NO ai finanziamenti alle private!
Più soldi alla scuola pubblica!

Modello di volantino per collettivi. REDS, 11 dicembre '99.


Il governo dell'Ulivo aveva posto la scuola tra gli obiettivi primari del suo programma, suscitando enormi attese e consensi nell'opinione pubblica. Ma i provvedimenti che prima il governo Prodi e poi D'Alema hanno adottato, aldilà dei proclami altisonanti e assolutamente demagogici ("bisogna investire nella scuola pubblica"), vanno tutti nella medesima direzione: favorire la privatizzazione della scuola, così come di altri settori dello stato sociale. In sostanza il governo si comporta da ligio esecutore delle direttive di Confindustria e gerarchie ecclesiastiche, alleate tra loro e volte a mettere in discussione il ruolo istituzionale della scuola pubblica per avere spalancata la via al mercato dell'istruzione e della formazione.
In tutto il mondo, Italia compresa, l'educazione è una delle aree dove gli stati spendono di più ed è dunque un terreno potenziale di privatizzazione. È l'ultima frontiera per l'avventura del profitto: si tratta, per la borghesia italiana come per il capitalismo internazionale, di una fetta di mercato potenzialmente vasta, di importanza centrale per l'intera economia. La crescente diffusione della tecnologia riduce la quantità di produzione lavorativa che non richiede addestramento. Le imprese dimostrano perciò un interesse sempre maggiore nella formazione orientata alla produzione, quella che meglio risponde alle necessità dell'impresa. Va da sé che quando l'istruzione si privatizza ed acquisisce fini commerciali, le aree didattiche, culturali e sociali perdono interesse: per la borghesia nazionale o delle multinazionali è bene che un sistema educativo non formi cittadini critici.
Nei Paesi sviluppati come il nostro il primo passo, già da tempo compiuto dai governi di centrosinistra, è stato quello dei tagli al bilancio della P.I., fatti con la giustificazione dell'assottigliamento dei margini per essere competitivi (parametri di Maastricht), accompagnati da un incremento dell'istruzione privata, o dell'attenzione rivolta a essa.
Questa è la realtà che sta dietro alle sirene della modernizzazione, alle lusinghe del mercato. Nel nostro paese, la nuova offensiva sulla scuola della borghesia liberale (cioè progressista!) o liberista che sia, con tutte le sue mistificazioni linguistiche, si salda alle antiche mire del clero cattolico e trova espressione nella politica del governo di centrosinistra. E per giustificare questa offensiva, che si traduce in tagli al bilancio, riforme varie e legge di parità, il ministro della P.I., Berlinguer, si richiama appunto alle necessità imposte dalla globalizzazione. In una lettera a Repubblica: scrive: "il tema della liberalizzazione estrema dell'istruzione è sul tappeto, anche in forma pericolosa. Guai ad eluderlo o ad affrontarlo da nostalgici e conservatori, pena una sconfitta devastante. Guai ad ignorare che organizzazione virtuale e globalizzazione possono anche offrire grandi e nuove opportunità. Mentre ci si accapiglia sulle dimensioni delle classi, all'orizzonte si profilano aule senza confini. [...] Noi in Europa abbiamo l'istruzione per tutti, prevalentemente fornita dai sistemi pubblici. Essi devono restare pubblici. Vanno sburocratizzati e vitalizzati da una vera permeabilità al mercato, ma non spazzati via in nome di un'irrealizzabile ideologia liberista. [...] Speriamo che anche in Italia si possa uscire dai nostri confini e da una querelle pubblico-privato divenuta ormai asfittica: la dimensione del confronto non può che essere europea, sulla linea di un rapporto tra pubblico e mercato tracciata a Firenze nell'incontro tra i leader progressisti".
Ecco la chiave di lettura per le varie iniziative di riforma: autonomia delle istituzioni scolastiche e delle università, dirigenza manageriale, riordino dei cicli. Buon'ultima la legge di parità scolastica, con tutti i suoi oneri per lo Stato, strenuamente difesa dal ministro.
La legge di parità approvata al Senato si fonda su un principio inaccettabile: entrano a far parte del "sistema pubblico dell'istruzione e della formazione", le scuole private che "si definiscono scuole pubbliche paritarie". Quando si afferma e si riconosce che le scuole private, pur essendo scuole di tendenza (e come tali non accessibili a tutti e con regole diverse dalle scuole pubbliche), svolgono un servizio pubblico, ogni ulteriore pretesa è legittimata! Infatti, in palese contrasto con la Costituzione, che all'art. 33, comma 3, recita: "Enti privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato", il testo approvato dalla maggioranza stanzia oltre 300 miliardi a carico dello Stato a favore delle scuole private, ai quali si aggiungono ulteriori oneri previsti dalle Regioni e dagli Enti.

Ma non è finita: nella Finanziaria all'esame del Parlamento è previsto uno sgravio per i contributi dei dipendenti delle scuole private, richiesto dai Popolari e accettato da gran parte delle forze della maggioranza e dal Polo.
Per far digerire questi bocconi, il governo le tenta tutte, anche il ricatto della "minaccia della destra". Vien detto che la maggioranza di governo, che si regge su un compromesso politico tra laici e cattolici, deve concedere la parità scolastica alle private pur con limitati finanziamenti, che sarebbero maggiori, date le pressanti richieste della chiesa, se al governo andassero le destre.
Rigettiamo questo ragionamento, non solo perché non è bello subire ricatti, ma anche perché le cifre stanno a dimostrare che già in passato e ancor più oggi si son date e si danno alle private ingenti risorse che non sono così andate e non vanno a sostenere il miglioramento della scuola pubblica.
Falsa è inoltre l'affermazione che finanziare le private significa un risparmio da parte dello stato, che avrebbe da "mantenere" meno studenti nelle proprie strutture. Al termine di questo ragionamento c'è la fine dello stato sociale, del contratto cioè secondo il quale, almeno in teoria, alcuni servizi e diritti essenziali sono assicurati a tutti nella stessa misura. Nel campo della scuola questa logica di disinvestimento da parte dello stato porta alla situazione statunitense dove alla scuola pubblica sono state destinate sempre meno risorse, finché oggi ci si ritrova con il mondo della scuola diviso in due: le scuole private, costosissime, per le classi agiate, e quelle pubbliche, disastrate, per i figli dei lavoratori. Certo in questo modo lo stato spende meno, ma le famiglie della classe media spendono di più e quelle della classe lavoratrice hanno una scuola allo sfascio.
Non difendiamo la scuola pubblica così com'è. Non sempre la scuola pubblica educa alla multiculturalità, lavora per la formazione di un cittadino critico, è democratica. Non sempre promuove la cultura per tutti i cittadini, superando le differenze sociali. Anzi la sua caratteristica negativa è proprio quella di essere estremamente selettiva, e di penalizzare le realtà sociali e geografiche più disagiate.
Ma non accettiamo il ragionamento che la crisi della scuola pubblica si risolva con il sostegno alla scuola privata, scuola già ricca e per ricchi, né con le pseudo-riforme messe in campo, quali l'autonomia scolastica e la dirigenza ai presidi, che hanno il solo effetto di introdurre in una scuola aziendalizzata flessibilità e aumento dei carichi di lavoro, senza che se ne migliori la qualità e si risolvano i suoi reali problemi.

Noi sosteniamo che una vera riforma della scuola non può che partire dalla lotta alla selezione che colpisce soprattutto gli studenti proletari. Mezzi indispensabili per questa lotta, checché ne dica Berlinguer, sono sempre gli stessi, mai messi in atto. Tra questi, il superamento dell'autoritarismo nei rapporti didattici, la riduzione del numero di alunni per classe, per favorire l'apprendimento di tutti. Per far ciò è inevitabile che si stanzino più fondi alla scuola pubblica. Berlinguer che a tutti coloro che la pensano come noi dà dei "nostalgici conservatori" fa nei testi che disegnano la sua riforma esplicito riferimento all'alto tasso di "insuccessi" scolastici ed al basso numero di diplomati in Italia. La soluzione trovata dal nostro grande riformatore, con il riordino dei cicli (ma anche con l'autonomia e la parità), è in sostanza una: "offrire" all'enorme platea di coloro che sono rifiutati dalla scuola o che non ne sono "attratti" infinite possibilità "professionalizzanti".
Il settore sociale al quale è rivolto in gran parte l'intero impianto di riforma, col plauso interessato di confindustria e salesiani, è proprio quello delle fasce a più basso reddito, i cui figli vengono bocciati o non vanno a scuola. Per evitare abbandoni e insuccessi scolastici, si fissa l'obbligo scolastico a 15 anni, e si integrano alla scuola entità di formazione, pubbliche o private (CFP ad esempio), o direttamente le aziende. In tal senso viene introdotto l'obbligo formativo a 18 anni, che "si articola in corsi successivi all'obbligo scolastico ovvero tramite l'apprendistato e si conclude con il raggiungimento di una qualifica professionale". I giovani degli strati sociali più bassi saranno costretti a subire condizionamenti di vario tipo: potranno essere invitati dalla scuola stessa, che diverrebbe una sorta di agenzia interinale, a legarsi con un contratto di apprendistato a una ditta; a subirne passivamente lo sfruttamento, dato che solo la buona opinione della ditta potrà consentirgli di ricevere il diploma di qualifica.
Con questa riforma la scuola rinuncia a essere il luogo dove riflettere criticamente sull'attività lavorativa, per soddisfare supinamente le necessità dell'impresa. Per i figli dei quartieri popolari insomma non si prospetta una scuola diversa, che li aiuti a superare il gap sociale e culturale (con interventi di sostegno didattico, borse di studio, con l'impostazione di una scuola che aiuti a crescere e che non bocci), ma strutture che propongono loro l'unica cosa che le fasce sociali alte immaginano possano fare quelli delle fasce più basse: manualità, "moduli improntati al saper fare", "percorsi professionalizzanti", ecc. Si vuole evitare l'abbandono della scuola per la fabbrica, semplicemente facendo entrare la fabbrica nella scuola.