Dopolascuola.
Intervista ad animatrici e animatori della Associazione Cultura Popolare di Cologno Monzese. A cura della rivista online FILIROSSI. Gennaio 2001.


Come Filirossi abbiamo deciso di realizzare una serie di interviste ai gruppi che a livello milanese lavorano nei quartieri popolari organizzando attività di doposcuola per le bambine e i bambini del luogo. Per noi è una maniera di cogliere un punto di vista esterno sulla scuola e sul nostro lavoro da parte di chi vede spesso l'istituzione scuola e a volte gli stessi insegnanti come "controparte". Le nostre domande non rispecchiano esattamente quel che pensiamo, ma le opinioni che siamo soliti ascoltare dalle colleghe e dai colleghi sugli argomenti trattati qui di seguito.
Intervistiamo il gruppo di animatrici e animatori del "Dopolascuola" di Cologno Monzese che lavora in quel comune in un quartiere di case ex IACP. Invitiamo quindi i lettori ad avanzare critiche, obiezioni, richieste di chiarimento, pareri.


Quali sono le caratteristiche del quartiere?

Duilio. Ci abitano 350 famiglie in tre grossi edifici che occupano una intera via. Questa via non era segnalata in nessuna mappa, anche se esiste dagli anni settanta. Quando nel 1993 abbiamo cominciato a lavorare qui, organizzando un corso di recupero della terza media, il primo incotro di "italiano" è servito a imparare a scrivere una lettera. Era una lettera di protesta a Tuttocittà e l'abbiamo intitolata: "la via che non c'è".

Checco. In questi anni abbiamo realizzato due inchieste con la tecnica del porta a porta: risulta che il 90% delle famiglie ha il "capofamiglia" operaio. In gran parte si tratta di operai non specializzati. Il quartiere ha tantissimi giovani: la più alta concentrazione a Cologno. Il quartiere gode di cattiva fama in città, perché è considerato zona di spaccio, ecc. In realtà è semplicemente un quartiere di lavoratori, con gente che torna molto tardi dal lavoro e ragazzi che cominciano a lavorare molto giovani. Nelle inchieste abbiamo trovato un solo studente universitario.

Che tipo di intervento svolgete?

Duilio. Il quartiere ha una ricca tradizione di lotte, occupazioni, blocchi stradali, ecc. che risalgono agli anni settanta, quando gli attuali genitori dei giovani di cui dicevamo avevano figli piccoli o non ne avevano ancora. Poi con gli anni di riflusso, le condizioni di vita peggiorate, ecc. questa tradizione si è persa e ha prevalso l'individualismo e lo sconforto. Ora le cose stanno cambiando: non solo ci sono le nostre attività, ma si sta formando, con l'aiuto dell'Unione Inquilini, un Comitato Inquilini. La droga non è più il problema principale. Prima che cominciassimo l'intervento la maggioranza dei ragazzi non arrivava alla terza media. Oggi prendono la terza media e "provano" a fare qualche anno in più, gran parte di loro nei corsi professionali. Ma ce li segano in gran parte. In questi anni sono nati, si sono sciolti, sono rinati gruppi di adolescenti femmine e maschi, gruppi di autoaiuto delle donne, e il dopolascuola, che dura da sei anni, e che viene portato avanti qui, nella saletta condominiale della via.

Perché lo chiamate dopolascuola?

Marzia. Perché il doposcuola dà idea di una cosa che si fa a sostegno della scuola, una specie di prolungamento. Invece noi siamo un'altra cosa: siamo quelli che ci sono quando la scuola finisce. Per noi la scuola è una istituzione contro le bambine e i bambini.

In che senso?

Manuela. Pensa a un bambino come E. che fa la seconda media. La scuola ha già deciso che è un peso, che bisogna disfarsene. Anche lui è convinto di questo. Andare a scuola è per lui una sofferenza quotidiana: è il luogo dove trova conferma tutti i giorni della sua convinzione di non valere niente. Rispetto ai figli del quartiere qui di fronte che sono di classe media è terribilmente svantaggiato. Non ha a casa una mamma che lo aiuta e lo sostiene. Abbiamo avuto due anni fa il caso di P. che è stato bocciato in seconda elementare. Seconda elementare! Ma ci pensi? Un bambino vivacissimo, molto intelligente, ma che faceva casino. Quindi: bocciato!

Criticate le bocciature?

Silvia. La bocciatura è la dimostrazione del fallimento della scuola. Gli insegnanti ti dicono un sacco di scuse: che non ha voglia, che è svogliato, che la bocciatura serve a lui, "se fosse per me si figuri", usano parole strane come "fermare per un anno" invece di dire le cose col loro nome. La bocciatura svaluta la persona. La bocciatura è sempre un trauma tremendo e non risolve niente.

Questo è opinabile. Ci sono ragazzi che dopo essere stati bocciati trovano le energie per recuperare e dare una svolta.

Enzo. Noi diciamo che la bocciatura è come un incidente stradale. La gran parte della gente si fracassa le ossa, ma c'è una minoranza che dice: "dopo quell'incidente sono diventato migliore". Da qui non si può dedurre che quindi per migliorare la gente bisogna farla andare sotto i tram. Il compito della scuola non è di fracassare le ossa, ma di far superare gli ostacoli.

Non si otterrebbe un risultato migliore però mandando avanti ragazzi che non sanno nulla, in questa maniera si degrada la qualità della scuola pubblica.

Silvia. Bene, allora spiegatemi perché la gran parte dei bocciati è di questo quartiere. Sono tutti qui quelli che "è meglio fermarli un anno"? La scuola dovrebbe dare a tutti le stesse opportunità. Invece accade che quelli che nascono in questo quartiere sono bocciati e quelli del quartiere di fronte arrivano all'università. Non c'è un qualche problema della scuola in questo? Perché solo i ricchi ce la devono fare? Cosa sono: più intelligenti?

Non è colpa della scuola se ci sono differenze di reddito. E non è compito della scuola risolverlo.

Checco. La scuola lascia intatte le differenze di classe ed anzi le aggrava. Le differenze di classe fanno sì che la maggioranza dei figli degli operai non arrivi al diploma della scuola superiore oppure che faccia le professionali, ecc. Una scuola che non riesce a porre tutti i bambini su uno stesso piano ha fallito, è una scuola che perpetua le divisioni di classe, è una scuola classista.

Manuela. Prendi i compiti a casa per esempio. Il figlio della classe media va a casa, non sa fare una cosa e lo chiede alla madre, o al padre. Se questi non ne hanno voglia pagano uno che gli fa lezione. Ma il figlio di questo quartiere va a casa coi compiti e se non li sa fare gran parte delle volte non può chiedere aiuto a nessuno. Spesso i genitori non hanno un livello di scolarizzazione che permette loro di aiutare, spesso vengono a loro volta da storie di fallimenti scolastici. Altre volte non hanno tempo, altre volte non hanno le energie necessarie. Dare i compiti a casa significa già discriminare in senso classista: quelli del quartiere di fronte arrivano coi compiti fatti, quelli di questo quartiere no.

E perché non chiedono all'insegnante se non sanno fare delle cose? Spesso diamo i compiti con molti giorni di anticipo, oppure diciamo una settimana prima quando ci sarà il compito in classe. C'è tutto il tempo di prepararsi.

Marina. Ma questo suppone una capacità di organizzazione e di previsione che i bambini, tutti i bambini, non hanno in maniera naturale. Anche solo pianificare una settimana di studio in vista di un compito implica un addestramento che non può che venire o dalla scuola o dalla famiglia. Ma la scuola lo dà per scontato, e la famiglia spesso non lo fornisce perché anche i genitori non hanno familiarità con questo genere di problemi, o ne hanno di più grossi da risolvere. I bambini arrivano così al giorno della verifica che non si sono preparati, sono spaventati, ma non sono stati in grado da soli di organizzare la propria sopravvivenza.

Manuela. Troppi compiti al di là della loro portata. Ai bambini non interessa farli, ma portarli, fatti, comunque. Quando un bambino è da solo cosa fa? Se non ce la fa la sua autostima diminuisce. Il compito agisce contro l'apprendimento, è dannoso. Sarebbe meglio che non facessero niente. I compiti sanciscono chi è "capace" e chi no. Se io lo spiego a due e uno ce la fa e l'altro no, vuol dire che uno è "capace" e l'altro no. I compiti dovrebbero servire come verifica dell'insegnante per sapere se ha insegnato bene o male e vedere le cose da recuperare, ma se è così il voto se lo deve dare a se stessa, non ai bambini.

Se pensate che i compiti siano così negativi perché avete centrato il dopolascuola proprio sui compiti?

Marzia. Noi diciamo che i compiti sono un "ponte" tra noi e i bambini, sono la scusa per stare con loro e rafforzarli nella lotta contro la scuola. Noi diciamo: i compiti sono ingiusti, ma questa è la sfida, questa è la lotta, non puoi scappare, devi affrontarla. La tendenza dei bambini del quartiere infatti è quella di non affrontare la lotta. Scappano. La via di fuga più normale è quella di non fare i compiti, perché anche solo copiarli implica un livello di organizzazione e di previsione che non è comune. Poi appena sono un po' più grandicelli cominciano ad assentarsi, si inventano dei mali che non hanno, ecc. Aspettano che finisca l'obbligo scolastico come una specie di condanna che si deve scontare chissà perché quando si è giovani. Ma fin da piccoli devono invece addestrarsi ad affontare le sfide, guardare i problemi in faccia, individuare gli avversari, sennò da grandi magari chineranno la testa col padrone e se la piglieranno col marocchino.

Ma i bambini percepiscono la differenza tra la scuola e il dopolascuola?

Silvia. Certo. Beh, loro i compiti non li vorrebbero fare, questo è sicuro. Se dipendesse da loro qui ci sarebbe casino dal primo momento all'ultimo. La tendenza è a sfasciare tutto, a sfogarsi, a combattere tra loro. Occorre una disciplina per indirizzare lo sforzo verso l'avversario, che è la scuola. Noi glielo diciamo chiaramente, anche a quelli di sei anni quando non hanno voglia. Gli dico: non vuoi fare i compiti? Allora gliela vuoi dare vinta, lo sai che hanno deciso di farti fuori, hanno deciso che siccome tuo padre fa l'operaio tu devi essere bocciato, che sei un somaro, che non capisci niente: tu pensi di non valere niente? E allora va bene, non fare i compiti, se vuoi restare uno che subisce tutta la vita, dagliela vinta. Fai pure! Loro mi guardano seri seri, perché nessuno parla mai in maniera chiara con loro, e poi tirano fuori il quaderno e si mettono sotto. Per dieci minuti.

Marzia. G. dice che quella è la scuola grande, questa è la "piccola scuola". Nella piccola scuola c'è libertà di parola. Nella piccola scuola loro sanno che possono parlare e dire quello che pensano. Nella scuola grande invece sono abituati a dire quello che pensano faccia piacere agli insegnanti. Quando devono fare un tema si mettono a scrivere svogliatamente, noi li interrompiamo e diciamo: ma è quello che pensi tu? E loro: no, ma è quello che vuole la maestra. Loro sanno che nei temi non si può parlare sul serio di quello che uno ha in testa, in un tema non potranno mai scrivere cosa loro pensano sul serio della scuola. Con noi si sentono liberi anche di criticarci. Ci sono delle lotte all'inizio: io voglio andare con Duilio, io con Marina! E sono anche molto espliciti nello spiegare il perché, a volte è molto imbarazzante.

Checco. Prima di cominciare i compiti abbiamo lo "spazio parola". Sono quindici minuti in cui i bambini si esprimono su un certo argomento. L'altro anno l'avevamo chiamato: il momento delle arrabbiature. Dicevano che cosa in quella settimana li aveva fatti arrabbiare a scuola, noi alla lavagna scriviamo, ordiniamo e cerchiamo di far riflettere.

Duilio. In generale la scuola è vissuta da loro come il posto dove si deve star zitti. Le parole che sentono ripetere di più è: fate silenzio. Chi parla sempre è l'insegnante. Ma perché parla tanto? Siamo abituati a pensare che questo è normale, ma non è così. I bambini hanno molte cose da dire. Occorre certo ordinare le cose che hanno da dire, elaborarle e riproporgliele. La scuola dovrebbe servire soprattutto ad educare alla parola, invece educa al silenzio.

Ci pare però che sottovalutiate enormemente i contenuti della scuola. Di questo passo finisce che la scuola non insegna più niente e allora: largo alle private!

Marina. I contenuti che passa la scuola sono stupidi e inutili in gran parte dei casi. Noi certo ci teniamo che i bambini sappiano scrivere, far di conto e parlare. Ma francamente non ci pare proprio che la scuola glielo insegni. A volte ci sono scuole che con alcuni adottano una strategia molto semplice: non li bocciano, e se li trascinano di anno in anno sperando così di liberarsi della zavorra. Hanno paura che bocciandolo se lo ritrovano sul groppone un numero maggiore di anni. Così lo fanno stare a sedere come una mummia. E non fanno alcun intervento.

Enzo. Basti pensare a tutto il tempo che perdono a studiare storia. Studiano il Medioevo su testi che in realtà sono dei bigini delle scuole superiori. E' assurdo. A cosa importa ai bambini di Carlo Magno? Sono studi che servono solo a odiare la storia. E a cosa serve sapere dov'è il Brasile se non sanno nemmeno dove porta la metropolitana? Le materie delle elementari e delle medie dovrebbero partire dai bisogni e dalla realtà del bambino, partire da lì per elaborare. Cosa mi importa sapere che un bambino di seconda media non sa fare la radice cubica? Non è più importante che magari la radice cubica non la sa fare, ma capisce che la matematica è importante e divertente?

C'è tutta una discussione nella scuola sulla possibilità di certificare i saperi in maniera oggettiva. Che ne pensate?

Duilio. Non ne sappiamo niente di questa moda. A noi non interessa certificare in maniera oggettiva che i figli degli operai vanno male a scuola. Lo sappiamo già. A noi interessa che vadano bene e basta. Poi certificate quel che volete.

Dal vostro discorso viene fuori che noi insegnanti siamo una sorta di controparte. Ma dal vostro punto di vista che dovremmo fare?

Checco. A noi farebbe comodo allearci con chi ha il potere di bocciare o meno. Ma le mezze misure non ci interessano. Non si può dire: "sì, che bravi che siete, adesso che vi ho letto, boccerò un po' di meno". E no cari: non si deve bocciare e basta.

E che si fa con quello che non sa niente?

Checco. Se non sa niente è un problema che la scuola deve risolvere, come pensate che possa risolverlo un bambino? La scuola deve escludere la bocciatura dal suo orizzonte, quindi noi ci alleiamo con gli insegnanti che rifiutano per principio la bocciatura. Se uno esclude la bocciatura allora sarà costretto ad assumere un altro atteggiamento.

Ma se si fa così chi studierà più?

Marzia. E perché, la prospettiva della bocciatura ha mai spinto i ragazzi di questo quartiere a studiare? Il terrore della bocciatura è qualcosa che riguarda ragazzi che hanno dentro il senso della previsione, dell'organizzazione in vista di un traguardo. Ma per le famiglie di qua la scuola non è un traguardo, è una disgrazia. E per certi versi è proprio così. Quando verranno bocciati sarà un trauma, ma una conferma di ciò che hanno sempre saputo, che la scuola è una specie di condanna caduta sui figli degli operai e che prima la si sconta e meglio è.

Manuela. Quindi speriamo che un insegnante che legge questa intervista dica: sì, questo anno decido che non boccerò, qualsiasi cosa accada. Quello sarà un nostro alleato contro la scuola. Perché la scuola non tollera che ci siano insegnanti che rifiutano di bocciare.

Ci pare un problema che riguarda più le superiori che medie e elementari.

Duilio. Sì quello che è successo è questo. Una volta i figli degli operai venivano bocciati alle elementari e quegli altri facevano le medie. Poi si è passati a bocciare alle medie e quegli altri si beccavano il diploma. Adesso non si boccia molto alle medie ma ce li segano appena mettono il naso alle superiori. Il principio è sempre quello: segare i figli degli operai, anni fa lo facevano fin da piccoli, adesso aspettano un attimo. Il loro problema però è lo stesso: dicono: qui in Italia c'è il 30% di operai, bene, il 30% deve rimanere. Non vorranno mica diventare tutti dottori! Perché i posti da dottore li vogliono tutti per i figli loro.

La fate facile: ma se uno proprio non ha voglia di studiare? Al dopolascuola vengono tutti felici e contenti di stare sui libri?

Andrea. Ma no. L'altro giorno E. non ne voleva sapere di tirare fuori il libro. Diceva: non ho voglia! E non c'era verso.

E cosa si fa in questi casi?

Silvia. E che ne so? Non abbiamo la ricetta. Noi sappiamo quali sono i nostri principi: rispettare il bambino nel profondo, scoprire le sue potenzialità, aumentare la fiducia in se stesso, l'autostima. Ma i mezzi: mah! Ogni volta cambiano, discutiamo, inventiamo. E' una sfida continua, una lotta. Nella riunione settimanale dell'equipe affrontiamo il problema e lì si discute.

Cosa intendete per autostima?

Marzia. Questo quartiere ha delle potenzialità. I bambini hanno delle potenzialità. Noi diciamo che hanno un tesoro che è nascosto. Ma spesso loro non lo sanno, perché gli adulti dicono che non sanno, non valgono, non sono capaci. La scuola dice loro che sono somari, i genitori dicono ai vicini "sa: non è portato", e i vicini "eh, anche i miei: non hanno voglia". Chissà perché quelli che "non sono portati" sono concentrati in quartieri come questo! L'autostima è dire a se stessi: sono unico, non ce n'è un altro come me, e ho molte capacità. E' non permettere a nessuno di disprezzarti o di considerarti un asino o uno che non ce la può fare o che è condannato ai corsi professionali o a lavorare a quindici anni. Che rabbia quando gli insegnanti dicono: "cosa può fare? E beh, signora, lo vede anche lei: un corso professionale!" Ma che ci vada suo figlio al corso professionale! Invece no: i figli degli insegnanti come minimo si diplomano, e il perché non se lo domandano?

Silvia. Se uno non ha autostima, non sarà mai capace di ribellarsi, perché pensa di non valere niente e dunque che gli altri fanno bene a bastonarlo. Quando uno è bocciato qui in quartiere non si dice mai che è colpa della scuola: quando domandi a uno perché l'hanno bocciato ti dice: "per forza, non studiavo!" Ma perché non studiava? Perché quasi tutti nel quartiere non studiano?

Andrea. Anche la famiglia influisce. In una classe dove c'è gente con redditi diversi quelli senza soldi vengono individuati e derisi, e gli insegnanti non se ne accorgono. Allora tentano di rivalersi facendo i bulli.

Marzia. Dicono: io non sono capace, tutti me lo dicono, quindi è proprio così. Questa convinzione toglie energie. Ma loro hanno armi nascoste che devono tirare fuori per combattere.

Silvia. I modelli che questi bambini hanno nel quartiere è quello dei ragazzi che superata l'età dell'obbligo vanno a lavorare, così si prendono quel tocco di libertà che a scuola o in famiglia non hanno. Così sgobbano dalla mattina alla sera in lavori di merda, si comprano il macchinone, escono al venerdì sera, fanno i fighi, e i bambini vedono questi modelli, e a loro sembrano vincenti, perché sembra che fanno quello che vogliono. Quindi non danno peso alle capacità intellettuali, "cosa me ne faccio del pezzo di carta? L'importante è arrivare a 15 anni, poi vado a fare l'operaio" e finisce l'incubo della scuola dove ti facevano sentire una merda. Ci dicono sempre: perché devo andare a scuola, a che mi serve?

Sottovalutate però che la scuola ha dei limiti di cui gli insegnanti non hanno alcuna colpa: il numero di allievi per classe, ad esempio, strutture inadeguate, ecc.

Duilio. Lo sappiamo, ma quello che diciamo è: prendetevela con tutti, ma non coi bambini.

In questo ultimo anno gli insegnanti hanno lottato anche per migliorare la scuola, oltre che per il contratto.

Duilio. Bene, anche se a noi il messaggio non è giunto. Mi pare che le lotte fossero più che altro di tipo salariale.

Beh, gli insegnanti prendono stipendi vergognosi.

Duilio. Sì fate bene a protestare. Sono contento se vi danno più soldi così non sentiamo più frasi del tipo: ma chi mi paga? Perché devo fare tutto questo volontariato? Per quelle due lire che mi danno dovrei fare tutto questo sbattimento, ecc. Ricordatevi però che anche noi metalmeccanici vogliamo il salario europeo.

Non cercate un rapporto con gli insegnanti?

Silvia. Sì, perché i genitori non sono in grado di affrontare gli insegnanti. Dovremmo fare anche con loro un percorso per rafforzarli in questa lotta, ma ci vorrebbero chissà quanti anni, e intanto i figli li bocciano venti volte. Ci sono gli insegnanti che dicono: "non è di mia competenza". Ci sono quelli che (che nervoso mi fanno venire!) dicono: "non siamo assistenti sociali". Sarà anche così, però che comodo! Bocciando la gente si creano poi davvero i problemi per le assistenti sociali! A loro non interessa la classe sociale. Quando discutiamo con loro ormai siamo costretti a evitare di usare certi termini, come classe sociale appunto. A loro interessano solo i casi delle famiglie disastrate (che ci sono in tutte le classi sociali): la madre che sta morendo di tumore, la figlia handicappata, la zia prostituta, il nonno che vuole buttarsi dal sesto piano, allora lì si commuovono, ma non c'è verso di fargli capire la differenza tra un figlio loro, di insegnanti, e un figlio di operai.

Marina. Sì mi ricordo che rabbia che m'ha fatto venire una. Quando è andata la madre di F. che, voi lo sapete, ha dei problemi incredibili, senza lavoro, non hanno una lira, ecc. a parlare con la prof quella ha detto: "sa signora suo figlio avrebbe bisogno di un TUTOR". Un tutor! L'avrei strozzata. La madre non ha detto niente e poi mi ha domandato: ma chi è 'sto tutor? E quando gliel'ho detto ha fatto: e chi me lo paga?

Manuela. Poi ci sono le insegnanti che dicono alle madri: ma se suo figlio si può permettere la tuta della Nike si può permettere anche un libro. Che mancanza di rispetto!

D'accordo, però spiegateci ora perché compra la tuta Nike invece del libro.

Marzia. Ci sono un sacco di ragioni. La prima è che i figli dei quartieri popolari sentono il senso di inferiorità addosso. E allora i genitori dicono: perché mio figlio non può essere uguale agli altri? E allora gli comprano la roba firmata. E' la stessa ragione per cui il giovane operaio si compra il macchinone, gli sembra d'essere il padrone del mondo a strombazzare in giro, così non deve riflettere sul fatto che lo sfruttano e che è l'ultima ruota del carro. Per loro è una maniera di proteggere i figli, di farli uguali agli altri. Andrà anche male a scuola, non posso farci niente, ma almeno veste da signore!

Duilio. E poi cosa vuol dire comprare un libro? La gran parte della gente qui non è mai stata in una libreria a parte la cartoleria dove si prendono i libri dell'obbligo. Gli insegnanti pensano che sono tutti come loro che vanno in libreria e trovano un ambiente che gli piace, si rilassano, ecc. Ma non riescono a mettersi nell'ottica di uno che non ci è mai entrato? E' un ambiente estraneo, ostile. Dove guarda? Che libro sceglie? Che farebbe un insegnante se dovesse entrare in una fonderia? Non saprebbe dove pestare i piedi. E poi per andare in libreria tocca andare fino a Milano: è un viaggio: con la metropolitana dal quartiere alla libreria del centro ci vuole un'ora e un quarto solo per l'andata, più il biglietto: se ci vanno in due solo di biglietti partono diecimila lire. Non è impossibile, ma occorre una determinazione di ferro.

Enzo. E poi c'è una motivazione più sottile. I genitori di classe media, sono abituati a fare degli investimenti di lunga durata sui figli. Fanno un progetto e dicono: devi arrivare all'università, devi fare sto lavoro che ti farà guadagnare dei soldi o ti darà sicurezza, io ti mantengo fino a trent'anni. Ma questo non accadrà mai in un quartiere di redditi bassi. C'è una motivazione economica: nessuno qui può garantire di poter mantenere un figlio fino a trent'anni. Poi una psicologica: partono con una mentalità di sconfitti, quindi sono meno ambiziosi, e non addossano le proprie ambizioni sui figli.

In questa maniera però i genitori sono deresponsabilizzati.

Checco. Beh la maniera della scuola per responsabilizzare non mi pare dia grandi risultati. Quando i genitori vanno a parlare con gli insegnanti sono schiacciati, e gli insegnanti fanno di tutto per tenerli in un senso di inferiorità.

Marzia. E' veramente da vigliacchi! Vanno queste madri che lavorano dalla mattina alla sera che non sanno come fare a gestire i problemi dei figli, e queste prof gli riversano addosso tutta la loro rabbia per il loro figlio delinquente che non studia, non fa questo, dà fastidio a quell'altro. La madre si limita ad annuire, a dire "cosa ci posso fare", "le ho provate tutte", sono umiliate, sopraffatte, e non vedono l'ora che arrivino i quindici anni così non hanno più tutti questi grattacapi. Alcune vanno a casa e menano i figli, altre si arrabbiano, altre piangono. I genitori si sentono a disagio, sentono una che parla bene, che dice cose che non si capiscono, che squaderna sotto il suo naso quel registro pieno di votacci... non sa cosa dire, è sopraffatta, vorrebbe essere in un altro posto. Ma tutto è sotto il segno dell'impotenza, dopo che hanno sentito questa predica contro il figlio, quella madre ha gli stessi mezzi di prima per influire sulla situazione. Il figlio ascolta la predica riportata dal genitore e moltiplicata dal suo senso di impotenza, ma tutto questo casino non produce assolutamente alcun effetto perché il problema è sempre quello: se un bambino va male a scuola è perché in famiglia non ha un sostegno adeguato alle pretese della scuola: allora è l'istituzione scuola che deve trovare le risorse per metterlo al pari degli altri. Invece la scuola scarica sui genitori.

Silvia. Poi non sopporto queste arie che si danno gli insegnanti che sembra che quello che dicono è oro colato. Ma chi l'ha detto? Le mamme tornano a casa dai colloqui, guardano il bambino e sono già rassegnate; dicono: chissà quanti problemi mi darà! E si tiene già pronta al peggio e trasmette questo sentimento anche al figlio.

Marina. I colloqui poi dovrebbero essere messi in orari adatti a gente che lavora e che ha difficoltà per i permessi.

Manuela. I colloqui dovrebbero servire per ascoltare i genitori, chiedere che cosa fanno i figli, come passano il tempo, che commenti fanno sulla scuola, e dovrebbero passare il tempo a prendere appunti sui bambini, per conoscerli meglio. Gli insegnanti nei colloqui dovrebbero valorizzare agli occhi dei genitori le capacità del figlio, così quello andrà a casa e glielo dirà. Altrimenti l'insegnante non farà che aumentare l'oppressione di cui soffrono i bambini nelle famiglie.

Ci sembra un po' contraddittorio: da un lato dite che i genitori sono maltrattati, dall'altro che opprimono i figli.

Duilio. L'importante è sempre sapere da che parte si sta in uno scontro. Noi stiamo dalla parte dei più oppressi. Nello scontro tra un'insegnante che umilia una madre senza darle soluzioni concrete noi siamo con la madre, nello scontro che oppone quella stessa madre al figlio perché pensa che la cosa migliore è suonargliele o umiliarlo a sua volta, noi siamo con il figlio. Il principio è semplice. Ognuno può scegliere di essere oppressore contro qualcuno: anche un operaio verso i suoi figli, o verso un immigrato, o verso la moglie. Noi di fronte a un'oppressione stiamo sempre con l'oppresso per rafforzarlo nella sua lotta contro l'oppressore, chiunque egli sia. Anche l'insegnante è così: da una parte è un lavoratore con un salario basso: nella sua lotta per salari più alti siamo con lui (anche se detto tra parentesi non credo che dovrebbe prendere più di noi metalmeccanici), ma è anche un oppressore coi bambini, e lì allora siamo coi bambini.

E quindi se il bambino va malissimo a scuola voi non direste niente ai genitori?

Duilio. Cosa vuol dire che il bambino va male a scuola? E' la scuola che va male col bambino! Quando i bambini qui decidono di farci impazzire e ci distruggono la sede, e arrivano giù i genitori e ci vedono mezzi esauriti e con i capelli all'aria ci dicono: ma che è successo, come è andato mio figlio? Noi diciamo: suo figlio? Un angioletto! Ha studiato, è davvero molto bravo, speriamo che arrivi all'università. I bambini ci guardano stupefatti, e si domandano: "ma perché questi non sono come gli altri adulti che si fanno subito la spia tra loro?" A noi piace che si facciano queste domande, ma le risposte se le dovranno dare da soli. Altre volte ci domandano: ma a voi vi pagano? Queste idee gliele mettono in testa i genitori perché gli adulti sono abituati a pensare che nessuno fa niente per niente. Noi diciamo: no. E allora dentro di loro si domandano: ma allora perché lo fanno?

Ecco appunto: perché lo fate? Per volontariato?

Marzia, Silvia, Marina, Manuela. Noooooooo!

Silvia. Il volontariato fa del bene, aiuta le persone che hanno problemi, risolve quei problemi e tutti sono felici. Noi non risolviamo proprio niente, se gli oppressi non trovano la forza per risolvere da sé i problemi peggio per loro, noi glielo diciamo chiaramente, noi li aiutiamo a rafforzarsi nella lotta, ma non lottiamo al posto loro. Questo è il lavoro di base.

Duilio. Il lavoro di base è diverso da quello politico, sindacale, ecc. che pure alcuni di noi portano avanti in altri ambienti. Là, il succo del discorso è sempre: vieni con la mia organizzazione che è quella che risolve i problemi, votami, ecc. Insomma la delega. Qui invece noi lottiamo contro lo spirito di delega. Qui non affrontiamo direttamente i nostri avversari, ma affrontiamo gli avversari che si sono infilati nella testa degli oppressi. Col sindacato affrontiamo il padrone, con il lavoro di base addestriamo ad affrontare il padrone. La nostra è una lotta costante contro la tendenza degli oppressi a delegare.

Silvia. Noi non diamo il pesce ma insegnamo a pescare. Non hai voglia perché dici che non sei capace? E allora sta senza pesce! Se cambi idea io sono qui. Io non voglio essere un aiuto per nessuno, un sostegno, o roba simile, io sono quella che ti fa incazzare, quella che si scontra con te, quella che ti fa riflettere. Noi non siamo qui per adorare gli oppressi e dire quanto sono belli. Noi siamo qui per dire: vi state facendo fregare, i vostri valori sono delle stronzate, le vostre telenovelas fanno cagare, il vostro macchinone è ridicolo, è meglio che vi svegliate perché quelli vi fregano mentre vi sballate con il Grande Fratello.

Marina. Il volontariato è una cosa e noi un'altra. I volontari mettono delle pezze al sistema, noi invece vogliamo buttarlo giù. I volontari della parrocchia qui vicino fanno anche loro doposcuola: aiutano la scuola coi casi difficili. Tanti auguri, non li critichiamo, svolgono un ruolo utile. Il nostro però è un altro: è quello di rafforzare i bambini nella loro lotta contro la scuola. Perché la scuola li vuole cacciare fuori. E noi invece li vogliamo tenere dentro.

Non si capisce perché visto che date questo giudizio così negativo della scuola.

Enzo. Cosa c'entra? Critichiamo anche la famiglia, ma certo è meglio che vivere sotto a un ponte. Se i bambini sono fuori dalla scuola, stanno tutto il tempo a ciondolare per il quartiere e a seguire gente più grande di loro a fare stronzate. I genitori sono via per lavoro e comunque non possono seguirli. Oppure si piazzano davanti alla TV (la maggioranza di loro ha la tv in cameretta: una sciagura, una vera droga) per ore e ore e si alienano come con l'eroina. Meglio la scuola dove comunque stanno insieme ad altri coetanei con la possibilità (ma è solo una possibilità) di fare cose più utili. E anche se non lo fanno è comunque tempo liberato dal lavoro, perché molti di loro se non andassero a scuola sarebbero a lavorare. Per questo siamo per il tempo pieno non solo alle elementari, ma anche alle medie, e alle superiori. Solo così possono essere davvero parificati i ragazzi. Alle elementari dove non c'è il tempo pieno i figli dei quartieri popolari sono immediatamente svantaggiati perché ci sono i compiti e dunque va avanti solo chi ha la possibilità di essere seguito a casa, perché non c'è nessun bambino che senza uno timolo esterno molla la TV per fare i compiti. Quindi l'eliminazione del tempo pieno alle elementari è una misura classista.

Mi pare che voi disegnate il quadro di problemi che magari sono di natura locale.

Duilio. E no, calma. La nostra non è una denuncia contro una scuola. Troppo comodo cascare dalle nuvole e dire: ma davvero? Succedono quelle cose lì? Da me no, nella mia scuola no. La mia è una meraviglia. Questo vuol dire non mettersi in discussione. Le scuole dei dintorni facendo il raffronto con altre non sono certo tra le peggiori. Il quartiere è a uguale distanza da diverse scuole, inoltre alcuni bambini del dopolascuola vengono da altri paesi, perché stanno qui dove hanno le nonne, altri ancora si sono trasferiti da poco da Milano dove ci hanno raccontato i loro trascorsi in quelle scuole, inoltre non siamo l'unico gruppo che fa dopolascuola: vi sono altre entità sparse in tutta Milano e con le quali ci confrontiamo. I problemi sono gli stessi ovunque. Del resto qualcuno conosce un quartiere popolare pieno di liceali e di universitari? Certo vi sono esperienze specie nelle elementari molto positive dove c'è un certo rispetto per i bambini e dove non si boccia. Ma sono una stretta minoranza. A noi fa piacere che esistano perché mostrano un modo possibile di fare scuola anche nelle condizioni date.

Dubbi, messaggi, ultime parole?

Marina. In questo lavoro non si finisce mai di imparare. Restano molti punti interrogativi. Per esempio: siamo un ago nel pagliaio. Ci domandiamo: ma di quartieri come questo è pieno il mondo, il nostro sforzo è minimo, più vado avanti e più mi accorgo dell'enormità del compito. Anche noi solo in questa via facciamo un millesimo di quello che sarebbe necessario. Dovremmo aprire tutti i giorni, ad esempio.

Qualcuno vi ha dato una mano?

Duilio. Sì, la Cooperativa Don Lorenzo Milani, soprattutto all'inizio quando non sapevamo che pesci pigliare ci ha dato le dritte giuste.

Quali?

Duilio. Molte le trovate in questa stessa intervista.