Devolution? No, grazie.
La regionalizzazione è la logica conseguenza della politica sociale del centrosinistra. REDS. Giugno 2000.


Quello descritto dai compagni di "Class Struggle" nel loro saggio dal titolo Stati Uniti - L'impresa privata all'assalto della scuola pubblica (pubblicato nei numeri 31 e 32 e 33 di Reds) costituisce un illuminante esempio di come la decentralizzazione amministrativa e finanziaria nel settore dell'educazione (un'aspetto della devolution auspicata da Polo e Lega in Lombardia) possa seriamente rappresentare una fonte di disparità nei finanziamenti e nelle sovvenzioni alle scuole, a favore di scuole di tendenza e a discapito di scuole situate in aree disagiate. Con la ristrutturazione amministrativa, cioè il passaggio di funzioni e poteri dallo stato alle regioni sempre più autonome partorito dal centrosinistra (legge Bassanini), anche le possibilità di perequazione ed equità nei finanziamenti si fa più aleatoria. Non abbiamo in questa sede alcuna intenzione di analizzare il rapporto tra centralismo, decentramento e federalismo, o di prendere posizione per una di queste soluzioni, ma semplicemente cerchiamo di affrontare il nodo delle conseguenze di questi provvedimenti sul sistema dell'istruzione pubblica e quindi di capire quali le penalizzazioni per le classi popolari che la loro adozione comporta o può comportare.

Le regioni hanno, nel corso di questo e dell'anno passato, diretto la gestione del dimensionamento delle istituzioni scolastiche in regime di autonomia, cioè gli accorpamenti di più scuole a seconda delle esigenze, ma meglio sarebbe dire opportunità territoriali. Le regioni inoltre hanno il controllo della formazione professionale, in attuazione della Bassanini. Una legge per la scuola statale e nazionale, come il riordino dei cicli, apre nuove prospettive e amplia ulteriormente i poteri di intervento delle regioni, soprattutto sul piano della gestione delle risorse "umane", strumentali e finanziarie. Essa infatti prevede l'obbligo formativo a 18 anni, amplia. La Lombardia formigoniana e bossiana, che più di ogni altra regione vede sul suo territorio la presenza di scuole e di aziende produttive, è all'avanguardia in questo processo e ripone per diversi motivi enormi speranze nel controllo del sistema formativo ed educativo tout-court.

E' della settimana scorsa il convegno milanese sull'autonomia scolastica promosso dalla Direzione regionale della Pubblica Istruzione, il nuovo organismo amministrativo che sostituisce i Provveditorati nella gestione delle strutture scolastiche. In quella sede Formigoni ha lanciato la sua parola d'ordine: devolution, cioè dismissione di competenze dello stato, nella sanità e nella formazione (già in atto), nella sicurezza, nella scuola, nel fisco.... In assenza di una riforma costituzionale organica accentuata dal fallimento della bicamerale il federalismo abbracciato ormai da ampi settori politici avanza, o cerca di avanzare, pezzo per pezzo. Di fronte a una platea di burocrati, politici e insegnanti, Formigoni in merito alla questione specifica della scuola ha sottolineato: "La Lombardia vuole una chiara devoluzione alle Regioni di tutte le competenze sulla scuola e la formazione". Tutte le competenze vuol dire che, mentre lo stato si limita a "funzioni di controllo sul rispetto delle leggi", dovranno dipendere dalla Regione le strutture, il personale, i programmi ecc. Si fanno meno fumosi e più concreti i disegni della "scuola padana" da un lato e dell'avanzata delle scuole private laiche e cattoliche dall'altro, in nome del "diritto inalienabile di libertà di scelta". Per tutto ciò, conclude Formigoni, "il presupposto certamente è il federalismo fiscale".

Le reazioni della sinistra e del centrosinistra a queste posizioni sono ovviamente e giustamente di critica e indignazione, ma risultano alquanto pietose. In fondo non si tratta che di portare alle estreme conseguenze un processo avviato proprio dai governi sostenuti da quelle forze, con la complicità o la tacita approvazione delle forze sociali, da confindustria ai sindacati. Ancora oggi sentiamo dire che l'opera di ristrutturazione amministrativa, di riforma della scuola, della sanità, ecc. era giusta e doverosa, benché le resistenze corporative, la gestione politica dei processi, ecc. rischiano di far precipitare le cose.
Che le cose andassero cambiate siamo pienamente d'accordo. Ad esempio, non era e non è accettabile una scuola fortemente selettiva che penalizza in base all'estrazione socio-culturale (come riconosce un'inchiesta dello stesso ministero della P.I.). Sicuramente degli interventi erano non solo necessari ma urgenti; solo che noi non crediamo che la strada che è stata scelta dal centrosinistra, ispirata alla filosofia liberista, vada nella direzione di migliorare veramente il sistema educativo. Non ci pare che tale strada sia in grado di garantire a tutti e a tutte pari opportunità e diritti aldilà di ogni differenza di classe, di genere, di origine, di cultura, di orientamento, sessuale, politico, religioso, ecc. In altre parole non porta a un potenziamento e un allargamento del pluralismo nell'istruzione coniugato all'innalzamento reale del livello generale di istruzione, alla lotta alla selezione, cose per cui sarebbe necessario e prioritario stabilire condizioni più favorevoli all'intervento educativo stesso, cominciando col ridurre il numero degli alunni e delle alunne stipate in un una classe. Ma pur ammettendo (e non concedendo) le buone intenzioni dei "riformatori" (Bassanini, Berlinguer, ecc.) e dei loro sostenitori, le loro lamentele di fronte alla spocchia di un Formigoni sono tragicamente grottesche. Nando Dalla Chiesa, ad esempio, sostiene: "L'accordo tra Polo e Lega prevede che si proceda come si è fatto per la Sanità: un sistema scolastico regionalizzato, nel senso che ogni Regione connoterà le proprie scuole, anche sul versante dei contenuti, dell'offerta formativa. E' una fuga in avanti. Però trovo sbagliato trincerarsi nella difesa della scuola così com'è. Per migliorarla [...] il primo passo in avanti si può fare nel campo della formazione professionale [...] L'altra carta da giocare è quella dell'autonomia scolastica". Un vero genio! Siccome i nostri riformatori hanno avuto la bella pensata di affidare alle Regioni la formazione professionale e gran parte degli interventi preparatori dell'autonomia, ora per arginare questa e altre possibili prevaricazioni delle regioni cosa si propone? Di ripartire dalla formazione professionale e dall'autonomia! Sembra un gatto che si morde la coda, oppure la rilettura di un vecchio libro horror, in cui la creatura sfugge al controllo del suo artefice, seminando sangue e terrore. Gli fa eco Giampaolo Vigolo, segretario milanese della CGIL scuola, sindacato che ha sempre avallato ogni riforma berlingueriana lamentando caso mai i ritardi nell'applicazione: "Si andrebbe verso un sistema anglosassone, dove l'insegnante deve essere culturalmente omogeneo alla comunità locale che lo assume". Ma il sistema anglosassone non è il modello di riferimento principe di ogni riforma che riguarda la scuola? Da quand'è che ha assunto questa connotazione negativa?

In pratica Formigoni vorrebbe estendere all'istruzione quelle competenze e quelle risorse che in attuazione della Bassanini già sono attribuite alle Regioni nel campo della formazione professionale: l'organizzazione dei corsi, i finanziamenti, la certificazione, il personale. In virtù del decentramento fino ad oggi la Regione ha gestito il Fondo sociale europeo (FSE), che per la Lombardia ammontava a 750 miliardi nel periodo 1994-1999, sui 10.000 destinati all'Italia. Per i prossimi sei anni si può prevedere una somma analoga. Si tratta di stanziamenti su progetti per attività formative (corsi post-diploma, "formazione iniziale per i giovani, riqualificazione, orientamento e consulenza") indirizzati a "disoccupati esposti alla disoccupazione di lunga durata, giovani alla ricerca di un lavoro, persone esposte al rischio di esclusione dal mercato del lavoro", come pure a "promuovere le pari opportunità tra uomo e donna sul mercato del lavoro specie in quei settori ove le donne sono sottorappresentate e in modo particolare le donne che non detengono speciali qualifiche o che rientrano sul mercato dopo periodi d'assenza" e ai "formatori" (vedi FSE http://www.europa.eu.int/comm/employment_social/esf/en/public/brochure/brochit.htm). Questi corsi e i rispettivi finanziamenti (provenienti al 50% dal FSE) sono gestiti e coordinati dalle regioni tramite i centri (o consorzi) per la formazione professionale (CFP), e coinvolgono, poiché ne prevedono l'utilizzo, personale docente e non docente della scuola statale e privata. Stando alle statistiche sull'occupazione è difficile poter dire che tali iniziative abbiano finora dato grandi risultati. Il recente rapporto dell'INAIL sull'occupazione stima sì che vi sono stati 854.000 nuovi posti di lavoro negli ultimi tre mesi, 133.252 dei quali in Lombardia. A questi però vanno sottratti i 437.000 licenziamenti nello stesso periodo, per cui il saldo effettivo è di 417.000 nuovi posti (in Lombardia i licenziamenti sono 74.426, per un saldo occupazionale "reale" di 58.826 nuovi posti da marzo a maggio). Ma anche queste cifre vanno prese con mille precauzioni, perché nascondono in gran parte lavoro nero che emerge (e questo è un bene), e molti casi di lavori occasionali e saltuari, anche di un solo giorno. Ciò che rende cauti i funzionari stessi dell'INAIL e i commentatori è il dato in controtendenza, rispetto all'andamento di un mercato del lavoro sempre più flessibile, nelle rilevazioni degli 854.000 nuovi posti, 672.000 dei quali sarebbero a tempo indeterminato, contro i 182.000 a tempo determinato. Lo stesso Billia avvisa che "il primo dato potrebbe essere falsato da denunce della sola data di assunzione del lavoratore e non di quella della conclusione del rapporto di lavoro". La Repubblica dell'8 giugno commenta: "Se così fosse si rischierebbe di scambiare per posti fissi assunzioni a termine, che nella maggioranza dei casi durano lo spazio di un mattino. A fronte di quei 182mila contratti a termine, infatti, il 40 per cento sono stati stipulati per un solo giorno, mentre un altro 18 per cento non supera la settimana".
Non siamo in grado di dire quanto i corsi finanziati dal FSE concorrano a creare questi "nuovi posti di lavoro"; è pur vero che si muovono dichiaratamente sul lungo periodo, e che l'ottica in cui si inquadrano è quella della flessibilità, della precarietà e dell'incertezza tipica dei contratti di formazione. Anche riuscendo a sapere quanti tra coloro che hanno frequentato uno di questi corsi hanno avuto un contratto, è difficile poterne poi seguirne gli sviluppi. Quel che è certo è che queste attività, mentre da un lato mettono in moto stanziamenti finanziari di varia provenienza, prevalentemente pubblica ma a sostegno di interessi privati, dall'altro accentuano la competitività tra le scuole per l'accaparramento delle risorse e all'interno delle scuole tra il personale che ambisce alle funzioni di formatore e ausiliario. E' un altro elemento in più nella direzione della logica privatista-aziendalista del sistema sia della formazione che dell'istruzione, che necessita strutturalmente della divisione dei lavoratori della scuola. Le dinamiche in atto fanno sì che oggi essi siano, pur con mille difficoltà, più che mai impegnati a trovare o ritrovare uno spirito unitario indispensabile per opporsi sia allo sfruttamento del lavoro sia al peggioramento della qualità del sistema scolastico italiano.

Immaginiamoci cosa potrà essere in un prossimo futuro la scuola in Italia se verrà applicato, come sembra probabile, un modello analogo a quello americano, così come è descritto dai compagni di "Class Struggle". La strada intrapresa in Italia non differisce sostanzialmente da quel modello. Il senso profondo di tutta l'operazione di decentramento è che l'onere dei finanziamenti alla scuola si riduca progressivamente per lo Stato e sia integrato dalle regioni, da altre istituzioni e da enti territoriali (stanziamenti europei, tasse locali, privati, ecc.). Il sistema giungerà a perfezione in regime del tanto auspicato federalismo fiscale. Venendo meno la funzione regolatrice dello Stato centrale, da un lato si accentueranno le disparità tra regioni "ricche" e regioni "povere" del paese e dall'altro, all'interno delle singole regioni, si rischierà di avere una distribuzione "politica" dei finanziamenti. Bossi e Formigoni non hanno che da raccogliere i frutti della scellerata politica perseguita dal centrosinistra, che si scrive decentramento ma si legge distruzione dello stato sociale. Anch'essa, come ogni altra iniziativa dei recenti governi, si rivela una truffa per le classi lavoratrici!