La riforma che piace agli imprenditori europei.
Più
qualità. E costi più bassi. È anche la ricetta della Confindustria.
Che plaude a Berlinguer. Di Romeo Bassoli, da L'Espresso. 17
Febbraio 2000.
Riportiamo l'articolo-intervista di Romeo Bassoli sull'Espresso
con Attilio Oliva (responsabile Confindustria per l'Educazione) in cui viene
difesa l'iniziativa politica del ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer,
non quale modello perfetto di scuola, ma come primo passo decisivo verso l'aziendalizzazione.
La regressione dall'homo sapiens all'homo faber (aldilà delle belle parole
messe sulle righe) è il modello educativo a cui pensa la borghesia. Dal
documento londinese sulla scuola della Confindustria europea è messo
nero su bianco quanto da anni i critici al governo in carica e, nello specifico,
alla riforma scolastica approntata vanno dicendo: il centrosinistra attua le
politiche suggerite dal padronato. Sul piano dell'istruzione la borghesia vuole
poche semplici cose: privatizzazione, concorrenza, contenuti scolastici improntati
al "saper fare", personale educativo "selezionato", il tutto
funzionale al modello sociale neoliberista della flessibilità e della
precarizzazione senza tutele né diritti. E la prima tutela che si intende
eliminare è quella culturale, della conoscenza di sé, della realtà
e del mondo, che è o dovrebbe essere obiettivo prioritario di un sistema
educativo moderno e democratico. Come interpretare diversamente la frase di
Oliva "non vogliamo ragazzi semplicemente istruiti", se non che ciò
che va colpito è la capacità critica dei soggetti in crescita?
Cosa pensano gli industriali italiani della riforma della scuola di Luigi Berlinguer? «A noi va benissimo, anche se non basta», risponde Attilio Oliva, presidente della commissione scuola della Confindustria: «È un buon primo passo verso una riforma ancora più radicale del sistema dell'istruzione». Oliva ha appena presentato, a Londra, assieme alle associazioni degli industriali di sette paesi (la Confindustria italiana e le sorelle austriaca, danese, francese, tedesca, olandese e britannica), un documento che indica i lineamenti di una riforma europea della scuola gradita agli industriali.
Ma la sortita cade nei giorni della riforma più radicale della scuola italiana da 77 anni a questa parte, che gli industriali mostrano di gradire: sono d'accordo con l'accorciamento degli studi e il diploma a 18 anni («evita i problemi di riconoscimento dei titoli di studi con gli altri paesi europei e dà ai diciottenni italiani le stesse chances dei loro coetanei»), con la sparizione della scuola media («speriamo che prevalga lo schema delle elementari»), con i due anni di orientamento dopo il primo ciclo («per aiutare i ragazzi a scegliere»). E va benissimo anche la valutazione degli insegnanti, che debbono essere chiamati a rendere conto del loro lavoro.
Quello che manca («ed è un buco spaventoso», spiega Oliva) è la chiarezza sulle finalità: «Occorre un dibattito parlamentare che dica cosa vogliamo dalla scuola. Ragazzi semplicemente istruiti? O anche in grado di saper lavorare con gli altri, capaci di imparare per tutta la vita, competenti? Non c'è un orientamento chiaro».
Il documento degli industriali europei è un manifesto che indica ai governi e all'Unione europea un percorso di riforma comune. «In Italia siamo convinti di essere gli ultimi del continente nella scuola, ma non è così», dice Oliva. È vero invece che abbiamo una delle scuole più costose: spendiamo per ogni studente della fascia dell'obbligo il 20 per cento in più della media europea: «Ma abbiamo anche una scuola che dà molte conoscenze, anche se poi non insegniamo ai ragazzi come servirsene. La nostra scuola pensa ai giovani più come a bottiglie da riempire di nozioni, che come a candele da accendere di intelligenza». E gli altri?
Gli inglesi sono convinti che la loro scuola sia sull'orlo del disastro, costellata di diseguaglianze profonde. Tutti gli altri sentono di dover superare il gap tra una scuola chiusa in se stessa e le richieste che vengono da un'economia sempre più basata sulla conoscenza. Che fare, allora?
Prima di tutto va decisa la missione della scuola, sostengono gli industriali. «Noi crediamo che debba rispondere ai quattro pilastri indicati dall'Unesco: i ragazzi debbono imparare a conoscere, a fare, a vivere con gli altri, a sviluppare le proprie capacità personali». Per questo occorre che si sviluppi da un lato il massimo di autonomia gestionale delle scuole e dall'altro il controllo centralizzato del lavoro scolastico sulla base di standard precisi. Perché «si deve sentire finalmente il soffio della competizione, tra gli istituti e anche tra i diversi sistemi scolastici».
L'autonomia a cui pensano gli industriali va al di là di quanto realizzato finora da Berlinguer («che ha comunque spezzato l'impianto accentratore», commenta Oliva). La proposta delle Confindustrie europee prevede che ogni istituto possa decidere sul bilancio, la gestione, la didattica e assuma gli insegnanti che meglio crede. Il preside dovrebbe essere eletto dal corpo docente. «Una cosa simile esiste in parte solo in Austria, Olanda e in Gran Bretagna (ma qui solo dal '90). In Italia è prevista solo l'autonomia didattica e organizzativa», spiega Oliva.
L'altro grande nodo è quello della valutazione. Indipendenti, gli istituti possono organizzare la loro offerta in concorrenza con quella degli altri. Si svilupperebbe quindi una spinta verso programmi sempre più moderni, agganciati al mondo delle professioni e alla cultura viva del paese. «Dobbiamo garantire ai ragazzi di uscire da qualsiasi scuola con alcune competenze standard: se non accade, si deve intervenire. In Gran Bretagna, il governo ha verificato che tre scuole pubbliche di una zona di periferia non davano queste garanzie e le ha affidate a un privato».
Il controllo di qualità, sostengono gli industriali, va affidato a un ente totalmente autonomo, anche dal ministero. È il modello inglese. Il governo di Londra ha realizzato nel '92 una struttura che ispeziona ogni quattro anni tutte le scuole per garantire che il rispetto degli gli standard nazionali. E così è in Danimarca e in Olanda, mentre non c'è ancora nulla di simile in Germania, Francia e Austria.
«In Italia, da luglio, esiste l'Istituto nazionale per la valutazione», spiega Oliva: «non è ancora autonomo dal ministero, ma è un passo avanti». La valutazione dovrà riguardare anche gli insegnanti. «In Italia si è scatenato un putiferio quando il ministro ha deciso un aumento di stipendio sulla base della verifica delle capacità dei docenti», commenta Oliva, «ma questa è la strada giusta. Nessuno in Europa l'aveva fatto. La Gran Bretagna è stata la prima a decidere di seguirci su questa strada, altri lo vogliono fare».
Gli industriali sono certi che quando la scuola europea avrà realizzato queste riforme avrà da una parte la massima spinta alla competizione dall'altra garanzie e certezze uguali per tutti. Sarà una scuola meno statalista di quella attuale: in Europa, infatti, l'80-90 per cento dell'istruzione è ancora in mano pubblica. Ma il tabù dovrebbe cadere.
A quel punto, affermano le "sette sorelle", la scelta deve essere fatta dalle famiglie. Sono loro che debbono orientare i finanziamenti. Come? Rendendo pubblica la valutazione sui risultati dei diversi istituti. Le famiglie iscriveranno il proprio figlio in quella o quell'altra scuola. E lo Stato distribuirà i finanziamenti sulla base delle iscrizioni e dei progressi compiuti da ogni singolo istituto. «Sarà la domanda a orientare i finanziamenti».
Questa riforma è già scattata in Gran Bretagna, Austria, Olanda e, in parte, Danimarca, Francia e Germania. In Italia no. Da noi, il controllo di qualità, il nodo della riforma europea, è ai primi passi.