il Partito Fascista con il Partito Nazionalista, costringendo alle dimissioni i ministri popolari critici nei confronti del governo.

Argina la crisi aperta dal caso Matteotti (socialista che, dopo aver presentato alla camera un discorso in cui provava i brogli elettorali del governo fascista, sparisce misteriosamente).

Nel gennaio del 1925, con un discorso alla camera nel quale si assume le responsabilità civili, politiche e morali del caso Matteotti, pone fine alla fase di transizione che ha visto il fascismo convivere con le istituzioni liberali e dà inizio alla fase dittatoriale del suo governo.

Esautoramento del Parlamento e concentrazione delle cariche del governo e del partito nella figura del Duce.

Istituzione del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato.
Forte attività per l'organizzazione del consenso attraverso le istituzioni tradizionali (scuola) e le organizzazioni paramilitari (l'Opera Nazionale dei Balilla).

Introduzione di un nuovo sistema elettorale (legge elettorale maggioritaria elaborata dal sottosegretario Acerbo, che assegna i 2/3 dei seggi alla camera alla lista che ottiene la maggioranza relativa e il restante terzo alle lista battute nelle elezioni).

Messa fuori legge di tutti i partiti di opposizione al fascismo.

Con quest'ultima riforma, si può dire che lo stato Italiano passa realmente dalla democrazia al totalitarismo, ancorché imperfetto (sia per la presenza della monarchia come vertice del potere, sia per la presenza della Chiesa che contende al fascismo il controllo di vasti strati della popolazione).

Ora possiamo proseguire nell'analisi dello storicismo di Croce: come reagisce il filosofo, che aveva sviluppato una visione progressiva della storia, di fronte alla nascita e allo sviluppo della dittatura fascista?
Già il ravvedimento sulla natura del fascismo, dopo il delitto Matteotti, lo aveva portato a riesaminare la distinzione delle forme dello spirito, in particolare l'autonomia della politica rispetto all'etica, avvedendosi della necessità di esprimere un giudizio morale anche per la storia, e rivedendo il concetto della storia come progresso. È proprio in questa situazione che riscopre la libertà come valore in sé e per sé, e la storia diventa storia della libertà; nella Storia d'Europa nel secolo decimonono (1932), la presa di coscienza della libertà viene posta alla base della vita civile, diventando "religione della libertà".
Ma, con la fine della seconda guerra mondiale e del fascismo in Italia, la rigidità di fondo del sistema crociano rimane intatta; nel 1949 Croce scrive: "L'attore, l'unico attore della storia è lo spirito del mondo, che procede per creazione di opere individue, ma non ha per suoi impiegati e cooperatori gli individui, i quali, in realtà, fanno tutt'uno con le opere individue che si vengono attuando e, tratti fuori di esse, sono ombre di uomini, vanità che sembrano persone" (Filosofia e storiografia).
Quanto al progresso, Croce ribadisce che esso deriva dalla tensione tra valore e disvalore e che la vittoria sempre arride al primo. Anche se si può assistere a regressi e decadenze (fascismo, nazismo e stalinismo), questi "se hanno luogo nel nostro sentimento edonistico, e come manifestazione di questo, effettivamente non hanno luogo nella storia, perché in quei tempi si prepara con vario travaglio e molteplici prove e tentativi, nuova materia di vita per nuove opere, cioè nuovi progressi, non attingibili e non concepibili senza quell'intermedio, che per sé non è soggetto di storia, ma nota di cronaca dolorosa e vergognosa".


5. (LATINO)

Decimo Giunio Giovenale nacque nel Lazio, ad Aquino, intorno al 60 d.C., ma visse a Roma, dove condusse una vita modesta esercitando l'avvocatura. Fu, come Orazio e Persio, seguace della filosofia stoica, per cui si mantenne, in mezzo alla corruzione dei più, singolarmente illibato. All'età di circa 80 anni fu mandato in esilio dall'imperatore Adriano (in Egitto, o secondo altri in Caledonia) per avere, nelle sue satire, offeso il ballerino Paride, favorito del medesimo imperatore.
Con Giovenale si chiude la storia del genere satirico a Roma. Rispetto alle Saturae di Lucilio molto è cambiato: ad esser prese di mira sono per lo più figure esemplari fittizie o idealizzate; oppure personaggi di un passato non troppo lontano, dei quali vengono posti in risalto quei difetti che si possono osservare anche nella realtà degradata dell'oggi. Giovenale rivela il disagio di un periodo storico in cui l'esercizio della libertà di parola non era più praticato e mostra la tendenza del genere a indirizzarsi verso temi generici, esemplificandoli con episodi tipici tratti dalla vita quotidiana.
Di Giovenale ci sono arrivate sedici satire, di cui l'ultima incompiuta, divise in cinque libri. Possono essere divise in due gruppi: le prime nove hanno intonazione più aggressiva e sono specialmente dirette verso i mali della società, le altre sette, scritte in età senile, sono meno aggressive e di carattere più morale che sociale. Giovenale utilizza una sorta di satira del passato: essa descrive e "sferza" la società del tempo di Domiziano, mentre l'autore scriveva sotto gli imperatori Traiano e Adriano, che furono buoni principi; la satira non ha il sorriso bonario di Orazio o l'austera severità di Lucilio e dello storico Persio, ma è colma d'ira, che accende l'elevatissimo carattere morale del loro autore. E poiché l'autore ferisce delle ombre, si ha esagerazione retorica sia nel contenuto che nella forma.

A prima vista, Giovenale mi è sembrato assolutamente identico agli altri autori latini affrontati durante quest'anno: il solito personaggio che finisce in esilio per aver offeso l'imperatore... dopo qualche tempo, la letteratura latina diventa di una noia incredibile.
Così ho deciso di andare un po' nel particolare, approfondendo lo studio dell'autore con la lettura di qualche sua opera; mi ha molto incuriosito la XIV satira, il cui contenuto è così riassunto in un manuale: "tratta dell'educazione dei giovani, mettendo in rilievo l'efficacia che può avere su di essi l'esempio dei genitori e dei maestri".
Ne sono rimasto piacevolmente colpito: con un linguaggio piuttosto "accessibile", l'autore lamenta la cattiva educazione e il cattivo esempio che molti genitori danno ai loro figli. I vizi dei grandi, dice il poeta, non possono non essere trasmessi anche ai figli: gioca il figlio del giocatore, è ghiotto il figlio del crapulone; nessuno potrebbe imparare la mitezza in casa di Rutilo, che trova divertente bollare a fuoco schiavi tutto il giorno, così la figlia di Larga non può che essere adultera. Quando i vizi sono in casa, chi in quella vive e cresce fa presto a impararli.
Trovo che tutto ciò sia di un'attualità incredibile; Giovenale tratta questi argomenti con degli esempi che chiariscono ancora meglio le sue posizioni:
"Cretonio si sentiva un costruttore nato; ed ora sul curvo lido di Gaeta, ora in cima alla rocca di Tivoli, ora sui monti di Preneste, faceva costruire alte ville con marmi greci e di terre lontane, superando in bellezza il tempio della Fortuna e quello di Ercole. A furia dunque di costruirsi palazzi, Cretonio finì col dimezzarsi il suo patrimonio e compromettere la sua fortuna; e tuttavia la parte che gli era rimasta non era piccola. Ebbene, s'incaricò di darvi fondo il figlio pazzo, costruendo nuove ville con marmi ancora più belli."
È incredibile quanti insegnamenti si possono trarre anche solo da quest'esempio, per non parlare poi dei consigli e dei suggerimenti dell'autore:
"Se qualcuno mi chiede un consiglio, gli dico io che proporzioni debba avere la ricchezza. Ecco: dev'esser tanta quanta è sufficiente a vincere la sete, la fame e il freddo, quanta, o Epicuro, ti bastava nel tuo piccolo orto; quanta ce n'era, ancor prima, in casa di Socrate. Mai la natura ha un linguaggio e la sapienza un altro."
Quante cose si possono imparare da un autore così "antico", ma nello stesso tempo così moderno; il problema è che non si trova il tempo per leggerne e approfondirne gli scritti, poiché si è subito impegnati nello studio di un altro autore.
Studiare meno autori ma capirli e trarne insegnamento è più logico che studiarne di più senza i necessari approfondimenti, e quindi senza poterne trarre la giusta "lezione".
Nel quattrocento si pensava che l'uomo contemporaneo, pur non essendo grande come l'uomo del passato, potesse vedere più lontano poiché gli saliva sulle spalle: facciamo in modo che questo sia vero, e cerchiamo di imparare anche noi da quelli che sono vissuti prima di noi!


6. (INGLESE)

"... era un bravo ragazzo, anche se non studiava abbastanza; molto timido, molto svagato, durante le lezioni guardava sempre nel vuoto. Qualche giorno fa abbiamo consegnato le pagelle, e da quel momento lui non si è più presentato a scuola, è sparito. Mi hanno riferito come è stato trovato, e ne sono rimasta profondamente colpita: come può un ragazzo così giovane compiere un qualcosa di così tremendo!"
(Corriere della Sera, 7 febbraio 1997)

Questa è la reazione di un'insegnante di II liceo di fronte al suicidio di un suo allievo, impiccatosi nella cantina di casa sua dopo aver ricevuto la pagella scolastica contenente tre insufficienze.
Credete che si tratti di un avvenimento isolato, che nessun adolescente possa reagire in questo modo di fronte alla vita e alla scuola?
Ogni anno si suicidano centinaia di ragazzi, e una gran parte di questi lo fa per problemi scolastici! Il terrore che gli studenti hanno nei confronti di alcuni professori, delle interrogazioni e dei compiti in classe molte volte li porta alla tristezza, alla paura, all'apatia, alla depressione e, per fortuna solo in alcuni casi, al suicidio.
In effetti, non ha molto senso insegnare le discipline scolastiche agli studenti quando poi questi si dimenticano qual è la cosa più importante di tutte: la vita, e con questa la felicità.
Mi fa quasi ridere: avere il terrore di imparare! Quando vedo un compagno di classe triste e avvilito per aver preso un quattro in un'interrogazione, cerco di spiegargli che in fondo non è così importante un voto, che se fra qualche anno ripenserà a questo momento, molto probabilmente ci riderà sopra; ma non c'è assolutamente niente da fare, rimarrà triste per tutto il giorno, e magari anche per qualche giorno successivo!
E' così che la scuola riesce a rubarci gli anni migliori: c'è chi dice che se non studiamo adesso non lo faremo mai più, che a quarant'anni sarà molto più duro passare del tempo sui libri, che si deve studiare da giovani. Ma quanta voglia avremo a quarant'anni di passare delle giornate fuori al sole correndo e facendo sport, di uscire con gli amici e tornare alle cinque di mattina, di fare un viaggio con il solo biglietto di andata, poi si troverà il modo di ritornare!
Dalle esperienze si imparano un sacco di cose, molte di più di quanto non si impari a scuola! E' presunzione il credere che non si possa imparare nulla se non sui libri. Il giusto sarebbe una via di mezzo, ma la scuola, impostata come lo è adesso, non lo rende possibile; cinque ore ogni mattina, per sei giorni la settimana, più almeno due ore e mezza di studio pomeridiano (per uno studente medio): non vi sembra siano tante? Non vi sembra che andrebbero dedicate più ore all'esperienza diretta della vita libera?

"Mentre altri si riempiono la memoria di una quantità di parole inutili, che dimenticheranno prima di una settimana, l'ozioso può imparare qualche cosa di veramente utile: suonare il violino, riconoscere un buon sigaro, parlare con garbo e naturalezza a tutti i tipi di uomini. [...] provate a ricordare i tempi della vostra scuola, sono sicuro che non rimpiangerete le intense, vivide, istruttive ore in cui avete marinato le lezioni. Piuttosto cancellereste volentieri certi opachi momenti, in classe, vacillanti tra il sonno e la veglia. Per quanto mi riguarda ai miei tempi ho assistito ad alcune buone lezioni. Ricordo ancora che il roteare della trottola è un caso di stabilità cinetica, che l'enfiteusi non è una malattia, né lo stillicidio un crimine. Eppure anche se non rinuncerei volentieri a questi brandelli di scienza, non mi sembrano importanti quanto certi rimasugli della mia vita vagabonda, quando marinavo la scuola.
(Robert Louis Stevenson "Elogio dell'ozio")

È bello scoprire che l'autore de La strana avventura del dottor Jekyll e di mister Hyde e de L'isola del tesoro ha scritto qualcosa di così "moderno" e anticonformista. Questo saggio, tratto dalla raccolta Virginibus Puerisque, è un'appassionata difesa di una vita libera e spontanea, contro ogni imposizione di dogmi o comportamenti; l'autore prende in esame la vita dell'ozioso e quella del diligente, mostrando i vantaggi del primo e le assurdità del secondo. Arriva in questo modo alla conclusione che, quando la natura è così noncurante di una singola vita, la cosiddetta diligenza dev'essere più di ogni altra cosa diretta alla ricerca della felicità.
Stevenson ci mostra l'incongruenza che c'è tra la necessità pratica di procurarsi il pane e la necessità morale di dedicarsi a "qualche professione remunerativa". Questa seconda esigenza porta ad un'assurda deviazione dall'obiettivo di Viver Bene, al quale si sostituisce quello "delle Monetine", scelta che porta con sé un'esistenza frenetica e arida, sintomo di scarsa voglia di vivere. Coloro che si pongono in quest'ottica "non provano il piacere nell'esercizio delle proprie facoltà se non hanno uno scopo": una tendenza che si trova spesso espressa all'interno della scuola.
E' vero, a scuola ci si imbottisce di "conoscenze" che non ci risulteranno mai utili nella vita pratica di tutti i giorni, e ci si dimentica che molte cose si possono imparare solo attraverso l'esperienza diretta, e che "... non c'è dovere che sottovalutiamo di più del dovere di essere felici...".


PERCHÉ NO?

Mi sono sempre chiesto perché le ore in un liceo scientifico siano state distribuite in quel modo: un po' assurdo, se si pensa che si fanno 9 ore di discipline scientifiche e 14 di discipline classiche, ma soprattutto per il fatto che nella cultura di base di stampo scientifico che il mio liceo pretende di dare, è compresa la conoscenza della lingua latina.
Sono d'accordo sul fatto che il latino contribuisca allo sviluppo della logica, ma, per quanto riguarda l'esercizio logico, un'ora di matematica fatta bene vale almeno 10 ore di latino! Personalmente trovo molto affascinante la letteratura latina e, per quello che ne so, anche la letteratura greca, ma perché continuare a tradurre autori difficili quando si possono benissimo apprezzare già tradotti?
"I classici latini e greci, per esempio, sono stati tradotti e commentati innumerevoli volte e sono disponibili in ottime edizioni economiche non scolastiche. Perché nei licei si continua a fare finta che questi libri non esistano e che un testo di Cicerone o Tucidide possa essere tradotto così, sapendo appena un po' di grammatica, col solo aiuto del vocabolario e in un paio d'ore? Come si fa a credere che degli adolescenti che non sanno quasi niente di cultura greca e latina, hanno letto solo qualche romanzo contemporaneo e sfogliano a malapena i giornali, abbiano una tale padronanza dell'italiano da tradurre un passo di Tacito o di Demostene?" (Alfonso Berardinelli "Lezioni di noia").
E poi, in base a cosa le materie sono definite di "cultura generale"? Ad esempio, perché tra le discipline umanistiche non sono affatto contemplate la musica e il teatro? Che cos'hanno di meno del latino, della letteratura e dell'arte? Molti studenti non hanno nemmeno idea di come sia piacevole e rilassante ascoltare un'opera di Mozart o un concerto di Beethoven o Chopin, o una vertiginosa sonata di Rachmaninov! Ma, a dire la verità, non oso immaginare cosa sarebbe se la musica fosse insegnata così come si pretende di insegnare la poesia o l'arte.
"... dato che siamo nel paese delle belle arti, perché non fondare la cultura umanistica più sulla musica o sulle arti visive che sulla letteratura? Perché non cominciare fin dall'inizio a prescrivere l'ascolto di Pergolesi e di Rossini, lo studio di una decina di quadri e di palazzi rinascimentali e barocchi nelle vicinanze? Non si tratta di muoversi in gruppo, in gita scolastica, come un branco di alienati e di coatti. Queste cose si fanno da soli o in due." (Alfonso Berardinelli "Lezioni di noia")
E la politica? L'"educazione civica", come viene definita, dovrebbe essere insegnata dal professore di storia e filosofia ma, per quello che ricordo, l'unica "educazione civica" che ho mai fatto a scuola è stato l'imparare a memoria due o tre leggi, lo studiare a grandi linee il funzionamento del parlamento e... e basta! In un paese dove viene proposto un referendum come "elezione alla camera dei deputati, abolizione del voto di lista per l'attribuzione con metodo proporzionale del 25% dei seggi" non è accettabile che degli studenti maggiorenni, e quindi votanti, non abbiano neanche idea di che cosa siano il sistema proporzionale e il sistema maggioritario.
Poi ci si lamenta del fatto che gli italiani disertino le urne: se uno non ha la benché minima idea di cosa comporterà il proprio voto, o si astiene o vota senza pensare! Certo, la scuola italiana non si preoccupa mica di tenere dei corsi su come votare e su cosa significhi il votare, tanto i ragazzi votano quello che vedono di più in televisione, o quello che ha più manifesti sui muri, o quello che i propri genitori consigliano loro... se la gente non pensa, è molto più comodo!
E l'inglese? In 5 anni si fanno 476 ore di inglese contro 560 ore di latino! Eppure una persona per lavorare deve saper parlare in inglese, mentre del latino...
E l'informatica? Un ragazzo esce dal liceo scientifico con qualche piccola base di Lotus e Pascal. E ms-dos? E Windows? E internet? Il liceo pretende di fornire una cultura di base tralasciando il computer, in un mondo in cui già ora, e figuriamoci fra dieci anni, si lavora praticamente solo con quello?
Ci si adegua alle normative europee con la riforma dei cicli, l'innalzamento dell'obbligo scolastico e la nuova maturità quando la scuola non riesce nemmeno a fornire un'adeguata conoscenza dell'informatica e della lingua inglese?
Io trovo sia una follia!

In cinque anni di liceo, ho osservato tutto ciò che accadeva a me, ai miei compagni e ai professori; ho ragionato su quanto fosse illogico spendere ben più di metà giornata sui libri, soprattutto se poi il ricavato di tale fatica era così insignificante; ho litigato con compagni che "aderivano" alla filosofia del "metterlo in quel posto agli altri, così a me andrà meglio"; ho visto ragazzi distrutti da una brutta pagella; ho capito che il saper pensare è molto più importante dell'imparare a memoria; ho imparato che sopportando non si cambia nulla, che bisogna lottare, ma non da soli e in silenzio... ho cercato di imparare dalla scuola ciò che lei non mi ha voluto insegnare: la felicità, perché "un uomo felice non ruba né ammazza, un principale felice non opprime i dipendenti, una donna felice non brontola in continuazione con il marito e i figli. I delitti, l'odio, le guerre si possono spiegare con l'infelicità." (Alexander S. Neill)

Mi piacerebbe che la storia continuasse in questo modo:

"... così ci si rese conto di ciò che non andava bene, e qualcosa cambiò...".